Eccezione di inadempimento del lavoratore e mora credendi del datore di lavoro
15 Aprile 2016
Massima
In caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all' art. 2087 c . c. , non solo è legittimo, a fronte dell'inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione, in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore. Il caso
Alcuni lavoratori dipendenti della più importante impresa automobilistica nazionale, addetti a mansioni di operaio ed applicati a compiti di assemblaggio di portiere d'auto, dopo avere anche in precedenza segnalati anomali distacchi di portiere d'auto dagli appositi perni, a fronte di un ennesimo episodio di tal genere avevano sospesa la corrispondente attività, per poi averla ripresa, a distanza di 45 minuti circa, solo una volta che, a seguito dell'intervento di una apposita squadra di manutentori, l'ambiente di lavoro loro imposto era stato rimesso a norma ed in sicurezza.
La compagnia automobilistica in questione, purtuttavia, detraeva dall'emolumento di loro competenza, d'afferenza del mese nella cui corrispondenza essi avevano sospesa per dette ragioni la loro attività lavorativa, l'equivalente economico di 45 minuti di remunerazione.
I lavoratori interessati ne proponevano quindi iniziativa giudiziaria a carico dell'azienda loro datrice di lavoro, onde ottenere il riconoscimento in proprio favore delle competenze economiche loro trattenute a cagione di quanto in oggetto, riportando sentenza sfavorevole, all'esito del primo grado di giudizio e sentenza loro benevola, viceversa, all'esito del giudizio d'appello.
La Corte di Cassazione confermava, infine, la statuizione della Corte d'Appello territoriale. Le questioni
Le questioni involte attengono, in buona sostanza, alla legittimità della sospensione della prestazione d'opera, da parte di lavoratori inseriti in ambiente di lavoro a rischio della correlativa sicurezza ed incolumità e, soprattutto, alla spettanza, o meno, ad essi, del trattamento retributivo corrispondente all'arco temporale non lavorato, a causa di detto stato di cose (oltre che alla sussistenza, o meno, di un obbligo, a carico loro, di costituire a ciò in mora parte datrice di lavoro). Le soluzioni giuridiche
La giurisprudenza e la dottrina sono sostanzialmente concordi nell'ammettere il lavoratore dipendente alla formulazione d'eccezione di inadempimento, exart . 1460 c.c. , nell'evenienza in cui il corrispondente datore di lavoro si renda seriamente inadempiente ai correlativi obblighi, in dipendenza della formulazione dell'eccezione in parola legittimamente sospendendo lo svolgimento della propria prestazione di lavoro.
Di quanto in oggetto è stata data applicazione frequente, anzitutto, in relazione ad evenienze di demansionamento professionale.
In più occasioni, invero, nello specifico, la giurisprudenza ha ritenuto non disciplinarmente reprimibile il contegno del lavoratore subordinato il quale, a fronte d'una apprezzabile dequalificazione professionale a suo carico consumata ad opera del corrispondente datore di lavoro, sospenda la propria opera (in tal senso, si segnalano, tra le altre, Cass., 23.12.2003, n. 16689, in Foro It., 2004, I, Col. 1111 e Cass. , 25.7.2006 , n. 16907 , in Mass. Giur. Lav., 2007, 277).
Di contro, si è in talune evenienze ritenuta illegittima l'astensione dal lavoro posta in essere ad opera del lavoratore demansionato, sul presupposto per cui la circostanza sostanziata dal persistente pagamento ad esso del trattamento retributivo (in costanza di dequalificazione) renderebbe non proporzionata (e quindi contraria a buona fede) la reazione del lavoratore stesso (al riguardo, si segnalano, tra le altre, Cass. 5.12.2007, n. 25313 , in Rif. It. Dir. Lav., 2008, 2, II, 470 e Cass. 23.12.2003, n. 19689, in Lav. Giur. 2004, 1169).
