Alle Sezioni Unite la questione dell’applicabilità in Cassazione dello ius superveniens retroattivo

Maddalena Ciccone
14 Gennaio 2016

Va rimessa al Primo Presidente della Corte, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione del riconoscimento, in Cassazione, dello ius superveniens, espressamente dichiarato applicabile ai giudizi in corso, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello ma anteriore alla proposizione del ricorso.
Massima

Va rimessa al Primo Presidente della Corte di Cassazione, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione concernente l'applicabilità, ai giudizi pendenti, dell'art. 32, commi 5 e 7, della legge n. 183 del 2010, e, più in generale, la questione del riconoscimento, in Cassazione, dello ius superveniens, espressamente dichiarato applicabile ai giudizi in corso, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello ma anteriore alla proposizione del ricorso.

Il caso

Un lavoratore adiva il giudice del lavoro per ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto e la conversione dello stesso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice accoglieva la domanda, condannando la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni maturate sino alla data della pronuncia. La Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado. Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione, invocando, quanto alle conseguenze derivanti sul piano economico dalla ritenuta conversione del contratto a tempo indeterminato, l'applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

La questione

La questione rimessa alle Sezioni Unite riguarda l'applicabilità, nel giudizio di Cassazione, dello ius superveniens retroattivo, successivo alla pronuncia resa in appello ma anteriore alla proposizione del ricorso in sede di legittimità.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione rileva una duplice ragione di contrasto.

La prima riguarda le modalità di applicazione della disciplina stabilita dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010 nel giudizio di legittimità; la seconda concerne i limiti alla formazione del giudicato parziale interno.

Punto di partenza è il costante orientamento della giurisprudenza della Sezione lavoro (cfr. Cass. 31 gennaio 2012, n. 1409; Cass. 26 luglio 2011, n. 16266; Cass. 4 gennaio 2011, n. 80; Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070; Cass. 16 febbraio 2000, n. 1709; Cass. 13 gennaio 1995, n. 398; Cass. sez. un., 22 novembre 1994, n. 9872, in Foro it., 1995, I, 126), che ammette l'applicabilità dello ius superveniens nel giudizio di legittimità alla duplice condizione che sia pertinente rispetto alle questioni agitate (pur indirettamente) nei motivi di ricorso, e che la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del ricorso per cassazione, poiché, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto tener conto dei mutamenti verificatisi in seguito. Qualora, invece, la nuova normativa sia intervenuta prima della proposizione del ricorso, in difetto di una specifica censura del ricorrente che denunci il contrasto delle norme di diritto applicate nelle fasi di merito con la nuova disciplina del rapporto in contestazione, la Corte di Cassazione non può rilevare d'ufficio tale contrasto, così come non può, senza specifica censura, rilevare la violazione di altre norme di diritto.

Con riguardo al primo motivo di contrasto, per un primo orientamento è possibile chiedere direttamente, svolgendo uno specifico motivo di ricorso, l'applicazione della nuova disciplina, sia che tale motivo sia l'unico svolto avverso le conseguenze risarcitorie disposte nella sentenza impugnata (cfr. Cass. 10 luglio 2012, n. 11635; Cass. 27 giugno 2012, n. 10781; Cass. 1 giugno 2012, n. 8890; Cass. 11 maggio 2012, n. 7221; Cass. 28 marzo 2012, n. 5010), sia che siano svolte altre censure sulle modalità di determinazione delle conseguenze risarcitorie secondo la disciplina previgente (cfr. Cass. 23 ottobre 2014, n. 22545; Cass. 3 ottobre 2014, n. 20959; Cass. 8 ottobre 2013, n. 22854; Cass. 15 aprile 2013, n. 9124; Cass. 16 luglio 2012, n. 12185; Cass. 22 giugno 2012, n. 10475).

In entrambe le ipotesi, la giurisprudenza ritiene che il motivo, nella parte in cui invoca espressamente l'applicazione dello ius superveniens, sia idoneo a impedire il passaggio in giudicato della sentenza sul punto, e che, se la normativa sopravvenuta è applicabile ai giudizi in corso, anche in Cassazione, non possa negarsi l'ammissibilità del motivo di ricorso con il quale il soggetto interessato invoca l'applicazione della normativa stessa.

