Il licenziamento del dirigente. Principio di primazia ed efficacia delle sentenze della Corte di giustizia
14 Ottobre 2016
La primauté del diritto europeo sul diritto nazionale, unitamente all'effetto diretto ed all'obbligo di disapplicazione gravante sull'interprete rappresentano oggi la chiave di lettura nodale per comprendere le modalità di funzionamento del rapporto fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e l'Unione europea, nonché lo strumento chiave per l'individuazione degli obblighi ermeneutici che gravano sui giudici nazionali.
Il principio della prevalenza dei Trattati sul diritto interno, già espresso dalla Corte di giustizia nella sentenza 16 dicembre 1960, Humblet/Belgio, che sanciva l'obbligo di revocare l'atto interno contrastante con il diritto comunitario, e, poi, da Van Gend en Loos del 1963, viene definitivamente chiarito, a solo un anno di distanza da quest'ultima pronuncia, quando la Corte, decidendo una questione pregiudiziale sottopostale dal giudice conciliatore di Milano, nella nota Costa/Enel, ha precisato che la prevalenza del diritto comunitario sul diritto degli Stati membri trova conferma nell'art. 189 (ora 249) del Trattato, rilevando, altresì, che “questa disposizione, che non è accompagnata da alcuna riserva, sarebbe priva di significato se uno Stato potesse unilateralmente annullarne gli effetti con un provvedimento nazionale che prevalesse sui testi comunitari” e, quindi, statuendo che “il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione, appunto, della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno, senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”: nessun tipo di atto, quindi, nemmeno di rango costituzionale, dice la Corte, può resistere al diritto comunitario.
Tale ultima esplicitazione seguirà in realtà nella nota sentenza Internationale Handelsgesellschaft, dove si osserva che “l'invocazione ai diritti fondamentali, per come formulati nella costituzione di uno Stato membro, oppure ai principi costituzionali non può sminuire la validità di un atto comunitario o la sua validità nel territorio di uno Stato”.
Come noto, l'iter inaugurato con Van Gend en Loos e proseguito con Costa/ Enel e Internationale Handelsgesellschaft, verrà portato a compimento soprattutto con Simmenthal e la consacrazione del principio della disapplicazione del diritto nazionale posteriore confliggente con il diritto comunitario. Il modo di concepire la stessa funzione giurisdizionale è mutato a partire dalla sentenza Simmenthal che, nell'imporre un'interpretazione il più possibile conforme al diritto dell'Unione, ha riconosciuto un ruolo nuovo, centrale, al giudice, come organo di base dello spazio giudiziario europeo.
Il Trattato inserisce la primautè nella Dichiarazione n. 17 che, pur priva dello stesso valore giuridico dei Trattati, gode, nondimeno, di una forte valenza politica; d'altro canto, quel principio, già apparteneva a quella che potremmo definire la “costituzione materiale” dell'Unione, in quanto codificato dalla Corte di giustizia che, nel tempo, ne ha offerto declinazioni sempre più incisive, facendo in modo che assumesse progressivamente una ancora più forte connotazione (si pensi ai noti arrets Melloni, Ackeberg Fransson e da ultimo, Taricco e Dansk Industri).
Fin dai primordi del processo di integrazione europea, alla “funzione interpretativa” svolta dalla Corte di giustizia è stato attribuito un ruolo fondamentale nel raggiungimento dell'obiettivo dell'uniforme applicazione del diritto europeo da parte degli Stati membri ed in particolare dei loro organi giurisdizionali.
Tale posizione di “privilegio ermeneutico” è garantita mediante la previsione dell'obbligo di rinvio pregiudiziale che consente al giudice dell'Unione un controllo più incisivo rispetto a quello spettante ad una Corte Suprema di legittimità in quanto non si tratta di un mezzo di impugnazione delle sentenze rimesso all'interesse della parte soccombente, ma costituisce un procedimento incidentale attivabile anche ex officio in ogni stato e grado del giudizio.
Tuttavia analogamente a quanto avviene per le pronunzie di legittimità, il potere di interpretare in via pregiudiziale le norme comunitarie manifesta tutta la sua incisività nell'obbligo gravante sui giudici nazionali di conformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte eventualmente disapplicando le norme interne configgenti. L'obbligo di interpretazione conforme alla decisioni del giudice comunitario, diventato via via più penetrante e discendente direttamente dalla primautè si è esteso allora sempre più fino a lambire e poi progressivamente erodere gli stessi confini del giudicato nazionale.
In realtà, il bilanciamento fra le sentenze interpretative della Corte di Giustizia e principi come quelli del giudicato interno si gioca tutto nel superamento di una visione per così dire “dualistica” dei rapporti fra ordinamento europeo ed ordinamento nazionale in vista del perfezionamento del sempre più intenso dialogo fra ordinamento interno ed ordinamento sovranazionale in termini di vera e propria integrazione.