E va anche dato incidentalmente conto di una ulteriore posizione (per lo più dottrinale) in proposito, per la quale, nel caso dell'adozione di una disposizione di servizio in virtù della quale il lavoratore interessatone sia fatto assegnatario di mansioni non coerenti con il correlativo background professionale, la corrispondente astensione dal lavoro non sostanzierebbe il frutto di una eccezione di inadempimento in senso stretto, bensì una condotta in sé giustificata dal fatto per cui la prestazione richiestagli non sarebbe prestazione da esso dovuta (si veda, in proposito, C.V.Vacchiano, “Demansionamento della lavoratrice madre e discriminazioni fondate sul sesso”, in Pluris, note a sentenza).
La giurisprudenza ha anche fatta applicazione della regola posta dall' art. 1460 c.c. , in ambito lavoristico, con riguardo ad evenienze, non infrequenti, di sospensione della prestazione lavorativa ad opera d'un lavoratore subordinato, quale reazione al mancato pagamento in suo favore del trattamento retributivo corrente.
E la stessa giurisprudenza ha altresì affermata la sostenibilità dell'eccezione di inadempimento di cui trattasi nel caso in cui i lavoratori interessatine siano chiamati a svolgere la correlativa prestazione di lavoro in ambiente di lavoro non consono, in quanto atto a mettere a repentaglio la corrispondente sicurezza / incolumità.
Ciò che la giurisprudenza stessa ha inteso assumere, sulla scorta della considerazione per la quale l'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro, a sensi e dell' art. 2087 del codice civile e a termini del D .Lgs. n. 81/2008 , è obbligo primario (ancorché accessorio all'obbligazione principale di parte datrice di lavoro, sostanziata dal pagamento del corrispettivo previsto) tale, ove non adempiuto, da legittimare il ridetto personale alla sospensione della prestazione sua propria.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è tornata ad affermare il principio come testé compendiato, aggiungendo, per quanto più rileva, che il lavoratore che faccia corretto esercizio dell'eccezione di inadempimento, oltre a non andar passibile di comminatoria disciplinare, matura anche il diritto alla remunerazione dell'attività lavorativa non eseguita, in dipendenza dell'inadempimento ascritto a parte datrice di lavoro; e ciò, non essendo nemmeno tenuto a costituire all'uopo in mora il datore di lavoro medesimo, posto che lo si dovrebbe intendere per automaticamente costituito in mora, rispetto al proprio obbligo di ricevere le prestazioni degli interessati, in virtù della semplice formulazione dell'eccezione di inadempimento suddetta.
La sentenza in discussione replica, così come in essa testualmente esposto, l'enunciato di una precedente decisione della suprema Corte di Cassazione stessa, sostanziata dalla decisione n. 6631, dell'1.4.2015 (dalla motivazione, peraltro, ancor più scarna). Osservazioni
La sentenza è, per certi aspetti, senz'altro condivisibile.
Essa è condivisibile, indubitabilmente, nella parte in cui ha (ri)affermata la non esigibilità della prestazione lavorativa dovuta al datore di lavoro dal lavoratore dipendente costretto ad operare in termini di non adeguata sicurezza, che gli abbia tempestivamente eccepito l'inadempimento “de quo”, exart. 1460 c.c.
Fuor di discussione, infatti, è che il diritto alla salute, anche in abbinamento con il diritto al lavoro, sostanzi diritto primario, assurgente a valore costituzionalmente protetto e che, in considerazione di ciò, l'eccezione di inadempimento pertinentemente formulata dagli interessati sostanzi obiezione conforme a correttezza e buona fede, raccordata ad un inadempimento senz'altro rilevante, di parte datrice di lavoro.
Indi per cui va senz'altro ribadito (con “forza”) che il lavoratore costretto ad operare in ambiente insano e/o non adeguatamente protetto (il caso deciso ad opera della Suprema Corte di Cassazione con la menzionata sentenza n. 6631 dell'1.4.2015 atteneva ad una evenienza di sospensione dell'attività lavorativa ad opera di lavoratori chiamati a svolgere la corrispondente attività entro ambito aziendale gelido) può legittimamente sospendere la propria attività lavorativa, senza che gli si possa addebitare l'arbitrarietà di tale sua condotta e, per l'effetto, porla alla base di eventuali comminatorie disciplinari.
