I nuovi confini dell’associazione in partecipazione dopo il riordino delle tipologie contrattuali
14 Gennaio 2016
Abstract
Il decreto legislativo di riordino delle tipologie contrattuali ha cancellato la possibilità di dedurre prestazioni lavorative in forma di apporto all'interno del contratto di associazione in partecipazione (cfr. art. 2549 comma 2 c.c.). L'Autore propone una breve disamina degli spazi residui di utilizzabilità del contratto dopo l'introduzione del divieto legale, con particolare riferimento alle ipotesi degli apporti di servizi da parte di professionisti-imprenditori ovvero società. Si analizzano infine le conseguenze delle violazione del divieto e il regime intertemporale che fa salvi i contratti in essere alla data di entrata in vigore del decreto fino alla loro cessazione. L'associazione in partecipazione con apporto di lavoro è stata di recente interessata da una prorompente innovazione legislativa. Il Parlamento con legge delega n. 183 del 2014 delegava il Governo a selezionare tra le tipologie contrattuali in vigore quelle maggiormente coerenti con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, destinate ad essere inserite all'interno di un «testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro» (cfr. art. 1 comma 7, in particolare lett. a), l. 183 del 2014). La legge non chiariva come la progettata semplificazione selettiva avrebbe ricevuto concreta attuazione. L'art. 53 del d.lgs. 81 del 15 giugno 2015, con lo scopo di risolvere in modo definitivo la risalente questione dell'utilizzo improprio del contratto di associazione in partecipazione, ha cancellato con un netto colpo di spugna la possibilità di dedurre prestazioni lavorative in forma di apporto da parte di persone fisiche. Significativo è l'utilizzo nella rubrica della legge del termine «superamento», lemma non tecnico ma ben comprensibile nelle finalità perseguite: portare a coronamento la progressiva marginalizzazione dell'istituto oramai giunta all'ultimo stadio. La volontà legislativa di accentrare il contratto dominante trasfusa anche nel Jobs Act non è stata perseguita – come in passato – giustapponendo divieti e presunzioni relative. Di questi il d.lgs. 81 fa tabula rasa (v. art. 53 comma 1 e 55 comma 1 lettere h) e m), d.lgs. 81/2015). L'art. 50 della prima versione dello schema di decreto legislativo di riordino delle tipologie contrattuali abrogava l'art. 1 comma 30 della l. 92/2012, nonché i commi 2 e 3 dell'art. 2549 c.c.. Inseriva al primo comma, in fine, le parole «di capitale». Per effetto di tale previsione limitativa non sarebbero stati più ammessi nel tipo legale in questione apporti di natura personale. Tuttavia la norma, così scritta («di capitale») forse per effetto di una svista, rischiava di travolgere anche le associazioni – estranee al problema dell'elusione – tra due società in cui una, associata, presti servizi ad un'altra, associante, in cambio di una partecipazione agli utili. Invadeva così, in modo giudicato da più parti inopportuno ancorché legittimo, un campo non prettamente interessato dalle tipiche problematiche del diritto del lavoro. L'art. 53 comma 1 del d.lgs. definitivo, n. 81 del 15 giugno 2015, mutava tenore, confermando da una parte l'abrogazione del terzo comma dell'art. 2549 c.c. (lett. b) e sostituendo, dall'altra, il secondo (lett. a) che oggi recita: «nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro». La nuova disciplina ridisegna i confini della fattispecie tipica del codice civile per mezzo di una selezione a monte degli apporti deducibili, con una forte limitazione dell'autonomia privata che tuttavia non sembra in contrasto con il principio dell'autonomia negoziale e d'impresa ai sensi degli artt. 2, 3 e 41 Cost., dato che è sempre rimessa al legislatore la valutazione ex ante di meritevolezza – idoneità a realizzare interessi protetti – anche con riferimento ai contratti tipici. I maggiori dubbi riguardano, anche sotto il profilo occupazionale nonché alla luce di una lettura aperta dell'art. 35 Cost., l'opportunità di cancellare la fattispecie dal novero dei contratti di lavoro. Per quanto riguarda il campo di applicazione, il “divieto di lavoro” contempla solo l'opera