Codatorialità nei licenziamenti delle imprese di gruppo: identificazione del datore di lavoro e rito Fornero

23 Dicembre 2016

Il rito Fornero, di cui all'art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92/2012, è applicabile anche alle impugnazioni di licenziamento in cui si controverta dell'esatta identificazione del datore di lavoro. Invero, il comma 47 dell'art. 1, L. n. 92/2012 individua l'ambito di applicazione del rito specifico con il richiamo alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, L. n. 300/1970 e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.
Massima

Il rito Fornero, di cui all'art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92/2012, è applicabile anche alle impugnazioni di licenziamento in cui si controverta dell'esatta identificazione del datore di lavoro.

Invero, il comma 47 dell'art. 1 della L. n. 92/2012 individua l'ambito di applicazione del rito specifico con il richiamo alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, L. n. 300/1970, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

Il caso

Un dipendente adiva il Tribunale di Cagliari per accertare l'illegittimità del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo.

Il giudice di prime cure, accertata l'illegittimità del licenziamento, ravvisava un fenomeno di codatorialità, poiché il dipendente aveva prestato la propria attività lavorativa nei confronti di tutte e cinque le società del gruppo. Pertanto accoglieva la domanda del dipendente, ordinando ai datori di lavoro di reintegrarlo nel posto di lavoro e di corrispondergli, a titolo di risarcimento del danno, una somma pari alle retribuzioni globali di fatto spettanti dal momento del recesso a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre ad accessori e contributi.

Il Tribunale rilevava infatti che si era in presenza di un rapporto di lavoro imputabile non ad un unico soggetto, ma a più soggetti distinti, le società del gruppo, da considerarsi tutte datrici di lavoro in virtù del potere direttivo e disciplinare esercitato sul lavoratore ai sensi dell'art. 2094 c.c.

Le società soccombenti proponevano ricorso alla Corte d'Appello di Cagliari, la quale, ritenendo non provato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento intimato dalla datrice di lavoro formale, confermava la decisione del Tribunale.

La Corte territoriale considerava altresì applicabile al caso di specie il rito di cui all'art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92/2012, trattandosi di impugnazioni di licenziamento in cui si controverte dell'esatta identificazione del datore di lavoro.

Avverso la pronuncia della Corte d'Appello, le società proponevano un unico ricorso alla Corte di Cassazione articolato su cinque motivi. Il dipendente resisteva con controricorso.

La Suprema Corte, rilevando l'infondatezza dei motivi proposti, dichiara conforme al diritto la soluzione prospettata dalla Corte d'Appello e rigetta il ricorso.

La questione

La questione sottoposta alla Corte di Cassazione concerne l'applicabilità del rito Fornero di cui all'art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92/2012, anche alle ipotesi in cui si controverta sulla qualificazione del rapporto di lavoro, ed in particolare sulla individuazione del datore (o dei datori) di lavoro.

Il comma 47, art. 1, L. n. 92/2012 prevede che le disposizioni dei commi da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti, nelle ipotesi regolate dall'art. 18, L. n. 300/1970, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

In proposito la dottrina (F. Amato, R. Sanlorenzo) evidenzia che l'utilizzo dell'inciso “anche” serve ad indicare quelle cause in cui il presupposto per l'impugnazione del licenziamento sia l'accertamento della qualità del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, a cui far conseguire il diritto ad invocare la tutela accordata dalla norma, indipendentemente dalla qualificazione data al proprio recesso dal datore di lavoro.

Nel caso in esame, la Suprema Corte precisa che l'accertamento della titolarità del rapporto in capo ad un soggetto diverso dal formale datore di lavoro non costituisce un ostacolo all'operatività del procedimento speciale previsto dalla L. n. 92/2012.

Ne consegue che la natura giuridica del rapporto di lavoro, così come l'individuazione del soggetto che si assume essere datore di lavoro e destinatario dei provvedimenti di tutela ex art. 18, L. n. 300/1970, risultano tra le questioni che il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento.

Il dato testuale della norma di cui al comma 47 condiziona l'applicabilità del rito al solo presupposto che si tratti di controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, St. Lav., e successive modificazioni, senza negare l'accesso al procedimento speciale ove si individui il datore di lavoro in un soggetto diverso da quello che ne abbia la veste solo formale.

Una preclusione del genere, basata solo sull'apparenza della forma, si configurerebbe come assolutamente irragionevole, poiché significherebbe riconoscere tutela al lavoratore in forme procedimentali diverse da quelle previste espressamente dalla legge in virtù del fatto che lo stesso era inquadrato formalmente da uno solo dei datori di lavoro.

A riguardo la Suprema Corte precisa che, così come un lavoratore che alleghi la qualificazione solo formale di un rapporto come autonomo, deducendo la subordinazione, può impugnare il recesso invocando la tutela dell'art. 18 con il ricorso ex lege n. 92/2012, altrettanto può fare il lavoratore che invochi la stessa tutela in un rapporto di lavoro non formalizzato ovvero nei confronti di un soggetto diverso da quello che risulta essere il formale datore di lavoro.