Ciò che non del tutto convince, però, è il passo in avanti che la decisione della Suprema Corte di Cassazione compie, rispetto all'affermazione del principio come sopra compendiato, sostanziato dall'attribuzione agli interessati anche del diritto alla remunerazione dell'attività lavorativa non resa, a fronte della pur registrata inadempienza di parte datoriale.
Non convince del tutto, in quanto, in primo luogo, il contratto di lavoro è, come noto, contratto a prestazioni corrispettive, in dipendenza del qual connotato, al di là dei casi nella cui ricorrenza espresse disposizioni di legge altrimenti stabiliscano, il corrispettivo ai lavoratori subordinati compete solo in caso di regolare resa della prestazione lavorativa loro propria.
Ed, ancora, la decisione in esame non appare del tutto persuasiva, dato e considerato che l'eccezione di inadempimento è strumento particolare, alternativo ad altri (quello inerente all'adempimento in forma specifica dell'obbligazione rimasta inadempiuta, ovvero quello dell'intraprendimento d'azione tesa alla risoluzione del contratto “de quo”) volta solo ad indurre, per via indiretta, parte inadempiente all'adempimento della corrispondente obbligazione [argomento, quello testé esposto, che sembra avere il sostegno, d'altro canto, di taluna giurisprudenza di merito: “L'eccezione d'inadempimento conserva anche nell'ambito del rapporto di lavoro una funzione meramente difensiva e negativa; su di essa, pertanto, non può essere fondata una pretesa retributiva per i giorni di astensione dal lavoro, né la richiesta di risarcimento dei danni spettanti per la mora accipiendi del datore di lavoro può essere identificata con la domanda di condanna alla corresponsione della retribuzione” (Trib. Vercelli, 22.1.1983, in Dir. Lav., 1984, II, 123)].
La qual riflessione sembra, da altra prospettiva, accreditata anche dall'analisi per la quale, sul piano più generale, la formulazione di una eccezione di inadempimento, exart. 1460 c.c. , non esonera, in assoluto, il contraente che la svolga, dall'adempimento dell'obbligo suo proprio: “L'istituto della mora del creditore impedisce che il ritardo nell'adempimento sia addebitato al debitore (e che scattino in suo danno le conseguenze della mora debendi: obbligo di risarcire il danno e passaggio del rischio dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione) e, nei contratti a prestazioni corrispettive, pone a carico del creditore l'ipotesi dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore, nel qual caso egli dovrà comunque adempiere alla propria prestazione. Non rientra, invece, tra le conseguenze della mora del creditore, l'estinzione dell'obbligazione del debitore, né tale istituto attenua la responsabilità del debitore per il caso che il medesimo renda impossibile la prestazione per sua colpa o non intenda adempiere, una volta cessata la mora credendi” (App. Roma, 05.11.2012, in Pluris, Repertorio).
Tale rimedio, pertanto, vuole che l'eccezione di inadempimento, pur legittimamente sollevata, non equivalga ad un adempimento ciò nonostante della prestazione lavorativa pur giustificatamente non resa (nell'ottica, evidentemente, della remunerazione o meno di essa).
Non convincerebbe, infine, del tutto, la pronuncia in commento, posto e considerato che, nel caso in questione, non si è di certo alla presenza d'un rifiuto del creditore a ricevere la prestazione lavorativa di cui si tratti (e nemmeno sembra si sia in presenza di una condotta del creditore equivalente al non compimento di quanto necessario affinché il debitore possa adempiere alla propria obbligazione).
Anche peraltro a voler ritenere che il contegno del datore di lavoro il quale non appresti un ambiente di lavoro consono agli obblighi di sicurezza che esso è tenuto ad osservare, nei riguardi del personale suo sottoposto, sostanzi la fattispecie di cui alla seconda parte dell' art. 1206 del codice civile , vi è che non sembra che l'eventuale suo “status”, in dipendenza di ciò, di creditore in mora, determini l'obbligo, per esso, di remunerare comunque la prestazione lavorativa non resagli dagli interessati.
