Licenziamento per giusta causa e valutazione di fatti precedenti non contestati
19 Luglio 2017
Massima
I fatti non tempestivamente contestati possono esser considerati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti (tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della complessiva gravità delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore, secondo un giudizio che deve essere riferito al concreto rapporto di lavoro e al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni. Pertanto, si deve ritenere possibile tener conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a tale valutazione il principio di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7. Il caso
La fattispecie in esame riguarda il licenziamento per giusta causa della lavoratrice di una cooperativa della grande distribuzione, intimato a quest'ultima in relazione a un episodio nel quale era emerso – a seguito di un controllo – che la stessa non aveva pagato alcuni calzini (per un importo di € 21), rimasti occultati sotto una confezione di acqua.
In primo grado veniva accolto il ricorso avverso il licenziamento proposto dalla lavoratrice, mentre la Corte d'Appello riformava la sentenza, accogliendo le ragioni datoriali sul presupposto che dovesse ritenersi acquisita la dimostrazione della coscienza e della volontà dell'azione commessa dalla dipendente, in considerazione del numero degli articoli sottratti e della loro posizione di ritrovamento, tali da escludere che quest'ultima non si fosse accorta della loro presenza.
Inoltre, secondo i giudici di secondo grado, l'elemento soggettivo della condotta addebitata, veniva confermato anche dal fatto che, qualche giorno prima all'episodio oggetto della contestazione, la dipendente era stata riconosciuta da un'addetta del punto vendita mentre si appropriava di altra merce.
La lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione. Le questioni
Con il primo motivo la ricorrente censurava la sentenza impugnata nella parte in cui riteneva la coscienza e volontarietà della condotta, pur in presenza di elementi che ne avrebbero dimostrato la compatibilità anche con un evento di sottrazione accidentale, e per aver posto alla base del proprio ragionamento un episodio che non era mai stato oggetto di contestazione disciplinare.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente censurava la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte, valutando come apprezzabile una circostanza mai contestata, era pervenuta a ritenere la sussistenza dell'elemento soggettivo della condotta addebitata.
I motivi così proposti, per identità delle questioni connesse con il vizio dedotto, venivano esaminati congiuntamente dai giudici di legittimità. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo, la Suprema Corte, richiamando le pronunce n. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014, rilevava che l'art. 360, n. 5, così come riformulato a seguito del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (ovverosia, tale vizio deve essere idoneo, esperito il suo esame, a determinare un esito diverso della controversia).
Da ciò consegue, sempre secondo la Suprema Corte, che, nel rispetto del dettato normativo degli artt. 366 c.p.c., co. 1, n. 6 e 369 c.p.c., co. 2, n. 4, “il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
Ciò precisato, i Giudici si esprimevano in merito alla deduzione della ricorrente riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norme di legge – in relazione alla L. 300/1970, art. 7 e 18, respingendo il rilievo.
Per giurisprudenza oramai consolidata, si legge nella sentenza in commento, “i fatti non tempestivamente contestati "possono esser considerati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti (tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore, secondo un giudizio che deve essere riferito al concreto rapporto di lavoro e al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni"; con la conseguenza che "sotto tale profilo può tenersi conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a tale valutazione il principio di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7.
Sula base di tale costante orientamento, pertanto, la Corte respingeva il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite. Osservazioni
Nella sentenza in commento la Cassazione ha inteso ribadire un principio oramai consolidato, ossia che, per stabilire la legittimità o meno di un licenziamento disciplinare, possono rilevare anche i fatti non precedentemente contestati.
La Suprema Corte, infatti, ha più volte ribadito che “il principio della immutabilità della contestazione disciplinare, corollario del principio di specificità sancito dall'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300, vieta al datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli contestati. Non è tuttavia preclusa al datore di lavoro la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi dal lavoratore, come confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti a più di due anni e perfino ove non contestati” (ex multis: Cass. sez. lav., 03 luglio 2015, n. 13680).
In altre parole, secondo i giudici della Cassazione, la valutazione di fatti ulteriori, non viola il principio dell'“immutabilità della contestazione” di cui all'art. 7 St. Lav., secondo il quale, una volta avviato il procedimento disciplinare attraverso la contestazione di una determinata condotta, il datore di lavoro non possa successivamente muovere più alcun altro addebito, poiché su quel nuovo profilo il dipendente non avrebbe possibilità di replica e sarebbe leso il suo diritto di difesa. Tali ulteriori condotte, infatti, non fanno venir meno la corrispondenza tra il fatto contestato e quello addotto a sostegno del licenziamento disciplinare, ma, essendo – come detto – elementi rafforzativi di altri addebiti, mutano solo l'apprezzamento e la valutazione complessiva di questi ultimi.
Come confermato anche dalla giurisprudenza di merito, nel licenziamento disciplinare “il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito mossa al lavoratore ai sensi dell'art. 7 Stat. Lav. preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro” (Trib. Milano, 18 luglio 2013).
Si deve, pertanto, ritenere che ai fini della valutazione della liceità del provvedimento espulsivo, possono risultare rilevanti anche quelle condotte che non sono state tempestivamente contestate o che sono risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento stesso, in quanto costituiscono un elemento utile per l'apprezzamento della complessiva gravità degli altri addebiti posti alla base del licenziamento, anche sotto il profilo psicologico, e la proporzionalità o meno del relativo provvedimento sanzionatorio.
|