delle persone fisiche. Restano accessibili i preesistenti spazi operativi riservati a persone giuridiche e alle forme di apporto non consistenti neppure in parte in prestazioni lavorative. Tuttavia, e forse proprio per questo, gli esiti dell'operazione appaiono a tratti incerti. Preliminarmente si deve mettere in evidenza che la norma intende estromettere dalla fattispecie in esame le prestazioni di lavoro – anche se accompagnate da apporti di capitali onde evitare facili circonvenzioni – per accentuarne la “vocazione imprenditoriale”. Data la inammissibilità, anche in passato, di prestazioni di lavoro subordinato, si deve ritenere che la norma innovi solo nel campo del lavoro autonomo. Obbliga in particolare, ai fini dell'operatività del divieto, a effettuare una distinzione che insiste in prima battuta su quella tra lavoro autonomo e impresa vera e propria, i cui tratti distintivi sono l'organizzazione e la necessaria professionalità di chi la esercita. Tuttavia, osservando meglio, il campo di applicazione del nuovo limite abbraccia anche alcune figure caratterizzate tipicamente da imprenditorialità. Per dare spazio al rigore espressivo che caratterizza l'art. 2549 comma 2 c.c. («nemmeno in parte»), deve considerarsi vietata una prestazione costituita, anche solo in alcune fasi, da lavoro umano, che è istituzionalmente presente in alcune figure nelle quali rileva alla stregua di un prevalente ovvero “suvvalente” fattore della produzione. La latitudine della definizione del nuovo comma 2 dell'art. 2549 c.c. pare in altre parole abbastanza amplia da ricomprendere sia le ipotesi di prestazione esclusivamente personale ricondotte con maggiore certezza nell'ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato per effetto dell'art. 2 comma 1 del d.lgs. 81 del 2015, sia tutte le ipotesi nominate di prevalente personalità della prestazione (cfr. art. 2222 e 2232 c.c., eventualmente con i caratteri dell'art. 409 comma 1 n. 3 c.p.c.) ancorché di carattere imprenditoriale (art. 2083 c.c.). Si includono quindi nel campo d'azione del divieto sia i lavoratori autonomi di ogni genere, sia gli imprenditori che adottino il proprio lavoro come fattore produttivo nell'ambito della propria organizzazione. Il divieto così riformulato, capace di irrompere all'interno di una nozione – quella di apporto dell'associato – storicamente rimessa nel contenuto alla libertà alle parti, ha una portata meno estesa. Infatti si continua a consentire il ricorso allo schema sinallagmatico e aleatorio del contratto in esame ad altri “prestatori” e per altre tipologie di apporto, purché diverse da quelle formate anche solo in parte dal lavoro della persona fisica. A tal proposito non è chiaro se il disposto dell'art. 4 della legge sull'ordinamento forense, n. 247 del 2012, ai sensi del quale gli avvocati – persone fisiche – e le associazioni professionali «possono stipulare fra loro contratti di associazione in partecipazione», sia stato o no implicitamente abrogato dal divieto sopravvenuto, dato che la norma generale e successiva dell'art. 2549 comma 2 c.c. potrebbe non prevalere. In effetti la delega (l. 183/2014) si prefiggeva lo scopo di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione», valutando, anche ai fini di un eventuale superamento di alcuni tipi contrattuali, «l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale», valutazione che pare introiettata nella legge sull'ordinamento forense. Si tratta però di un'interpretazione non convincente sul piano testuale, dato che l'art. 55, primo comma, lett. m) del d.lgs. n. 81 del 2015, dispone la abrogazione delle «disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, non espressamente richiamate, che siano incompatibili con la disciplina da esso introdotta», tra le quali si annovera l'articolo esaminato. Sul divieto ideato dal d.lgs. 81 non insistono eccezioni. È invece estranea a detto divieto la cointeressenza con partecipazione ai soli utili (c.d. “impropria”) ai sensi della prima parte del comma 1, art. 2554 c.c., quantomeno se si accede alla tesi – condivisibile – che la considera alternativa alla associazione in partecipazione e la identifica con la clausola di rischio che si aggiunge