Una volta associato al valore interpretativo delle pronunce della Corte di giustizia il riconoscimento della loro “diretta applicabilità” e della loro valenza normativa di jus superveniens retroattivo di origine giurisprudenziale è stato rapido il passaggio verso l'interpretazione giurisprudenziale autentica da parte della Corte di giustizia e la progressiva attenuazione della dicotomia civil law – common law quali tradizioni giuridiche non più contrapposte se collocate nel quadro unitario di riferimento costituito dal diritto europeo. Leale collaborazione e interpretazione conforme
Nelle conclusioni dell'Avvocato Generale Juliane Kokott presentate il 9 gennaio 2008 nella causa Impact C- 268/06 avente ad oggetto la direttiva concernente i rapporti di lavoro a tempo determinato ed in particolare l'utilizzazione abusiva di una successione di tali contratti, si afferma, fra l'altro, che “… i divieti di discriminazione rappresentano uno dei classici casi applicativi dell'efficacia diretta del diritto comunitario. Ciò è vero non solo per i divieti di discriminazione sanciti nel diritto primario (in particolare nelle libertà fondamentali e in norme quali l'art. 141 CE), bensì anche per taluni divieti che il legislatore comunitario ha stabilito nel diritto derivato, soprattutto in alcune direttive aventi ad oggetto normative del lavoro o sociali”.
A partire dalla nota sentenza Von Colson Corte di Giust., 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann c. Land Renania del Nord-Westfalia, tuttavia, ci si è avveduti del fatto che è sugli operatori del diritto che grava l' impegno più difficile e delicato, quello di “conciliare l'inconciliabile” (per usare l'icastica espressione dell'avvocato generale Poiares Maduro nelle conclusioni della causa Arcelor Atlantique et Lorraine) che consiste, sempre più frequentemente, nel complesso compito di rendere compatibile, in via interpretativa, il contesto normativo interno con l'assetto europeo.
L'attenzione degli interpreti si è spostata, quindi, dall'effetto diretto all'interpretazione conforme.
Si tratta di una estrinsecazione della primazìa, da cui discende direttamente (vedi di seguito nel paragrafoGuida all'Approfondimento n. 1 ) e della leale collaborazione; essa è “effetto strutturale” ( v edi inGuida all'Approfondimento n. 2 ) della norma comunitaria, in quanto diretta ad assicurare il continuo adeguamento del diritto interno al contenuto ed agli obiettivi dell'ordinamento comunitario.
L'interpretazione conforme (vedi in Guida all'Approfondimento n. 3)è inerente al sistema del Trattato e si estende all'ordinamento nazionale nel suo complesso (persino ai contratti collettivi come affermato dalla Corte di Giustizia in Pfeiffer Corte Giust. 5 ottobre 2004, cause riunite C- 397/01 – C403/01).
I giudici nazionali sono tenuti ad interpretare le norme prodotte dal proprio ordinamento in base ai principi del diritto dell'Unione e non solo in base alle norme nazionali: l'affermazione della Corte è che l'obbligo di interpretazione conforme delle disposizioni concernenti una materia in cui sia intervenuta una normativa comunitaria riguarda non solo le norme emanate in applicazione della stessa ma anche quelle di origine interna, anteriori o posteriori all'adozione dell'atto comunitario (
vedi in Guida all'Approfondimento n. 4) .
Più in generale, si è distinto (vedi in Guida all'Approfondimento n. 5) tra conforming interpretation, quale obbligo di interpretare il diritto interno emanato in attuazione di una direttiva in conformità della direttiva stessa; indirect effect, rilevante solo per il caso di mancata attuazione di una direttiva ed estrinsecantesi nell'obbligo di interpretare tutte le norme interne in conformità alla lettera e allo scopo della direttiva e infine Grimaldi effect, con riferimento all'obbligo, per il giudice nazionale, di tener conto delle stesse raccomandazioni che siano chiarificatrici rispetto all'interpretazione di altre disposizioni.
La rilevanza ermeneutica delle direttive, quindi, non è limitata alla normativa interna in attuazione delle stesse ma si estende fino ad influenzare i casi in cui la normativa non esista o non sia direttamente applicabile.
A ben vedere, i giudici di Lussemburgo, nell'esercizio della loro funzione di nomofilachia comunitaria, hanno iniziato molto presto ad esplicitare l'obbligo di interpretazione conforme: già nel 1984 con la richiamata sentenza Von Colson (Corte di Giust., 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann c. Land Renania del Nord-Westfalia, cit.) la Corte sanziona l'impegno per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali, di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva, come pure l'obbligo imposto dall'art. 5 del Trattato (poi 10, ore 4 TUE) di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale impegno (
vedi in Guida all'Approfondimento n.
6) .
