Nullità della cessione del ramo di azienda e diritto del lavoratore al risarcimento del danno per mancata riammissione

Ilario Alvino
14 Maggio 2015

La nullità della cessione di ramo d'azienda produce il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell'impresa cedente. Questo diritto tuttavia non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l'impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest'ultima un verbale di messa in mobilità.
Massima

La nullità della cessione di ramo d'azienda produce il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell'impresa cedente. Questo diritto tuttavia non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l'impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest'ultima un verbale di messa in mobilità.

Il caso

Con sentenza n. 3227/2007, il Tribunale di Milano dichiarava l'inefficacia della cessione, dalla società T.I. alla società T.P., del ramo di azienda al quale erano addetti i ricorrenti e, conseguentemente, condannava la cedente a ripristinare i rapporti di lavoro. Sebbene i ricorrenti avessero formalmente offerto la propria prestazione alla cedente, quest'ultima non ottemperava all'ordine di ripristinare i rapporti di lavoro alle sue dipendenze. I ricorrenti nel frattempo avevano continuato a lavorare alle dipendenze della cessionaria sino al momento in cui, nel dicembre del 2005, gli stessi avevano accettato la messa in mobilità da parte della medesima società cessionaria, sottoscrivendo un verbale di conciliazione.

I ricorrenti chiedevano ed ottenevano dal Tribunale di Milano decreti ingiuntivi con i quali si intimava a T.I. il pagamento delle retribuzioni maturate dai medesimi ricorrenti dalla data della cessione del contratto di lavoro sino alla domanda.

La società ingiunta proponeva opposizione avverso tali decreti rilevando che nulla era dovuto poiché il rapporto di lavoro doveva considerarsi risolto a seguito dell'accettazione da parte dei ricorrenti della messa in mobilità operata dalla società cessionaria. Sia il Tribunale, sia la Corte di Appello di Milano rigettavano l'opposizione. In particolare, la Corte di Appello ha osservato che a seguito della sentenza con cui viene dichiarata l'illegittimità del trasferimento d'azienda, i rapporti di lavoro interessati devono intendersi ricostituiti ex tunc alle dipendenze della cedente, con conseguente diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla messa a disposizione della prestazione. Non è dunque fondata la tesi secondo la quale il rapporto di lavoro si sarebbe risolto, con il consenso dei lavoratori, in conseguenza dell'accettazione da parte di questi ultimi dell'indennità di mobilità, poiché tale tesi presuppone una valida cessione del ramo d'azienda invece esclusa.

Avverso tale sentenza, T.I. ha proposto ricorso per Cassazione.

La Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che i lavoratori, avendo aderito alle proposte conciliative formulate dalla società cessionaria nell'ambito della procedura di mobilità, hanno validamente manifestato la volontà di risolvere il rapporto di lavoro con effetto anche nei confronti dell'impresa cedente.

La questione

La Cassazione è chiamata a valutare gli effetti della dichiarazione di nullità della cessione del ramo di azienda, con particolare riferimento all'ipotesi in cui il lavoratore, transitato alle dipendenze della cessionaria, abbia continuato a lavorare alle dipendenze di quest'ultima - non avendo la cedente ottemperato all'ordine di riammissione in servizio - ed abbia successivamente accettato la sua messa in mobilità, rinunciando a contestare il licenziamento collettivo intimatogli dalla cessionaria.

In tale ipotesi, si deve concludere che il lavoratore abbia accettato la risoluzione del rapporto di lavoro con effetti anche nei confronti dell'impresa cedente, non potendo così più pretendere, dalla data di tale adesione, il risarcimento del danno conseguente all'inadempimento della cedente all'obbligo di riammissione in servizio del lavoratore?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, risolve la questione poc'anzi riassunta in maniera difforme da quanto fatto dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Milano nei precedenti gradi del giudizio.

I giudici del merito avevano concluso, infatti, che la sottoscrizione della conciliazione con l'impresa cessionaria nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo non poteva produrre alcun effetto risolutivo del contratto di lavoro intercorrente con l'impresa cedente, ricostituito dalla sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità del trasferimento. La transazione stipulata tra il lavoratore e la cessionaria sarebbe stata idonea a risolvere il contratto di lavoro con la cedente solo laddove la cessione fosse stata legittima; legittimità invece esclusa dalla sentenza che aveva dichiarato la nullità del trasferimento d'azienda.

Secondo i giudici del merito: poiché in via giudiziale è stata rilevata la nullità del contratto di trasferimento del ramo di azienda, sul piano giuridico il rapporto di lavoro fra il lavoratore e l'impresa cedente non si è in realtà mai interrotto. In questa prospettiva a nulla rileva che il lavoratore abbia, sin dalla data del trasferimento, sempre lavorato alle dipendenze della cessionaria, poiché l'accettazione da parte dei lavoratori ceduti della messa in mobilità nell'ambito della procedura di licenziamento collettivo avviata dalla cessionaria non avrebbe comunque potuto in alcun modo comportare la risoluzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della cedente. Dovendo il lavoratore essere ancora considerato dipendente della cedente, solo quest'ultima avrebbe potuto interrompere il rapporto di lavoro con il lavoratore, rimanendo priva di effetti nei suoi confronti la procedura di mobilità avviata e conclusa da un soggetto terzo (rispetto al contratto intercorrente fra il lavoratore e la cedente) quale deve essere considerato la cessionaria.