A tale orientamento se ne contrappone un altro (cfr. Cass. 4 giugno 2014, n. 12568; Cass. 30 maggio 2014, n. 12207; Cass. 29 maggio 2014, n. 12109; Cass. 1 ottobre 2012, n. 16642), per il quale, ove sia invocata l'applicazione dello ius superveniens riguardo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità del termine, è necessario che il ricorso investa specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità della clausola di durata, non essendo possibile chiedere l'applicazione diretta della norma al di fuori del motivo d'impugnazione.

Alla base, v'è la considerazione che, diversamente, si consentirebbe la proposizione del ricorso per cassazione in casi diversi da quelli tassativamente previsti dall'art. 360 c.p.c., che richiede la denuncia di un vizio di motivazione o di un error in iudicando o in procedendo della sentenza di merito, il che non accade a fronte di pronunce che non abbiano applicato (né potevano farlo) norme non ancora entrate in vigore.

In merito al secondo motivo di contrasto, la questione è se la mancata specifica impugnazione, in appello, delle statuizioni della sentenza di prime cure concernenti le conseguenze risarcitorie determini la formazione del giudicato interno sul punto.

Per una prima soluzione, l'impugnazione, in appello, delle sole statuizioni sulla legittimità del termine, non determina la formazione del giudicato interno sul quantum del risarcimento, poiché l'accoglimento, sempre in grado d'appello, degli altri motivi di gravame, è sufficiente a provocare la caducazione anche delle statuizioni riguardanti le conseguenze economiche della conversione del contratto; a nulla rilevando il mancato accoglimento, in Cassazione, delle censure sulla legittimità del termine (cfr., ex plurimis, Cass. 28 marzo 2012, n. 5001).

Un secondo orientamento ritiene, invece, che, nel caso in cui in appello sia stata omessa l'impugnazione delle statuizioni sul quantum del risarcimento, solo l'accoglimento, in Cassazione, delle censure sull'illegittimità del termine apposto al rapporto di lavoro è in grado di travolgere la decisione sul quantum, mentre, una volta che la prima è stata confermata, deve ritenersi formato il giudicato interno sul capo di sentenza riguardante la misura del risarcimento del danno, non essendo consentito alla Corte di Cassazione di esaminare la seconda, nei cui confronti non è stato proposto appello (cfr. Cass. 4 giugno 2003, n. 8933).

Osservazioni

La Corte di Cassazione affronta una questione che trascende lo specifico tema dell'applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5-7, e che riguarda, più in generale, la questione del riconoscimento, in sede di legittimità, dello ius superveniens retroattivo, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello ma anteriore alla proposizione del ricorso per cassazione. Al riguardo, cfr. anche Cass. 24 luglio 2015, nn. 15582 e 15583; Cass. 27 luglio 2015, nn. 15704 e 15705, tutte in Foro it., Le banche dati, Archivio Cassazione civile, che rimettono alle Sezioni unite la medesima questione.

Premessa necessaria è la pacifica applicabilità a tutti i giudizi pendenti, anche in Cassazione, dello ius superveniens introdotto dall'art. 32 l. n. 183 del 2010 (su cui cfr. Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 28 gennaio 2011, n. 2112, id., 2011, I, 1742), in conformità a quanto stabilito dalla sentenza interpretativa di rigetto della Corte Cost. 11 novembre 2011, n. 303, id., 2012, I, 717, con osservazioni di A. M. Perrino (seguita da

Corte Cost. 4 giugno 2014, n. 155

e

25 luglio 2014, n. 226

, id., 2014, I, 2633, con osservazioni di A. M. Perrino), secondo la quale, la ratio legis della citata disciplina è di «introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa e omogenea applicazione», rispetto alle «obiettive incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente».

Ciò premesso, se la normativa sopravvenuta è applicabile ai giudizi in corso, anche in sede di legittimità, appare contraddittorio negarne il rilievo d'ufficio da parte del giudice (poiché entrata in vigore prima della proposizione del ricorso in sede di legittimità) e, al contempo, negare anche l'ammissibilità del motivo con il quale il soggetto interessato invoca l'applicazione della normativa stessa.

Non può negarsi che la natura del ricorso per cassazione, retto dal principio di tassatività dei motivi, non consente di chiedere la diretta applicazione della norma sopravvenuta, sia che il ricorso contenga, quale unica censura, quella con cui s'invoca l'applicazione della nuova normativa, sia che, invece, siano presenti altri motivi d'impugnazione che si riferiscono alle conseguenze risarcitorie della conversione del contratto.