E ciò, dato che l' art. 1207 del codice civile vede quali effetti conseguenti alla mora del creditore effetti non collimanti con l'obbligo di retribuire comunque una prestazione non resa, nei fatti.
Più in linea con l'ordinamento sembra sia invece un più datato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, in forza del quale, in evenienze comparabili a quella in esame, il lavoratore dipendente è sì legittimato a non svolgere la propria prestazione lavorativa sua tipica, ma non matura il diritto ad esser retribuito delle prestazioni non rese.
Intendesi fare in particolare riferimento a quella giurisprudenza di cui si è fatta ad esempio interprete la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 9.11.1981, n. 5940, in Mass. Giur. It., 1981: “Il rifiuto, da parte del lavoratore, della prestazione lavorativa in caso di inadempimento o di ritardo del datore di lavoro nell'adempimento retributivo, visto nell'ambito dell'eccezione di inadempimento, costituisce una forma di tutela volontariamente scelta dal contraente adempiente in sostituzione della normale tutela giurisdizionale, che mentre non fa venir meno il diritto al risarcimento del danno subito per il ritardo nella corresponsione della retribuzione, esclude che i l lavoratore abbia diritto ad alcunché, sia pure a titolo di risarcimento del danno, per la perdita della retribuzione nel periodo di astensione lavorativa”.
Ed evidentemente diverso è, rispetto al caso oggetto di trattazione, quello afferente ad un rifiuto, espresso o fattuale, del datore di lavoro, al ricevimento delle prestazioni ad opera del lavoratore offertegli, in detta ipotesi essendo (invece) indubbio che il datore di lavoro in questione debba all'interessato il pagamento degli emolumenti maturati, oltre la data di formulazione dell'offerta in parola (al riguardo, si possono, in via meramente esemplificativa, menzionare evenienze quali quella della sospensione in CIGS dei lavoratori involtine, cui non segua l'emissione del provvedimento concessorio dell'ammortizzatore sociale in oggetto, ad opera del Ministero competente - Cass. 23.6.2010, n. 15207 , in Ced Cassazione, 2010 - e quella del ristabilimento anticipato del lavoratore dalla malattia contratta, cui succeda il rifiuto del datore di lavoro a consentirgli la ripresa immediata della prestazione lavorativa - Cass. 19.7.2012, n. 12501 , in Ced Cassazione, 2012).
Sostanzialmente corretta sembra, infine, la decisione della Suprema Corte della quali si tratta, nella parte in cui ha affermato il complementare principio per il quale la costituzione in “mora credendi” del datore di lavoro opera per così dire in automatico, ovverossia anche in difetto di una intimazione che debba essergli a ciò indirizzata dal prestatore d'opera involtone, posto e considerato che lo stato di mora del creditore insorge in forza d'un contegno (omissivo) “tipico” del creditore medesimo, compiutamente descritto nell' art. 1206 del codice civile , seconda parte (d'altro canto, parossistico sarebbe il voler pretendere che, in una evenienza quale quella sottesa dalla decisione che ci occupa, lavoratori esposti a rischio vita, in dipendenza delle condizioni particolari di lavoro cui essi siano assoggettati, debbano, onde poter aspirare al trattamento retributivo in predicato, se mai dovuto, recapitare, in tempo reale, al datore di lavoro inadempiente, un apposito atto di costituzione in mora).
Non che, per il vero, si possa opinare, anche al riguardo, differentemente: si potrebbe assumere, infatti, che, a sensi dell' art. 1217 c.c. , anche in evenienze quale quella in oggetto il lavoratore – debitore, essendo la propria una obbligazione di fare, sia tenuto, onde costituire in mora il datore di lavoro – creditore, a destinargli “formale” intimazione a ricevere la corrispondente prestazione. |