Sotto altro profilo, la Cassazione non manca di ricordare che in ogni caso l'erronea individuazione del rito non determina di per sé la nullità della sentenza, in quanto la violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell'ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. S.U., 17 febbraio 2009, n. 3758).

Affinché l'erronea individuazione del rito assuma rilevanza invalidante occorre, quindi, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò in ragione del fatto che l'individuazione del rito non può essere considerata fine a se stessa, bensì rileva per la sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.

Le soluzioni giuridiche

Il caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte risulta particolarmente interessante sotto diversi profili. Infatti, al di là dell'aspetto processuale di cui si è trattato, la pronuncia consente anche una riflessione sulla rilevanza che assume la titolarità del rapporto di lavoro nell'ambito di un gruppo di imprese con riferimento alla disciplina dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, L. n. 604/1966.

Invero, va preliminarmente sottolineato che, al fine di individuare a chi debba essere imputato il rapporto di lavoro in tutte le fattispecie in cui tale dato sia controverso, la dottrina (G. Meladiò) evidenzia che quel che rileva è il concetto di impresa e di datore di lavoro, individuabile, sulla base di una concezione realistica, nel soggetto che effettivamente utilizza la prestazione di lavoro ed è titolare dell'organizzazione produttiva in cui la prestazione stessa è destinata ad inserirsi.

Nel caso in esame la Suprema Corte ha ritenuto correttamente non provato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento intimato dalla datrice di lavoro formale, in relazione all'asserito venir meno della necessità delle mansioni del dipendente esclusivamente rispetto a detta società.

Con riferimento alle ragioni giustificative attinenti all'attività produttiva, la giurisprudenza ha precisato che il controllo giurisdizionale del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo (consistente in un riassetto organizzativo che comporti la soppressione del posto di lavoro) è limitato alla verifica della reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, al quale - in virtù della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. - è riservata la scelta sulle modalità attuative del riassetto, senza che su ciò possa influire l'appartenenza dell'impresa ad un gruppo societario, non potendo il lavoratore vantare diritti nei riguardi delle imprese del gruppo o con riferimento ai loro assetti produttivi (Cass. sez. lav., 1 febbraio 2003, n. 1527).

A riguardo, bisogna però tener conto di due fattori: da un lato, che la scelta datoriale non può dirsi totalmente libera, poiché risulta limitata - oltre che dal divieto di atti discriminatori - dalle regole di correttezza e buona fede cui deve essere informato (ex artt. 1175 e 1375 c.c.) ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. sez. lav., 8 luglio 2016, n. 14021). Dall'altro, viene in rilievo l'assolvimento dell'obbligo di repêchage. Invero, anche nel caso di effettive e comprovate ragioni inerenti l'attività produttiva dell'impresa, grava sul datore di lavoro l'onere della prova dell'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni in cui possa essere utilmente ricollocato.

A ciò consegue, secondo la dottrina (T. Santulli), che, nel caso di imprese di gruppo, il giustificato motivo non potrebbe accertarsi con riferimento ad una singola impresa, dovendo riferirsi alla totalità del gruppo cosicché l'esistenza di un giustificato motivo di licenziamento in una delle imprese possa trovare compensazione da elementi di segno opposto esistenti nell'altra.

Conforme a tale orientamento risulta anche la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in presenza di un gruppo di imprese, configurabile come un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici, l'obbligo di repêchage riguarda tutte le imprese del gruppo e non solo quella dalla quale il lavoratore dipende dal punto di vista formale (Cass. sez. lav., 16 maggio 2016, n. 7717).

A riguardo va precisato che nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è necessario assolvere all'onere di repêchage nei confronti di tutte le imprese appartenenti al medesimo gruppo solo allorché sia ravvisabile un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro, sussistente quando venga accertata l'utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.

Ciò perché il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato - formalmente intercorso tra un lavoratore ed una di esse - si debbano estendere anche alle altre a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.

Tale situazione è ravvisabile quando si accerti non solo l'uso contemporaneo ed indifferenziato delle prestazioni lavorative da parte delle varie società appartenenti al gruppo, ma anche l'unicità della struttura organizzativa e produttiva, l'integrazione tra le attività esercitate tra le varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune, nonché il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune (Cass. sez. lav., 16 gennaio 2014, n. 798).

Osservazioni

A conclusione della disamina del caso, sembra opportuno svolgere qualche considerazione sul fenomeno della codatorialità, distinguendolo dal diverso istituto del distacco, quali ipotesi di condivisione del personale, disciplinate, con riferimento al contratto di rete, nel corpo dell'art. 30, comma 4-ter, D.L. n. 276/2003.

