Età pensionabile dei tersicorei e discriminazione di genere: la parola alla Corte di Giustizia

15 Giugno 2017

L'art. 3, comma 7, D.L. n. 64/2010, conv. dalla L. n. 100/2010, sull'età pensionabile dei tersicorei, stante lo specifico e caratterizzante riferimento al sesso e all'età, potrebbe porsi in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dagli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché con l'art. 157 TFUE e con la Direttiva 2006/54/CE. Alla luce di ciò è opportuno il rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
Massima

L'art. 3, comma 7, D.L. n. 64/2010, conv. dalla L. n. 100/2010, sull'età pensionabile dei tersicorei, stante lo specifico e caratterizzante riferimento al sesso e all'età, potrebbe porsi in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dagli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché con l'art. 157 TFUE e con la Direttiva 2006/54/CE. Alla luce di ciò è opportuno il rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

Il caso

Una nota Fondazione lirico-sinfonica di Roma intima il licenziamento nei confronti di alcune dipendenti – rientranti nella categoria dei tersicorei e ballerini – per il compimento dell'età pensionabile, fissato a quarantacinque anni dall'art. 3, comma 7, D.L. 30 aprile 2010, n. 64, conv. con modificazioni dalla L. 29 giugno 2010, n. 100.

Le lavoratrici impugnano il licenziamento, in quanto si erano avvalse della facoltà di prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l'età pensionabile, prevista dal medesimo articolo. Tale opzione, però, rinvia ai limiti di età previsti dalla normativa previgente e fissati per le donne a quarantasette anni, mentre per gli uomini a cinquantadue anni.

Sulla base di questa ingiustificata differenziazione dell'età massima lavorativa in riferimento al sesso, le ricorrenti insistono nel poter continuare la propria attività fino al raggiungimento del limite anagrafico fissato per i colleghi uomini.

La vicenda giudiziaria presenta un percorso altalenante, tra un primo grado favorevole alla tesi delle ricorrenti e un secondo grado che ribalta la pronuncia del giudice di prime cure.

La Corte di Cassazione, investita della delicata questione, rileva la possibilità del contrasto tra il citato art. 3, comma 7, D.L. n. 64/2010 e fonti di rango comunitario, in particolare, gli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché con l'art. 157 TFUE e con la Direttiva 2006/54/CE. Pertanto, dispone il rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea e sospende il giudizio.

La questione

In considerazione della specialità dell'attività svolta, per la categoria dei tersicorei – in cui sono ricompresi i ballerini, i solisti e i mimi (v. art. 86 CCNL Fondazioni lirico-sinfoniche) – è previsto un particolare limite di età per l'accesso al trattamento pensionistico. L'art. 4, comma 4, D. Lgs. 30 aprile 1997, n. 182, fissava l'età massima a quarantasette anni per le donne e cinquantadue per gli uomini, ma tale requisito anagrafico è stato modificato dall'art. 3, comma 7, D. L. n. 64/2010, conv. dalla L. n. 100/2010, che ha stabilito a quarantacinque anni l'età pensionabile per i tersicorei di entrambi i sessi (per completezza, si precisa che, in base all'art. 6 DPR n. 157/2013, l'età pensionabile è stata posticipata al quarantaseiesimo anno a far data dal 17 gennaio 2014).

La citata legge di conversione, al fine di creare un raccordo tra le diverse discipline, ha introdotto un'opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre la soglia anagrafica prevista: “per i due anni successivi alla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai lavoratori di cui al presente comma assunti a tempo indeterminato, che hanno raggiunto o superato l'età pensionabile, è data facoltà di esercitare opzione, rinnovabile annualmente, per restare in servizio. Tale opzione deve essere esercitata attraverso formale istanza da presentare all'Enpals entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione o almeno tre mesi prima del perfezionamento del diritto alla pensione, fermo restando il limite massimo di pensionamento di vecchiaia di anni quarantasette per le donne e di anni cinquantadue per gli uomini”.

Il cuore della vicenda giudiziaria posta all'attenzione della Corte di Cassazione concerne la possibilità per le lavoratrici optanti di proseguire il rapporto di lavoro fino alla stessa età massima stabilita per gli uomini.

Le soluzioni giuridiche

Non è la prima volta che nel nostro ordinamento si prospetta una differenziazione dell'età pensionabile fondata sul genere.