ad un patto commutativo. Resta invece salvo il rinvio all'art. 2102 c.c. del secondo comma dell'art. 2554 c.c, a mio parere finalizzato a chiarire che, se c'è prestazione di lavoro subordinato, trova applicazione solo la norma specificamente prevista sulla partecipazione agli utili netti, sempre aggiuntiva rispetto alla retribuzione determinata ex art. 36 Cost e art. 2099 c.c. Chiarito che il divieto si riferisce alle fattispecie concrete in cui un lavoratore accetti il rischio di perdere integralmente il “valore” del proprio apporto rimanendo privo di una controprestazione (già inquadrabili nello schema tipico dell'art. 2549 c.c.) si può ora tentare di misurare con maggiore precisione l'ampiezza reale e l'effettiva dissuasività del divieto pensato dal legislatore del Jobs Act. La selezione volta a escludere il “lavoro” – l'attività esecutiva personale – si concilia con le caratteristiche di un contratto il cui schema pare pensato per gli apporti di capitale, beni o denaro. È invece compatibile con un apporto di servizi “in forma d'impresa”, apporto di carattere impersonale qualificabile alla stregua di un “finanziamento”, dal punto di vista dell'associante non dissimile dagli altri valori apportabili. Se l'apporto è impersonale si instaura un rapporto commerciale e non un rapporto di lavoro. L'associazione in partecipazione con apporto di servizi da parte di un'impresa (associata) ha ad oggetto una prestazione organizzata e strutturata che si integra nel ciclo produttivo dell'associante e che corrisponde pertanto a quella dell'appaltatore. Allora, mentre la configurazione negoziale dell'associazione in partecipazione come contratto di lavoro (autonomo) è oggi impedita dal cristallino divieto del comma 2 dell'art. 2549 c.c. come modificato dal d.lgs. 81 del 2015, è ancora possibile fare uso del contratto in esame come “appalto di servizi” il quale presuppone l'organizzazione di tipo imprenditoriale dell'appaltatore. Resta però da chiarire, anche alla luce dell'inserimento del contratto nel novero di quelli d'impresa, quali soggetti possano in concreto associarsi in partecipazione come imprenditori che prestano servizi. Due sono le questioni da risolvere al riguardo, entrambe connesse ai rischi elusivi della previsione del d.lgs. 81/2015. In primo luogo occorre verificare se tra gli apporti di persone fisiche consistenti, «nemmeno in parte, in prestazioni di lavoro» rientrino le prestazioni di servizi dei professionisti organizzati “in forma d'impresa”. È poi necessario chiarire se la possibilità accordata alle persone giuridiche di continuare a fare uso del contratto ex art. 2549 c.c. per scambiare servizi con una partecipazione agli utili - astrattamente legittima - possa schermare usi fraudolenti, riproponendo in una chiave alternativa quello stato di diffusa “illegalità” che la nuova disposizione intendeva cancellare una volta per tutte. Non in tutte le ipotesi in cui l'associato è persona fisica emerge un apporto “anche solo in parte” di lavoro. Potrebbe esulare da questa definizione la prestazione svolta in forza di un'attività di impresa organizzata imputabile alla persona fisica del professionista abituale che ne è a capo o che ne assume la responsabilità. Del resto l'organizzazione possiede una propria dimensione autonoma dal soggetto che la coordina. Il professionista esercente attività d'impresa non lavora giacché la sua prestazione corrisponde alla messa a disposizione dei servizi della propria organizzazione. È in linea con la qualifica di imprenditore da attribuire a questo soggetto lo svolgimento di una «attività istituzionalmente organizzativa del lavoro di terzi», a differenza tanto del lavoratore autonomo che compie l'opera o il servizio «soprattutto mediante una personale attività esecutiva», quanto del piccolo imprenditore che esercita l'impresa con lavoro prevalentemente personale. Il professionista intellettuale assume del resto la qualità di imprenditore commerciale quando esercita la professione nell'ambito di un'attività organizzata in forma d'impresa, in quanto svolga una assorbente attività che si distingue da quella professionale della persona fisica «per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo - il quale cessa di essere meramente strumentale - e per il differente apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d'opera intellettuale, ma involgente una prevalente azione di organizzazione, ossia di coordinamento e di controllo dei fattori produttivi, che si affianca all'attività tecnica ai fini della produzione del servizio» (Cass. 22 dicembre 2011, n. 28312, in Giust. civ., 2013, 5-6, I, 1143; v. anche Cass. 7 aprile 2008, n. 8989, in Giust. civ. Mass. 2008, 4, 532; Cass., 22 luglio 2004, n. 13677, in Giust. civ., 2005, I, 1573). Anche la giurisprudenza più cauta, nel rilevare che «il concetto di imprenditore accolto nell'ordinamento italiano (v. art. 2082 c.c.) tradizionalmente esclude il libero professionista (nella specie, l'esercente la professione forense), in particolare per l'assenza, nell'attività da lui svolta, della necessaria componente organizzativa di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da beni strumentali (macchinari, locali, materie prime, merci) e lavoratori», ammette che è «pur vero che uno studio di avvocato ben può presentare, in concreto, una siffatta organizzazione», cosicché la prima osservazione si riduce alla condivisibile visione secondo la quale il concetto di imprenditore non può «estendersi tout court anche al libero professionista» (Cass. 26 giugno 2013, n. 16092, in G. al dir. , 2013, 32, 50) , ma può estendersi in parte.È ben visibile da questa angolazione che il servizio effettuato da una struttura professionale si realizza impersonalmente, in forza dell'organizzazione imprenditoriale di cui si avvale il professionista titolare (o la persona dell'imprenditore), il quale infatti può anche essere appaltatore in concorrenza con le imprese costituite secondo schemi contrattuali tipici. Con riferimento ai professionisti l'esercizio in forma d'impresa è una possibilità espressamente contemplata dall'art. 2238 c.c. e in tal senso dovrebbe intendersi il rinvio agli art. 2082 e seguenti c.c. che consente di ritenere l'attività professionale l'oggetto centrale di un'attività d'impresa. L'art. 2238 comma 1 c.c. assume in tal modo la fisionomia delle norme sistematiche in quanto riconduce all'esercizio d'impresa quelle attività professionali in cui il potere di gestione si concentra nelle mani di professionisti che organizzano le altrui prestazioni professionali. Tornando al divieto prefigurato nell'art. 2549 comma 2 c.c., per misurare i nuovi confini del tipo legale pare essenziale dirigere il ragionamento verso la nozione di impresa come portato dell'organizzazione predisposta dal professionista nel senso che, in presenza dei connotati tipizzati dall'art. 2082 c.c., non emerge neppure in parte il suo eventuale apporto di lavoro sottostante e, quindi, non può dirsi violata la disposizione. Viceversa, qualora rilevi l'apporto operativo del professionista associato, si incorre in una violazione (sulle cui conseguenze v. infra) Si deve poi rilevare come una prestazione nella sostanza identica a quella di una persona fisica potrebbe essere effettuata dal medesimo soggetto in qualità di socio “a capo” di una società, con imputazione dell'attività alla compagine sociale. In tal modo si continuerebbe ad approvvigionarsi di “lavoro” utilizzando il contratto di associazione in partecipazione contro (non la lettera ma) la ratio del nuovo comma 2 dell'art. 2549 c.c.. Una simile possibilità potrebbe sminuire la perentorietà del nuovo divieto, aggirabile tramite la costituzione di società apposite. Va però detto che, in linea di principio, le società – e in generale gli enti con finalità lucrative – possono essere associate ex art. 2549 c.c.. Per quanto riguarda il profilo dei rischi elusivi legati all'utilizzo di schemi societari, il loro uso, pur in presenza del cosiddetto socio unico, non sembra bypassare di per sé il divieto purché il servizio, satisfattivo del sinallagma esterno del rapporto associativo e alla cui produzione abbia eventualmente collaborato lo sforzo singolare del socio che conferisce lavoro, sia un derivato dell'organizzazione tutta. Non pare sufficiente invocare la semplice “consistenza lavorativa” del servizio per dimostrare l'aggiramento della disposizione. È