Mentre secondo la ricostruzione di una certa dottrina (M. Esposito) il distacco integra un'ipotesi di utilizzo alternativo del lavoratore, posto temporaneamente e mediante un provvedimento espressione del potere direttivo, a disposizione di un altro soggetto, con l'attribuzione a quest'ultimo dei poteri di conformazione e di controllo, dei quali il datore di lavoro si spoglia per il tempo di esecuzione del provvedimento, nella codatorialità si realizza invece un utilizzo cumulativo del personale da parte di più soggetti datori di lavoro.

Dunque, ove l'effetto del distacco è quello di determinare in capo al lavoratore l'obbligo di prestare la propria attività nell'interesse di una diversa impresa di destinazione, fermo restando che la prestazione continua a costituire esecuzione ed adempimento del rapporto di lavoro intercorrente con la società di provenienza (Trib. Milano, 27 settembre 1999), il fenomeno della codatorialità si configura come l'assunzione congiunta di un medesimo dipendente da parte di più datori di lavoro con la conseguente nascita di un rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un'unica persona e nella posizione di datore di lavoro più persone, chiamate a rispondere solidalmente delle obbligazioni proprie della figura del datore di lavoro (Cass. 2 marzo 2004, n. 4274).

A riguardo preme evidenziare come parte della dottrina (F. Basenghi) tenga distinta la codatorialità dalla contitolarità, per cui, mentre quest'ultima esprimerebbe l'acquisizione congiunta della qualità di datore di lavoro sulla base del contratto, la prima atterrebbe all'esercizio condiviso del potere direttivo e di conformazione da parte di ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete.

Nella fattispecie in esame si rinviene l'ipotesi, delineata dalla dottrina (F. Miani Canevari), di un unico rapporto di lavoro con prestazione di servizio contemporanea a favore di diversi datori di lavoro titolari di distinte imprese, per il caso di attività svolta in modo indifferenziato, tale da non consentire la distinzione tra la parte svolta nell'interesse di un datore e quella eseguita nell'interesse degli altri, cosicché tutti i fruitori dell'attività lavorativa sono considerati solidalmente responsabili ex art. 1294 c.c. (Cass. sez. lav., 5 marzo 2003, n. 3249).

In proposito parte della dottrina (M. G. Greco, F. D. Busnelli) sottolinea che la fattispecie realizza un'obbligazione soggettivamente complessa, in base alla quale ad un unico lavoratore e ad un'unica obbligazione (di lavoro) corrisponde una pluralità di creditori (i datori di lavoro).

A riguardo altra dottrina (A. Perulli) rileva che la duplicità della posizione soggettiva dal lato datoriale implica la condivisione della qualità di datore di lavoro, la codeterminazione delle condizioni di lavoro, la condivisione delle responsabilità, anche per salute e sicurezza, nonché la responsabilità congiunta per i crediti pecuniari.

Da ultimo è opportuno richiamare, con precipuo riferimento alle imprese di gruppo, il consolidato principio di diritto vigente nell'ordinamento giuslavoristico in base al quale il vero datore di lavoro è quello che effettivamente utilizza le prestazioni lavorative, anche se i lavoratori sono stati assunti da un altro soggetto datore apparente, con la conseguenza che chi utilizza dette prestazioni, in quanto datore di lavoro sostanziale, deve adempiere tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo nascenti dal rapporto di lavoro (Cass. S.U., 26 ottobre n. 22910).

Invero, in presenza di un gruppo di società, la concreta ingerenza della società capogruppo nella gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società controllate, ove ecceda il ruolo di direzione e coordinamento generale alla stessa spettante sul complesso delle attività delle suddette società, determina l'assunzione in capo alla medesima società capogruppo della qualità di datore di lavoro, in quanto soggetto effettivamente utilizzatore della prestazione e titolare dell'organizzazione produttiva nella quale l'attività lavorativa è inserita con carattere di subordinazione (Cass, sez. av., 29 novembre 2011, n. 25270).

Guida all'approfondimento

F. Amato, R. Sanlorenzo, La legge n. 92 del 2012 (Riforma Fornero): un'analisi ragionata, p. 199.

G. Meladiò, Imprese a struttura complessa, controllo dei fenomeni di esternalizzazione ed interpretazioni giurisprudenziali, in Foro It., 2010, c. 3332.

M. Biasi, Dal divieto di interposizione alla codatorialità: le trasformazioni dell'impresa e le risposte dell'ordinamento in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT– 218/2014.

S. Italia, Rapporto di lavoro e gruppo d'imprese, in Working Paper ADAPT, 19 giugno 2013, n. 132.

T. Santulli, Unica società in forma di gruppo: una lucida analisi del giudice di merito, in Riv. Giur. Lav. 2002, II, 313.

F. D. Busnelli, L'obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, Giuffrè, 1974, p. 330 ss.

A. Perulli, Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di) "La riforma del mercato del lavoro", Giappichelli, 2014, p. 463.

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