L'interpretazione conforme, infatti, si estrinseca nell'obbligo gravante su tutti gli interpreti del diritto nazionale di prendere in considerazione tutte le norme del diritto interno – ed utilizzare tutti i metodi di interpretazione ad esso riconosciuti- per addivenire ad un risultato conforme a quello voluto dall'ordinamento comunitario. ( Pfeiffer cit. ove si sottolinea l'obbligo per il giudice nazionale di prendere in considerazione tutte le norme interne ed utilizzare tutti i “metodi di interpretazione ad esso riconosciuti” per addivenire ad un risultato conforme alla direttiva).
Nella elaborazione giurisprudenziale comunitaria, molta strada è stata fatta da quando la Corte, nel 1963 ( Corte Giust. Causa 26/62 , Van Gend en Loos). , proclamava il principio degli effetti diretti del Trattato, quale fonte di diritti per singoli azionabili dinanzi alle Corti degli Stati membri. Passando per l'affermazione dell'obbligo di interpretazione della normativa interna in conformità alle direttive comunitarie come operante “as far as possibile” ( Corte Giust. 13 novembre 1990, causa C- 106/89 , Marleasing) la Corte ha poi confermato, (prima nella discussa Mangold Corte Giust. 22 novembre 2005, C- 144/04 , Mangold, cit..) ma poi, in Kücükdeveci Corte Giust. 19 gennaio 2010 , Seda Kücükdeveci v. Swedex, cite, oggi, soprattutto, in Dansk Industri Corte Giust. 19 aprile 2016, causa C- 441/14 Dansk Industri, cit. ) il proprio ruolo primario di interprete privilegiato (vedi in Guida all'Approfondimento n. 7
) nella elaborazione del sistema comunitario di diritti fondamentali
(vedi in Guida all'Approfondimento n. 8
) , giungendo a statuire che di fronte ad un principio generale del diritto comunitario, quale il metaprincipio di uguaglianza e non discriminazione, che riveste una portata del tutto particolare, sovraordinata ed immediatamente applicabile, si impone la disapplicazione della normativa interna confliggente, a prescindere dalla vincolatività della norma comunitaria invocata.
In definitiva, la funzione del giudice nazionale come giudice dell'Unione implica che ad esso sia demandata la delicata funzione di garantire la supremazia del diritto comunitario sul diritto interno: «…una corretta applicazione del principio della supremazia del diritto comunitario sul diritto interno così come l'esigenza di garantire una uniforme applicazione delle norme comunitarie comportano che le direttive non recepite, una volta scaduto il termine per la loro attuazione nel diritto interno possano produrre l'effetto di escludere l'applicazione della regola nazionale difforme anche qualora, per mancanza di precisione o perché non direttamente efficaci nei rapporti “orizzontali”, non attribuiscano ai singoli diritti invocabili in giudizio» (Conclusioni dell'Avvocato Generale Antonio Saggio presentate il 16 dicembre 1999 nelle cause riunite da C-240/98 a C- 244/98, Ocèano Grupo Editorial SA e Salvat Editores SA contro Rocìo Marciano Quinterno e al).
In Kücükdeveci , la Corte non lascia adito a dubbi: il giudice nazionale rappresenta l'anello centrale della catena interpretativa qualora sia investito di una controversia tra privati; l'obbligo di garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all'età - quale concretamente derivante dalladirettiva 2000/78 ma come espressione di un principio generale del diritto comunitario, sovraordinato, orizzontale ed immediatamente applicabile – gli imporrà di disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall'esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall' art 267, secondo comma, TFUE , di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione di tale principio. Ancora una volta, nelle pronunzie della Corte, il principio generale dell'ordinamento comunitario di non discriminazione è intimamente correlato all'attività interpretativa giurisdizionale, tenuta a conformare l'ordinamento interno al risultato voluto da quello sovranazionale ed in caso di risultato infruttuoso, a spingersi fino alla disapplicazione della norma interna contrastante.
L'interpretazione conforme ha ormai assunto la netta conformazione di strumento di chiusura: essa è un imprescindibile obbligo per l'interprete ma è anche metodo conservativo, perché ogni qualvolta non possa farsi ricorso ad essa e sussista una normativa confliggente, scatterà l'obbligo di disapplicazione della regolamentazione interna per applicare quella comunitaria nella sua interezza e tutelare i diritti che questa riconosce ai singoli.
La Corte, nella parte finale della sentenza, conclude affermando che «è compito del giudice nazionale (…), assicurare (…) la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge» (punto 51).
Registrata la parziale inidoneità dei concetti di primazia e disapplicazione, si è ormai definitivamente intensificato il ricorso all'interpretazione conforme come strumento di composizione del sistema; essa, nella più recente evoluzione, “sfuma” di nuovo nella disapplicazione, nell'intento chiarissimo di assicurare definitivamente il rispetto di quel sovraordinato principio di uguaglianza al centro dello scenario giurisdizionale europeo.
L'interpretazione conforme va condotta su binari estremi e, cioè, fino a determinare la disapplicazione ogni qualvolta l'esito adeguatore non sia scontato.