infatti rispondente allo spirito della norma e alla realtà economica che il servizio frutto dell'organizzazione sia il prodotto di un “fascio” di prestazioni lavorative organizzate in modo autonomo all'interno dell'impresa appaltatrice associata in partecipazione. Tuttavia potrebbe accadere in concreto che la società sia l'interfaccia fittizia di un singolo socio ovvero di più soci, formalmente immedesimati nell'ente interposto al quale conferiscono il proprio lavoro, ma in realtà personalmente in rapporto con l'impresa associante. Ciò potrebbe desumersi dall'ineffettività della partecipazione alla gestione del socio. In simili ipotesi, eliminato il filtro artefatto dell'organizzazione produttiva, emergerebbe la persona fisica come parte di un rapporto non più commerciale ma di lavoro (subordinato ovvero autonomo), instaurato con chi ha utilizzato direttamente la prestazione personale esecutiva dell'opera o del servizio. Si tratta però di una farraginosa operazione simulatoria che appare – soprattutto nell'ipotesi di enti “uni-personali” – di scarsa rilevanza pratica, considerata anche la gravosità di costi, oneri e adempimenti legati alla costituzione di una società, “pesi” che in ipotesi dovrebbe accollarsi l'associante che ha architettato la frode. Qualora sia possibile individuare nell'ente societario un centro di imputazione distinto dalle persone dei soci, la dimostrazione della natura subordinata del rapporto nei confronti della società formalmente associata consentirebbe comunque, in caso di violazione dei limiti all'appalto di lavoro, l'applicazione dell'art. 29, comma 3-bis, d.lgs. n. 276/2003. Resta fermo che i soci potrebbero rivendicare le tutele collegate alla subordinazione verso la propria società senza eccepire o senza riuscire a dimostrare l'illiceità dell'appalto. Si può osservare infine che l'apertura a favore delle società appare ragionevole perché lascia quei “professionisti” davvero indipendenti, in grado di sostenere gli impegni economici e organizzativi dell'auto-imprenditorialità, liberi di operare organizzando eventualmente l'attività secondo gli schemi societari. Il timore di un “facile aggiramento” espresso da una parte della dottrina sembrerebbe quindi meno motivato di quanto prima facie appaia. Le conseguenze della violazione
Ciò che spiazza rispetto alle classiche dinamiche protettive del diritto del lavoro – che vanno nel senso di sanzionare i tentativi di eludere la disciplina vincolistica del lavoro subordinato – è che a essere “colpita” è la prestazione lavorativa, sia essa autonoma o subordinata. In caso di violazione il legislatore non ha previsto una sanzione uniforme con prevalente funzione dissuasiva volta a ricondurre forzosamente all'interno della disciplina di tutela i rapporti non rispondenti a determinati requisiti. Rivelata la natura personalistica dell'apporto e consumata così la violazione, le conseguenze vanno ricercate nei principi generali. Divergono perciò profondamente a seconda delle concrete modalità esecutive del rapporto. Qualora si provi la subordinazione, davanti al giudice del lavoro, il contratto verrà come riqualificato secondo i criteri e principi noti (in ultimo Cass. 29 gennaio 2015, n. 1692, in D&G, 2015, 30 gennaio; Cass. 9 febbraio 2015, n. 2371, RIDL, 2015, 3, 673 ss.; Cass. 10 luglio 2015, n. 14434). Nel caso in cui si resti nell'area del lavoro autonomo – laddove il giudice del lavoro è competente solamente qualora ricorrano le condizioni dettate dall'art. 409 comma 1 n. 3 c.p.c. – o della piccola impresa ex art. 2083 c.c. pare esperibile il rimedio civilistico della nullità di diritto comune per contrarietà ad un divieto imperativo di fonte legale, ai sensi dell'art. 1418 comma 1 c.c. e 2549 comma 2 c.c. (ovvero, nell'ipotesi di uso fraudolento di schemi societari, con analoghe conseguenze, ex art. 1344 c.c.), che porrebbe nel nulla il contratto di associazione in partecipazione. Non può essere aprioristicamente escluso, dato il diverso rilievo attribuito alla volontà delle parti nell'area del lavoro autonomo, il ricorso da parte del giudice alla conversione ex art. 1424 c.c.. È però necessario affrontare l'ipotesi, forse più frequente, in cui il