La Cassazione, con una pronuncia che non ha precedenti editi a quanto consta, sposa una tesi meno formale. In particolare, la Suprema Corte rileva che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità del trasferimento di azienda, il rapporto di lavoro nell'ambito del quale il lavoratore ha reso la propria prestazione di lavoro rimane unitario. Detto altrimenti, anche se il lavoratore avrebbe dovuto continuare ad essere impiegato alle dipendenze della cedente, il fatto che lo stesso abbia svolto la propria attività alle dipendenze della cessionaria non ha generato un nuovo rapporto di lavoro.

Ne deriva che il lavoratore aveva sì diritto al risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento da parte della cedente all'ordine di reintegrazione del lavoratore conseguente alla sentenza dichiarativa della nullità del trasferimento d'azienda, ma tale diritto viene meno con l'accettazione del licenziamento collettivo irrogato dalla cessionaria. Ciò proprio perché in tal modo il lavoratore ha espresso una valida volontà idonea a risolvere l'unico contratto di lavoro inizialmente stipulato con la cedente.

Osservazioni

Il principio enunciato dalla Suprema Corte nella sentenza in esame è di grande importanza pratica, poiché suscettibile di limitare fortemente la capacità della sentenza dichiarativa della nullità del trasferimento di ramo di azienda di indurre l'impresa cedente a dar seguito all'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente trasferito.

La sentenza in epigrafe deve infatti essere letta insieme con l'orientamento espresso dalla Cassazione relativamente agli effetti del rifiuto dell'imprenditore cedente di ottemperare all'ordine di reintegrazione del lavoratore trasferito conseguente alla dichiarazione di illegittimità del contratto di cessione del ramo di azienda.

Con orientamento che può dirsi ormai consolidato, invero, il Giudice di Legittimità afferma che l'impresa cedente, la quale non ottemperi all'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente trasferito, è tenuta al risarcimento del danno subito dallo stesso lavoratore - con conseguente detraibilità del c.d. aliunde perceptum - e non già al pagamento della retribuzione (così, tra le tante: Cass. 10 aprile 2015, n. 7281; Cass. 16 settembre 2014, n. 19490; Cass. 14 luglio 2014, n. 16095; Cass. 17 luglio 2008, n. 19740).

La Suprema Corte perviene a tale conclusione argomentando a partire dalla natura giuridica del contratto di lavoro, quale contratto a prestazioni corrispettive.

Trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive, invero, l'erogazione della retribuzione in assenza di prestazione lavorativa è consentita solo nelle ipotesi eccezionali previste dalla legge o dal contratto. In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo ad una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione - corrispettivo e determina a carico del datore di lavoro che ne è responsabile solo l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni.

Alla qualificazione dell'obbligazione del cedente che non ottempera all'ordine di reintegrazione come obbligo di risarcire il danno subito dal lavoratore, la Cassazione fa poi derivare la detraibilità dell'aliunde perceptum che, come nel caso oggetto della sentenza in commento, può consistere nella retribuzione erogata dalla cessionaria al lavoratore che, pur illegittimamente trasferito, abbia continuato a rendere la propria prestazione alle dipendenze di quest'ultima.

In virtù di tale principio, nel caso in cui il lavoratore abbia continuato a rendere la propria prestazione alle dipendenze della cessionaria, l'impresa cedente potrà essere chiamata a rispondere solo per il risarcimento del danno dal quale andrà detratta la retribuzione erogata dalla cessionaria. Sarà dunque eventualmente il lavoratore a dover dimostrare, per esempio, che quanto percepito dalla cessionaria è inferiore alla retribuzione che allo stesso lavoratore sarebbe altrimenti spettata alle dipendenze della società cedente.

Ci si avvede facilmente di come questa soluzione esponga, in punto di fatto, a conseguenze praticamente nulle l'impresa cedente che decida di non ottemperare all'ordine di reintegrazione nel caso in cui il lavoratore abbia continuato a lavorare alle dipendenze della cessionaria. Ed infatti nel caso in cui, in conseguenza del trasferimento, il lavoratore abbia continuato a percepire presso la cessionaria la retribuzione nella misura già percepita presso la cedente, il danno per la mancata reintegrazione presso quest'ultima sarebbe nullo.

La sentenza in commento si colloca nella scia di tale impostazione, precisando ulteriormente che la prestazione resa dal lavoratore alle dipendenze della cessionaria, anche nel caso in cui il trasferimento d'azienda venga dichiarato illegittimo, è pur sempre imputabile all'unico rapporto di lavoro gravante in capo all'impresa cedente.

Ne deriva, a ben vedere, un'ulteriore riduzione della convenienza per l'impresa cedente di ottemperare all'ordine di reintegrazione nella misura in cui alla stessa possa convenire attendere gli esiti della procedura di riduzione del personale avviata dalla cessionaria. Procedura che potrebbe condurre ad una riduzione concordata dei rapporti di lavoro della quale, in ultima analisi, può avvantaggiarsi direttamente anche l'impresa che, a seguito della sentenza dichiarativa della nullità del trasferimento, dovrebbe essere considerata l'unica reale datrice di lavoro.

Riferimenti bibliografici

- R. De Luca Tamajo – M. T. Salimbeni, Il trasferimento d'azienda, in M. Persiani – F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Torino, Vol. VI, 2012, pp. 1454

- M. Novella, Il trasferimento di ramo d'azienda: la fattispecie, in M. Aimo – D. Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, 2004, p. 237

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.