Nella Grande Sezione del 19 aprile scorso, Dansk Industri, spostando sempre più l'asse della sua analisi dal piano della teoria delle fonti a quello della teoria dell'interpretazione, la Corte ha completato il processo di consolidamento dei poteri del giudice nazionale nell'applicazione del principio di uguaglianza, sovraordinato ed immediatamente applicabile, anche nei rapporti fra privati, potenziando in un crescendo l'affermazione di quella che potrebbe essere definita una giustizia costituzionale europea. Efficacia delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia
Il sistema giuridico che fa capo all'Unione Europea, per la propria natura complessa, determinata dall'essere l'incrocio fra diverse tradizioni giuridiche (vedi di seguito nel paragrafo Guida all'Approfondimento n. 9) , rende difficoltosa non solo l'individuazione delle caratteristiche dell'ordinamento, ma, soprattutto, delle sue fonti.
Tale difficoltà è accresciuta, anziché essere diminuita, proprio dalla funzione nomofilattica spettante alla Corte di giustizia e dalla peculiare natura delle sentenze interpretative da essa emanate: ciò spinge a declinare il concetto di fonte nel modo più ampio tipico di quegli ordinamenti in cui non solo la legge è fonte.
Agevole individuare, sul punto dell'efficacia delle sentenze interpretative, fra i diversi orientamenti dottrinali tre posizioni contrapposte (vedi in Guida all'Approfondimento n.10) che, nel tempo, tendono tuttavia a convergere.
Un primo gruppo di opinioni dottrinali sostiene, tout court, l'efficacia erga omnes delle sentenze interpretative rese ex art. 234 TCE.
Altra tesi opta, invece, per l'esclusione di una efficacia di tali pronunzie oltre il caso proposto innanzi al giudice a quo.
La soluzione intermedia si orienta per il riconoscimento alle sentenze della Corte di Giustizia di una forza particolare, che, pur non potendo definirsi erga omnes, si spinge oltre il caso de quo (L. Ferrari Bravo, distingue nei suoi scritti fra l'autorità della sentenza ed i suoi effetti giuridici) . Poiché funzione primaria della Corte di Giustizia è quella di assicurare l'uniforme interpretazione e, di conseguenza, la corretta applicazione del diritto dell'Unione, la sua decisione, pur avendo effetti giuridici limitati, si solleva, per propria natura, oltre il caso deciso. Essa ha, quindi, una autorità anche se non degli effetti, più vasti.
In ogni caso, la maggior parte degli Autori, anche coloro che si professano contrari all'opzione dell'efficacia erga omnes, riconoscono che, de facto, le sentenze interpretative della Corte esplicano i propri effetti oltre il caso concreto. Ciononostante, in ambito dottrinario, non è diffusa l'opinione che riconosce valore altresì formale alle pronunzie in questione, distinguendosi, essenzialmente, fra interpretazione ed applicazione del diritto comunitario. E, tuttavia, si osserva, (vedi in Guida all'Approfondimento n. 11) anche nelle sentenze di invalidità, la Corte applica oltre ad interpretare.
Pur nel mancato riconoscimento di una efficacia formale erga omnes, tuttavia, si giunge ad affermare (G. Vandersanden, op. cit., p. 518) che l'interpretazione della disposizione crea un unico corpo con la disposizione stessa, quasi introducendo una nuova regola giuridica priva di ambiguità; essa assume la stessa efficacia delle norme interpretate, ma tutto ciò non esclude che l'interpretazione della Corte possa cambiare.