Basti pensare che già con la sentenza n. 137 dell'11 giugno 1986 la Corte Costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 11 L. 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui prevedeva la recedibilità al conseguimento dei requisiti pensionistici, che per le lavoratrici consisteva nel compimento del cinquantacinquesimo anno, anziché del sessantesimo previsto per gli uomini.

Per sanare tale disparità di trattamento era già intervenuta la L. 9 dicembre 1977, n. 903, che all'art. 4 prevedeva la possibilità per le donne di rimanere in servizio fino alla stessa età pensionabile prevista per gli uomini, previa richiesta al datore di lavoro. La Consulta, però, ha censurato anche dell'art. 4 L. n. 903/77, nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici a continuare a prestare la loro opera – fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini – all'esercizio di un'opzione da comunicare al datore di lavoro prima della maturazione dei requisiti pensionistici. Con la pronuncia 21 aprile 1988, n. 498, la Corte Costituzionale ribadisce che “l'età (massima) lavorativa deve essere uguale per la donna e per l'uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima”. Tale posizione è stata confermata dalla Consulta con la sentenza n. 256 del 17 giugno 2002, che riafferma il principio di parità dei sessi in ordine all'età massima lavorativa, da intendersi come età fino alla quale è garantita la stabilità del rapporto di lavoro, a prescindere dall'età pensionabile.

Per quanto concerne l'opzione di prosecuzione dell'attività lavorativa dei tersicorei, occorre rilevare che è la norma stessa a far riferimento ai predetti differenziati limiti di età. Dunque, un'interpretazione letterale impedirebbe la prosecuzione del rapporto di lavoro delle danzatrici fino ai cinquantadue anni previsti per gli uomini.

Una lettura pedissequa della disposizione, però, risulterebbe in netto contrasto con l'art. 30 D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, c.d. Codice delle pari opportunità, così come sostituito dall'art. 1 D. Lgs. n. 25 gennaio 2010, n. 5: “le lavoratrici in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia hanno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali”. Pertanto, come evidenzia il Tribunale di Roma nella pronuncia 31 marzo 2015, “il fatto che le lavoratrici appartenenti alle categorie dei tersicorei e dei ballerini, avendo tempestivamente esercitato l'opzione […], avessero titolo per accedere al trattamento pensionistico al compimento del quarantasettesimo anno di età, non esclude che le stesse avessero anche diritto a proseguire il rapporto di lavoro fino allo stesso limite di età a cui potevano aspirare i colleghi uomini che si trovavano nella medesima situazione di fatto, vale a dire, appunto, fino al compimento del cinquantaduesimo anno di età”.

Anche il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con risposta all'Interpello n. 22/2011, si è espresso sulla questione, affermando che la “differenziazione dell'età pensionabile massima in relazione al sesso del lavoratore” nel caso di specie sarebbe giustificata “in virtù delle particolari caratteristiche dell'attività medesima”.

Osservazioni

Se, però, allarghiamo il campo d'indagine, appare evidente che una disparità di trattamento nella prosecuzione del rapporto di lavoro basata sul genere non contrasta soltanto con gli artt. 3 e 37 Cost. e con il c.d., ma anche con numerose norme comunitarie, come rilevato dalla Suprema Corte nell'ordinanza in commento. In primis, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (che, in base all'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea, ha acquistato lo stesso valore giuridico dei trattati), agli artt. 21 e 23, sancisce espressamente il divieto di ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e la garanzia della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione, lavoro e retribuzione. Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, all'art. 157, assicura il principio della parità della retribuzione tra lavoratrici e lavoratori e, su questo punto, nei confronti dell'Italia è stata già avviata negli anni scorsi una procedura d'infrazione per incompatibilità della legge pensionistica nazionale con la normativa europea che stabilisce uguale età pensionabile tra donne e uomini (v. Corte Giust. 13 novembre 2008, C-46/07). Infine, la Direttiva 2006/54/CE focalizza l'attenzione sull'attuazione del principio di pari opportunità e di parità di trattamento in materia di occupazione e di impiego (v. Corte Giust. 26 febbraio 1986, C-152/84).

Dall'esame di tale normativa europea non può non emergere il dubbio che una ingiustificata diversificazione dell'età massima lavorativa sia incompatibile con il divieto di discriminazione in base al genere e con il principio di parità di trattamento nei rapporti di lavoro.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha deciso di sollevare la questione pregiudiziale sull'interpretazione del principio di non discriminazione in base al genere e di lasciare la parola alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

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