contratto nullo non possa o non debba essere convertito. Non risultando applicabile l'art. 2126 c.c. ai rapporti di lavoro non subordinato, una volta posto nel nulla il negozio si dovrebbe ricorrere all'art. 2033 c.c. ovvero, in via residuale, all'art. 2041 c.c. [9] . Pare in effetti l'unica strada percorribile, con l'accortezza di precisare che il lavoratore potrebbe agire solo ex art. 2041 c.c., non consistendo la sua prestazione non dovuta in un «pagamento» come richiede l'art. 2033 c.c.. Ne deriva in concreto che l'associato che ha reso la prestazione d'opera senza percepire in cambio utili, una volta dichiarata la nullità, potrebbe domandare una controprestazione ripristinatoria dell'equilibrio contrattuale alterato dalla cancellazione del contratto, non più misurata sugli utili nel frattempo registrati – è infatti venuta meno, col negozio, la sua causa aleatoria – bensì liquidabile col metro del valore della corrispondente prestazione di un lavoratore autonomo ovvero facendo ricorso all'equità ove non esistano parametri di riferimento per quella tipologia di attività. Peraltro la prassi di riconoscere acconti periodici potrebbe già soddisfare le condizioni dell'equilibrio. L'associante, dal canto suo, potrebbe domandare la restituzione degli utili già corrisposti, nei limiti in cui questi, eccedendo il valore di un'equa controprestazione nei termini anzidetti, comportino un indebito oggettivo ovvero un arricchimento senza causa. Il regime transitorio
Il secondo comma dell'art. 53 chiarisce il destino dei contratti in atto alla data di entrata in vigore del decreto, nei quali l'apporto dell'associato consista, del tutto o solo in parte, in una prestazione di lavoro, stabilendo espressamente che sono fatti salvi fino alla loro cessazione. Si tratta di un termine finale incerto data la presenza di associazioni in partecipazione a tempo indeterminato. Ad ogni buon conto, per i contratti con un termine di durata (la maggioranza) la perentorietà del regime intertemporale pare escludere il ricorso a proroghe. Il declino della tipologia in esame è ulteriormente favorito dagli incentivi al passaggio alla forma comune ex art. 1 comma 1 del d.lgs. 81. Ai rapporti associativi con i caratteri dell'art. 409 comma 1 n. 3 c.p.c. si applica infatti anche il disposto dell'art. 54 del stesso decreto. Per molto tempo ancora gli operatori saranno impegnati a risolvere questioni inerenti all'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, regolata da normative che si sono stratificate nel tempo. Al fine di individuare la disciplina applicabile dopo l'entrata in vigore del decreto, 25 giugno 2016, è bene distinguere tra norme sostanziali – che circoscrivono le possibilità di utilizzo dell'istituto imponendo limiti o requisiti – e norme processuali – che si riflettono solo sul giudizio. Le prime continuano a regolare le situazioni giuridiche emerse prima di quella data. Ad esempio, l'assunzione prima di quella data del quarto associato per la medesima attività, che determinava la sanzione atipica della “conversione collettiva” dei contratti in essere (cfr. la formulazione precedente dell'art. 2549 comma 2 c.c.), è violazione già consumata contestabile anche dopo l'entrata in vigore del nuovo decreto. Non si potranno viceversa invocare le abrogate presunzioni relative di subordinazione in caso di ineffettiva partecipazione agli utili o mancata consegna del rendiconto ex art. 2552 c.c., nei giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore del decreto ancorché in relazione a violazioni consumate prima. Trattandosi di disposizioni squisitamente processuali e prive di impatto regolativo sulla fattispecie sostanziale si dovrebbero prendere in considerazione ratione temporis le norme vigenti al momento del deposito del ricorso, tra le quali non rientrano quelle già abrogate ex art. 53 comma 1 e 55 comma 1 lettere h) e m), d.lgs. 81/2015. Sarà ovviamente sempre possibile la prova della natura subordinata del rapporto con i metodi tradizionali e, dal 1° gennaio 2016, con obbligo per l'interprete di prendere in considerazione, a quel fine, gli indici rivelatori dell'etero-organizzazione.
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