Si conclude, quindi, ( G. Vandersanden, op. cit., 521) sancendo l'obbligo del giudice nazionale di rispettare la statuizione della Corte a pena di ricorso innanzi alla Corte di cassazione per violazione della regola di diritto che ne è alla base, oppure di un ricorso per violazione degli obblighi del Trattato da parte dello Stato membro di cui il giudice è organo. La sentenza del Tribunale Vicenza
La sentenza del Tribunale di Vicenza del 5 luglio scorso muove dalla questione concernente l'applicabilità ai dirigenti della disciplina di cui alla legge n. 223 del 1991 , emanata in attuazione della dir. Cee n. 129/1975 (abrogata e trasfusa, insieme alla dir. 56/92, nella dir. 98/59). Essa evidenzia come la formulazione originaria della legge in questione, nel combinato disposto degli artt. 24 e 4, limitava l'area soggettiva di applicabilità del licenziamento collettivo ai soli lavoratori qualificabili come operai, impiegati o quadri. La questione di costituzionalità di tale esclusione, sottoposta alla Consulta dalla Pretura di Sassari (Pret. Sassari, 3 dicembre 1996) era stata dichiarata inammissibile con ordinanza n. 258 del 1997. La Corte di cassazione, invece, con riguardo al licenziamento del dirigente di azienda bancaria, ha escluso l'applicazione degli artt. 4 e 24 della L n. 223/1991 e della disciplina del licenziamento individuale ai dirigenti ed ha reputato, invece, operanti le disposizioni del C.c.n.l. 1º dicembre 2000. L'art. 26 del contratto collettivo richiama espressamente il d.m. n. 158 del 2000 che all' art. 7, prevede la salvezza delle norme di legge e del contratto collettivo, con riferimento agli assegni straordinari per il sostegno del reddito ed i versamenti contributivi correlati ai processi di ristrutturazione o per le situazioni di crisi e, all'art. 29, prevede l'attribuzione al dirigente ingiustificatamente licenziato di una indennità supplementare, proporzionata all'anzianità, anche al caso di recesso per asserite ragioni oggettive di riorganizzazione aziendale ( Cass. n. 24340 del 2010 ). Come noto, l'esclusione dei dirigenti dalle procedure e dalle garanzie previste dalla legge n. 223 del 1991 Corte Giust. 13 febbraio 2014, Commissione c. Italia, causa C-596/2012) . Si tratta di procedimento attivato mediante azione di inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione da parte degli Stati membri exartt. 258 e260 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea . Secondo i giudici di Lussemburgo, la direttiva non consente, eccettuati i casi tassativamente previsti dall'art. 1, par. 2, alcuna possibilità da parte degli Stati membri di escludere, per una determinata categoria di lavoratori, l'applicazione della procedura di cui all'art. 2. La peculiare posizione dei dirigenti ed il loro particolare rapporto fiduciario con il datore di lavoro da una parte, dall'altra la tutela specifica di carattere economico che verrebbe comunque garantita ai dirigenti, in caso di licenziamento, non hanno convinto la Corte circa l'asserita legittimità dell'esclusione legislativa interna.
Osservano i giudici di Lussemburgo che il legislatore comunitario, mediante l'armonizzazione delle norme applicabili ai licenziamenti collettivi, ha inteso “garantire una protezione di livello comparabile dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e uniformare gli oneri che tali norme di tutela comportano per le imprese della Comunità”. La definizione di “lavoratore”, quindi, non può essere demandata ad ogni singolo Stato membro ma deve, invece, essere intesa in senso sovranazionale, individuandosi, come tale, chiunque “fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest'ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione” (s ul punto, Corte Giust., 11 novembre 2010, Danosa, causa C-232/09).
Nessun dubbio, quindi, che dall'interpretazione della Corte di Giustizia discenda la integrale riconducibilità della categoria dei dirigenti nella definizione di lavoratore “comunitariamente” orientata. Pertanto, osserva il Tribunale di Vicenza, l'inadempimento dello Stato italiano si sarebbe realizzato proprio nell'indicazione restrittiva dei soggetti interessati dalla procedura di licenziamento collettivo per non aver il legislatore tenuto conto della nozione comunitaria di lavoratore. Per l'effetto, a cagione della mancata attuazione del procedimento di consultazione nei confronti dei dirigenti, la direttiva verrebbe parzialmente privata del suo effetto utile.
La questione verte, a questo punto, sulla automatica incidenza nell'ordinamento italiano della decisione del giudice lussemburghese, indipendentemente dal “recepimento” della sentenza.
Alcuni commentatori si sono espressi in senso negativo ritenendo che la sentenza della Corte di Giustizia produrrebbe effetti solamente nei confronti del legislatore nazionale ribadendo, conseguentemente, che in assenza di una normativa nazionale di recepimento che estenda l'applicazione della procedura di cui alla L. n. 223/1991 anche ai dirigenti, la stessa non possa trovare immediata efficacia nei rapporti tra impresa e dirigente. Tale conclusione verrebbe indirettamente confortata dal successivo intervento legislativo che ha apportato alla L. n. 223/1991 le necessarie modifiche volte ad estendere l'operatività delle procedure consultive anche alla categoria dirigenziale ( art. 16, L. n. 161/2014 ).
Diverso argomentare si rinviene in una pronuncia della Corte d'appello di Milano n. 426/2014 che, riconosciuta la natura interpretativa della sentenza della Corte di Lussemburgo, l'ha ritenuta immediatamente applicabile nella parte in cui estende l'applicazione delle procedure di comunicazione e consultazione sindacale anche ai dirigenti. Quanto invece alle conseguenze sanzionatorie determinate dall'inosservanza delle menzionate procedure, la Corte d'Appello ha ribadito come le sanzioni si collochino al di fuori del perimetro di rilevanza della suddetta pronuncia, essendone la determinazione rimessa, in questo caso sì, al legislatore interno. Quindi, richiamando la giurisprudenza di legittimità, relativa alla materia contigua della violazione delle garanzie procedimentali stabilite dall' art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (si veda Cass. n. 897/2011 ), la Corte territoriale ha stabilito che in caso di violazione delle garanzie stabilite dalla disciplina sul licenziamento collettivo nei confronti dei dirigenti, possa trovare applicazione esclusivamente la tutela risarcitoria parametrata a quella prevista dai contratti collettivi per il licenziamento ingiustificato.