Tuttavia, ritenere inammissibile il motivo di ricorso con cui si domanda la diretta applicazione della normativa sopravvenuta, equivale a ritenere implicitamente necessaria la proposizione di ulteriori censure, seppur pretestuose, in ordine alle modalità di determinazione delle conseguenze risarcitorie, secondo la disciplina previgente.

Spunti di riflessione sembrano cogliersi nelle considerazioni svolte da Cass., 12 maggio 2003, n. 7207, id., 2003, I, 2024; Cass. 13 gennaio 1995, n. 398, id., Rep. 1995, voce Cassazione civile, n. 54; Cass. 22 novembre 1994, n. 9872, id., 1995, I, 126, secondo cui, il sopravvenire di nuove disposizioni di legge, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata e prima della notificazione del ricorso, determina un'ingiustizia oggettiva della decisione, sufficiente a giustificarne la cassazione, quando sia specificamente dedotta come motivo d'impugnazione e il mutamento normativo attenga a questioni già dibattute nelle fasi di merito e la cui soluzione non sia coperta da giudicato.

Del resto, il ricorrente non mira alla determinazione del criterio legale di stima, ma al fine che l'indennità sia liquidata nella misura di legge. E il criterio legale, secondo il principio iura novit curia, è sempre determinato autonomamente dal giudice, con l'unico limite derivante dalla mancata introduzione, attraverso i motivi d'impugnazione, del thema decidendum su cui insiste la normativa sopravvenuta.

Per quanto riguarda il secondo profilo di contrasto, occorre considerare che il limite all'applicabilità dello ius superveniens è costituito dal giudicato e dalle preclusioni processuali (cfr. Cass. 30 luglio 2014, n. 17271, id., 2014, I, 3143, con osservazioni di R. Pardolesi; Cass. 18 luglio 2006, n. 16450, id., Rep. 2006, voce Corte costituzionale, n. 51; Cass. 21 giugno 2012, n. 10379, id., Rep. 2012, voce Espropriazione per p.u., n. 76). Ne consegue che qualora l'intervento normativo abbia inciso in modo potenzialmente favorevole a una delle parti, occorre che la stessa non abbia fatto acquiescenza a una pronuncia determinativa dell'indennità (o del risarcimento).

Posto che la pronuncia sulla legge applicabile al rapporto controverso non può costituire giudicato autonomo, rispetto al giudicato sul rapporto – poiché non si tratta di una questione di merito avente carattere preliminare idonea a definire il giudizio che il giudice istruttore, ai sensi dell'art. 187, 2° comma, c.p.c., può rimettere al collegio affinché sia decisa separatamente – occorre stabilire se può applicarsi il principio generale della «preclusione», che, nella specie, potrebbe aversi tramite acquiescenza, di cui al 2° comma dell'art. 329 c.p.c.

La giurisprudenza ha più volte statuito che la cosa giudicata parziale è effetto dell'acquiescenza quando la sentenza contenga due o più capi autonomi, il che non avviene nel caso di soluzione di una questione giuridica strumentale rispetto all'attribuzione del bene della vita controverso. Il giudicato parziale va, infatti, riconosciuto solo con riguardo alle parti sostanziali della sentenza impugnata, che abbiano deciso su specifica domanda e che mantengano, nell'ambito dell'oggetto del contendere globalmente considerato, caratteri di completa autonomia (cfr. Cass. 9 novembre 1992, n. 12062, id., Rep. 1992, voce Impugnazioni civili, n. 30; Cass. 23 gennaio 1992, n. 757, id., Rep. 1992, voce Cassazione civile, n. 34; Cass. 16 aprile 1991, n. 4033, id., 1992, I, 131, con nota di R. Caponi, In tema di «ius superveniens» sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali); non anche quando il soccombente non abbia espressamente contestato il criterio legale, poiché questo non assume carattere autonomo rispetto allo specifico motivo d'impugnazione formulato.

Si segnala, infine, l'avvenuta abrogazione, ad opera dell'art. 55 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (successivo alla decisione dell'ordinanza in epigrafe ma precedente al suo deposito in cancelleria), dei commi 5 e 6 dell'art. 32 della L. n. 183 del 2010. Tuttavia, dal carattere generale della questione deriva l'irrilevanza, ai fini dell'intervento delle Sezioni Unite, dell'intervenuta abrogazione, tanto più che le disposizioni continuano ad avere applicazione per il passato.

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