Madre inabile al 100%, affiancata dalla colf: permesso retribuito riconosciuto alla figlia lavoratrice

La Redazione
23 Dicembre 2014

Respinta la tesi del Comune, che aveva, in un primo momento, ritenuto non legittima la richiesta avanzata da una propria dipendente, inquadrata come vigile urbano. Secondario il richiamo al concetto di assistenza continua ed esclusiva. Evidente la situazione di precarietà dell'anziana madre della lavoratrice.

Cass.civ., sez. lavoro, 22 dicembre 2014, n.27232, sent.

Respinta la tesi del Comune, che aveva, in un primo momento, ritenuto non legittima la richiesta avanzata da una propria dipendente, inquadrata come vigile urbano. Secondario il richiamo al concetto di assistenza continua ed esclusiva. Evidente la situazione di precarietà dell'anziana madre della lavoratrice. Oltre 350 chilometri di distanza tra il proprio luogo di lavoro e l'abitazione dei propri genitori, dove la lavoratrice – un vigile urbano – chiede di potersi recare, usufruendo dei tre giorni di permesso mensile – previsti dalla legge n. 104/1992 –, per prestare assistenza alla madre, inabile al 100 %.

Richiesta contestata dal Comune, ma ritenuta legittima dai giudici italiani: irrilevante il richiamo ai concetti di “assistenza continua” ed “esclusività”, decisiva la constatazione della inabilità totale della anziana madre, affiancata solo dal marito – padre della lavoratrice – in condizioni precarie e dalla ‘colf'. (Cassazione, sentenza n. 27232, sez. Lavoro, depositata oggi)
Madre Inabile. Pomo della discordia è, come detto, la richiesta della lavoratrice, che, «dipendente comunale in qualità di vigile urbano», e «unica figlia di genitori anziani», spiega di essere l'unica persona capace di «assistere con continuità la madre, in condizioni di inabilità al 100% e con godimento dell'indennità di accompagnamento», viste anche le precarie condizioni del «padre gravemente malato».
Ciò, però, non è sufficiente, secondo il Comune, per riconoscere alla donna i «tre giorni di permesso mensile» previsti dalla legge n. 104/1992. E questa visione viene ritenuta corretta dai giudici del Tribunale, i quali evidenziano «la mancanza del requisito della convivenza, e, in particolare, poi, la mancanza dell'assistenza quotidiana» che la donna, a loro dire, «non avrebbe potuto comunque assicurare» all'anziana madre.
Di avviso opposto, invece, i giudici della Corte d'appello, i quali ritengono acclarato il «diritto» della donna «a fruire mensilmente di tre giorni di permesso retribuito» sin dal gennaio del 2006 – quando, in sostanza, «con l'aggravarsi delle condizioni di salute del padre, di fatto era rimasta solo la ‘colf' a garantire una assistenza parziale» alla madre della lavoratrice –, con il ‘recupero' del «corrispettivo dei giorni non goduti da detta data».

Assistenza. Assolutamente irrilevante, per i Giudici di secondo grado, il richiamo al «concetto di assistenza continua e di esclusività», anche perché, così ragionando, «il lavoratore» non potrebbe «neanche svolgere attività lavorativa». E, comunque, aggiungono ora i giudici della Cassazione, ribattendo alle obiezioni mosse dal Comune, «il requisito della continuità ed esclusività dell'assistenza» si era concretizzato «nel corso del giudizio»...

Ma – ecco il passaggio decisivo – viene ritenuta non plausibile neanche la contestazione mossa dal Comune sulla «notevole distanza» tra il luogo di lavoro della donna e il «domicilio» della madre, e accompagnata dalla constatazione della «presenza quotidiana, nella abitazione della madre, di una ‘colf'».
Queste considerazioni, però, secondo i giudici della Cassazione, non possono spingere a ritenere che la lavoratrice potesse limitare «la propria presenza» a casa della madre solo nei week-end, e quindi fuori dalle giornate lavorative. Ciò perché «la presenza in famiglia di altra persona, che sia tenuta o che possa provvedere all'assistenza del parente» non può escludere «di per sé il diritto ai tre permessi mensili retribuiti, non potendo in tal modo frustrarsi lo scopo perseguito dalla legge, ed essendo presumibile che, essendo il lavoratore impegnato con il lavoro, all'assistenza del parente provveda altra persona», mentre «è ragionevole che quest'ultima possa fruire di alcuni giorni di libertà, in coincidenza con la fruizione dei tre giorni di permesso del lavoratore».
Allo stesso tempo, aggiungono i giudici, bisogna interpretare «in senso elastico» anche il «requisito» della «continuità», poiché è evidente che «in ragione del lavoro espletato dal lavoratore ed in funzione della assistenza al parente, ben può esservi una continuità non giornaliera (settimanale, ad esempio) meritevole di tutela».
Consequenziale è, quindi, la conferma della decisione emessa in appello: con buona pace del Comune, la lavoratrice ha pienamente diritto ai «tre giorni di permesso retribuito» previsti dalla legge n.104

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