Secondo il Tribunale di Vicenza la valutazione concernente gli effetti della sentenza va condotta alla luce dei principi che governano le procedure per l'accertamento dell'inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione. Ed il punto nodale dell'efficacia di tali decisioni ruota intorno all'incidenza della responsabilità per l'inadempimento dello Stato su quest'ultimo nella sua complessità.
Come chiaramente affermato dalla Corte a partire da Köbler ( Corte Giust. 30 settembre 2003, causa C- 224/2001 ) , l'inadempimento risulta ascrivibile potenzialmente a tutti gli organi dello Stato, che può esimersi da ogni responsabilità soltanto qualora dimostri il rispetto degli obblighi che lo riguardano in modo effettivo. Secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia ( Corte Giust., 8 giugno 1994, causa C- 382/92 , Commissione c. Regno Unito; Corte Giust. 9 dicembre 2003, causa C- 129/2000 , Commissione c. Italia) , quindi, le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali vanno valutate non solo autonomamente, ma soprattutto con riguardo all'interpretazione che ne danno i giudici nazionali in sede di concreta applicazione. Ne consegue un inadempimento dello Stato ogni qualvolta la normativa nazionale appaia “formalmente” conforme al diritto comunitario ma venga, poi, interpretata ed in concreto applicata in modo contrastante agli obblighi imposti dall'Unione Europea.
Il Tribunale di Vicenza, a questo punto, si sofferma efficacemente sull'obbligo generale di collaborazione alla realizzazione dei compiti dell'Unione (e di astensione da qualsiasi comportamento con essi confliggente) che grava in generale sugli organi degli Stati membri ai sensi dell'art. 4, par. 3, co. 2 e 3 del Trattato sull'Unione Europea. Proprio su tale principio, secondo il giudice, si fondano le numerosi implicazioni in termini di incompatibilità di comportamenti dei singoli stati e dei loro organi che, pur non contrastando direttamente con la norma europea, influiscono negativamente sull'efficacia del diritto dell'Unione ( Corte Giust. 11 dicembre 1985, causa C- 192/84 , Commissione c. Grecia; Corte Giust. 13 luglio 2014, causa C- 82/2013 , Commissione c. Italia).
Quanto a natura ed effetti della sentenza di condanna, il Tribunale osserva che quando pronunzia sull'inadempimento, la Corte emette una sentenza che solo nel linguaggio comune viene definita come “di condanna”; si tratta, in realtà, di una sentenza meramente dichiarativa che esaurisce la sua funzione nell'accertare l'esistenza dell'inadempimento. Se, infatti, l' art. 240 par. 1 TFUE statuisce che lo Stato è tenuto a prendere i provvedimenti necessari per l'esecuzione della sentenza, tale obbligo discende dalla norma in questione e non, appunto, dalla sentenza stessa. Ne consegue che la Corte di giustizia non potrà indicare quali siano gli interventi da adottare, ma sarà lo Stato a decidere le misure e le modalità dell'inadempimento, alla luce della complessità delle statuizioni normative e di fatto che può incontrare per rendere consistent il proprio ordinamento agli obblighi impostigli. La Corte ha affermato da epoca risalente (Corte Giust., 13.7.1972, C- 48/71 , Commissione c. Italia) che vige “per le autorità nazionali competenti l'assoluto divieto di applicare una disposizione nazionale dichiarata incompatibile col trattato e, se del caso, l'obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto comunitario” e tutti gli organi dello Stato membro sono tenuti ad osservare il disposto della sentenza del giudice dell'Unione, talché, qualora dalla pronunzia della Corte emerga l'incompatibilità di una disposizione interna con il diritto dell'Unione, gli organi legislativi saranno tenuti a modificare la disposizione interna in modo da rendere la stessa compatibile con il diritto dell'Unione e alle stesse conclusioni si perviene con riguardo agli organi giurisdizionali. (Il richiamo è a Corte Giust., 14.12.1982, cause riunite C-314/82 - C-316/82 e C- 83/82 , Waterkeyn e altri; 13.7.1972, causa C-48/71, Commissione c. Italia.) Ne consegue che il potere giurisdizionale, anche alla luce dell'obbligo di leale collaborazione che grava su di esso, è tenuto a partecipare attivamente all'attività di implementazione del diritto europeo, potendo allo stesso essere ascritta una responsabilità per condotta inadempiente rispetto agli obblighi imposti allo stato nella sua interezza.
Discende da tale assunto il dovere, che grava anche sui giudici nazionali, di dare piena attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia che abbia accertato l'inadempimento, senza dover attendere che intervenga il legislatore nazionale con la finalità di modificare eventuali disposizioni contrastanti con il diritto dell'Unione. Soltanto in tal modo, infatti, si assicurerebbe l'esecuzione della sentenza, la cui efficacia verrebbe, altrimenti, vanificata in attesa dell'intervento legislativo ad hoc.
Proprio sulla scorta di tali considerazioni, secondo il Tribunale di Vicenza, per assicurare piena efficacia alla sentenza della Corte che ha dichiarato contraria alla direttiva 98/59 l'esclusione della categoria dei dirigenti dalla procedura dei licenziamenti collettivi,è necessario interpretare la normativa nazionale come inclusiva anche di tali lavoratori.
Senza soffermarsi precipuamente sugli elementi specifici da cui discenderebbe la inadeguatezza delle disposizioni introdotte ad attuare le statuizioni dei giudici di Lussemburgo, il Tribunale ritiene, tuttavia, che l'integrazione legislativa innegabilmente intervenuta, in seguito all'accertamento dell'infrazione, mediante introduzione della legge 30 ottobre 2014, n. 161 (la c.d legge europea - bis) che ha modificato l' art. 24 della L. 223/1991 (vedi in Guida all'Approfondimento n. 12), non abbia esaurito l'obbligo di conformazione dell'ordinamento ai principi enunciati dalla Corte di giustizia che grava sullo Stato.
La normativa recentemente introdotta, ha, infatti, previsto che i dirigenti debbano essere computati nella soglia dimensionale dell'azienda e vadano altresì ricompresi tra i lavoratori da licenziare al fine dell'operatività della disciplina sui licenziamenti collettivi. Essa estende, poi, alla categoria dirigenziale, in attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia, la procedura di consultazione precedentemente prevista solo per il lavoratori appartenenti alle categorie degli operai, degli impiegati e dei quadri. La normativa del 2014, infine, stabilisce che l'individuazione dei dirigenti da licenziare debba avvenire nel rispetto dei criteri di legge o di quelli stabiliti nell'ambito della procedura consultiva con le organizzazioni rappresentative della categoria manageriale. Secondo il giudice di Vicenza, tali innovazioni non escludono l'illegittimità del licenziamento intimato che, pertanto, va dichiarato. Quanto alle conseguenze della declaratoria di illegittimità, il Giudice ritiene che non sia applicabile la disciplina dettata dalla l. 161/2014
Pronunzie come quella del Tribunale di Vicenza rendono ben chiaro che con una attività di nomofilachia europea, strettamente funzionale all'integrazione, si è mossa la Corte di Giustizia; tale percorso sta progressivamente conducendo ad una nuova evoluzione della nozione stessa di “certezza del diritto” come concetto complessivamente inteso e non più parcellizzato in una miriade di ordinamenti: non più un ordinamento interno distinto anche se coordinato con quello europeo, bensì, per utilizzare l'efficace immagine di autorevole dottrina, un ordinamento costituzional – europeo, conseguente ad una integrazione definitivamente realizzata tra ordinamenti.
In questo lungo percorso ovviamente lo stato dell'arte si è nel tempo modificato per la stessa Corte e lo stesso allargamento dell'Unione ha contribuito ad imporre alcuni aggiustamenti. Tali aggiustamenti, tuttavia, per il sapiente percorso guidato dalla Corte di giustizia non hanno condotto né ad un indebolimento del principio di primauté, né, viceversa, ad un sacrificio delle identità nazionali.
Il riconoscimento dei valori costituzionali nazionali e della loro specificità, principi ora espressamente previsti dai testi normativi, era già desumibile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. In particolare, il principio dell'identità nazionale degli Stati membri, formalmente enunciato oggi dall'art. 4 TUE ma già appartenente al DNA della giurisprudenza di Lussemburgo quale nucleo centrale di un sistema che trascende gli stessi Trattati, in quanto immanente al sistema dell'Unione.
Ma è soprattutto sul terreno dei diritti fondamentali, che si è giocata la partita del mutare dei rapporti fra le Corti, non potendo d'altro canto dimenticarsi anche con riguardo alla nostra Corte costituzionale i diversi punti di vista originari: per i giudici di Lussemburgo, infatti, l'ordinamento dell'Unione si impone per forza propria integrandosi con quello degli Stati membri; per la Corte Costituzionale è, invece, nell'ordinamento nazionale e, in particolare, nell' art. 11 Cost. , che va individuato il “sicuro fondamento” del rapporto fra l'ordinamento interno e quello dell'Unione.
Pur partendo da una diversa impostazione originaria, la Corte Costituzionale si è, tuttavia, nel tempo allineata a quella di Lussemburgo nel sancire il primato del diritto dell'Unione ed è proprio grazie all'apertura della Consulta che è stato possibile registrare un efficace e finora resistente equilibrio tra i due ordinamenti.
Nondimeno, pur riconoscendo e sostenendo la dottrina della prevalenza del diritto europeo su quello interno, la Corte costituzionale pone una significativa eccezione, riservando al proprio giudizio l'intervento diretto nell'ipotesi che la Corte stessa definisce “aberrante” in cui le norme dell'Unione violino “i principi fondamentali dell'ordinamento nazionale o i diritti inalienabili della persona umana”.
Si tratta della nota teoria che la dottrina italiana definisce dei “controlimiti” fondata sull'assunto del riconoscimento delle limitazioni di sovranità derivanti dal diritto dell'Unione con il limite posto da aspetti ritenuti dal diritto interno di importanza non soverchiabile.
La teoria, non esclusiva del nostro ordinamento, solleva oggi perplessità in ordine alla sua tenuta, ove si ponga lo sguardo sulla giurisprudenza di Lussemburgo che ha elevato i diritti fondamentali a nucleo della propria tutela, riconoscendo questi ultimi quali principi generali dell'ordinamento dell'Unione, ciò che ha dato la stura all'elevazione della Carta dei diritti fondamentali al rango di diritto primario dell'Unione.
L'ubi consistam del diritto dell'Unione come interpretato dalla Corte di giustizia ruota ormai incessantemente intorno ai diritti fondamentali mentre non può dimenticarsi il proficuo intreccio fra valori dell'Unione e valori nazionali, atteso che i primi si integrano tout court negli ordinamenti nazionali che sono tenuti a conformarvisi mentre proprio quei valori traggono origine dall'esperienza degli Stati membri quale spazio di osservazione privilegiato per la stessa Corte, in un meccanismo di integrazione e di osmosi che ormai non consente più di distinguere agevolmente i confini fra i due sistemi, interno e sovranazionale. La ricerca di punti di convergenza pare l'unica strada possibile anche allo scopo di garantire un corpus di principii e diritti condivisi da tutti i protagonisti della scena.
Si iscrive in tale percorso e, soprattutto nell'affermarsi e nella crescente valorizzazione del ruolo nomofilattico della Corte di giustizia allora non solo una “attenuazione” per cosi dire della teoria dei controlimiti, ma anche il profilarsi della necessità di una rimeditazione del giudicato.
Soltanto un breve cenno. Sembra ormai di poter affermare con tranquillante certezza che il principio della cedevolezza del giudicato nazionale di fronte al primato del diritto dell'Unione enunciato nella sentenza Lucchini abbia nel tempo goduto di una vis espansiva anche al di là della materia degli aiuti di Stato, in ogni materia “comunitarizzata”. La Corte di cassazione nella vicenda Olimpiclub aveva chiesto alla Corte di giustizia proprio di chiarire se il diritto comunitario osti all'applicazione di una disposizione di diritto nazionale, come quella di cui all' art. 2909 cod. civ. , tesa a sancire il principio dell'autorità della cosa giudicata, quando tale applicazione venga a consacrare un risultato contrastante con il diritto comunitario, frustrandone l'applicazione, anche in un settore diverso da quello degli aiuti di Stato.
La Suprema Corte era stata estremamente incisiva nel riconoscere che la sentenza Lucchini si iscriveva in una più generale tendenza della Corte di giustizia orientata a relativizzare il valore del giudicato nazionale e a distinguere le controversie di diritto comunitario aventi ad oggetto esclusivamente diritti disponibili per le parti dalle controversie che coinvolgano il rispetto da parte dello Stato membro di norme comunitarie imperative per le quali il primato del diritto comunitario, esplicandosi in modo ben più pregnante, comporta il disconoscimento del carattere vincolante del giudicato nazionale.
Le argomentazioni del giudice comunitario si fondano sul bilanciamento tra il principio di certezza del diritto e quello di effettività. In particolare, la Corte ha ribadito come in linea generale il diritto comunitario non imponga al giudice di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscano autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione e, tuttavia, ha sottolineato che laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva sia fondata su un'interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di Iva in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione.
La Corte, insomma, pur circoscrivendo la portata delle statuizioni contenute nella sentenza Lucchini alla situazione del tutto particolare della stessa, è giunta comunque alla conclusione secondo cui la vincolatività del giudicato esterno, non ragionevolmente supportato da esigenze di certezza del diritto, deve in qualche modo cedere dinanzi alla primauté del diritto comunitario.
Partendo dalla considerazione che la primauté negli ultimi anni è andata declinandosi in mille sfumature che si sono estese fino a toccare principi assiomatici quali il ne bis in idem e l'intangibilità del giudicato, il bilanciamento fra contrapposti interessi diventa cruciale: diventa anche doveroso chiedersi allora se, posta come centrale la tutela dei diritti fondamentali, una ridefinizione della teoria dei controlimiti e l'individuazione del punto di equilibrio fra “certezza” e primauté rappresentino le nuove frontiere su cui si andrà misurando nei prossimi tempi ogni forma di bilanciamento fra ordinamento interno e ordinamento sovranazionale. 1. Le Conclusioni rassegnate dall'Avv. Generale Antonio Saggio in Corte Giust., 27-6-2000, C-240/98 e C-244/98, Oceano Grupo Editorial e Salvat Editories, in Foro it., 2000, IV, 413.
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