Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale

Arturo Maresca
16 Marzo 2017

Partendo dalla qualificazione del GMO come clausola generale o concetto elastico, l'Autore si sofferma sul compito dell'interprete ovvero l'accertamento dell'effettività della ragione produttiva o organizzativa specificata nell'atto di licenziamento, nonché la sua oggettiva attuazione, senza alcuno scrutinio in ordine all'opportunità o convenienza nel bilanciamento con la tutela della posizione del lavoratore. La verifica dovrà, piuttosto, riguardare il nesso di causalità che lega l'esecuzione delle scelte imprenditoriali alla soppressione del posto di lavoro e, quindi, al licenziamento. Tali segmenti possono essere accorpati in tre nuclei essenziali: a) quello centrale delle causali organizzative, cioè delle decisioni imprenditoriali relative “all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”; b) quello che ne costituisce l'antecedente logico, cioè le motivazioni che inducono il datore di lavoro ad esercitare il potere organizzativo; c) l'ultimo, relativo al nesso che raccorda, secondo un rapporto di causa-effetto, l'attuazione della decisione organizzativa con il licenziamento del lavoratore, all'interno del quale sembra possibile collocare anche il cd. repechage. Questo primo contributo, cui seguirà altro, analizzerà i punti di cui alle lettera a) e b).
Introduzione

Nel ripercorrere la tematica del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), si deve muovere dalla svolta fondamentale realizzata dal legislatore con l'art. 3, L. 10 giugno 1966, n. 604, che segna il passaggio dal licenziamento libero (art. 2118 c.c.) a quello vincolato ad alcune causali idonee a legittimare il recesso del datore di lavoro.

Com'è noto, prima della L. n. 604/1966 il licenziamento di un dipendente – così come le sue dimissioni – non doveva essere in alcun modo giustificato, potendo avvenire ad nutum.

Dopo, la legittimità del licenziamento viene, invece, subordinata alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo od oggettivo.

L'identificazione del GMO deve, quindi, essere incentrata sulla causale prevista dal legislatore con riferimento alle "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa", perché solo la sussistenza di tali ragioni consente al datore di lavoro di licenziare. Identificazione da condurre, va subito detto per l'attrattività che esse esercitano, tenendo distinta la fattispecie del GMO dalle norme che (a partire dall'anno 2012) hanno modificato il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo.

Disconoscimento del GMO come concetto elastico

Per chi intende svolgere questa indagine con riferimento al dato positivo e, quindi, ricercando all'interno di esso l'equilibrio tra il potere di licenziamento e la tutela del lavoratore, la prima questione che si pone riguarda la qualificazione del GMO come clausola generale o, piuttosto, concetto elastico.

Questione che si collega a quella di portata generale e sistematica, da ultimo riproposta da Oronzo Mazzotta con la domanda "può il diritto del lavoro fare a meno della fattispecie ed orientare il proprio ordinamento esclusivamente sulla base di concetti indeterminati?", osservando - proprio con riferimento al punto dell'"abbandono della fattispecie a favore di un diritto organizzato intorno a principi" - che "alla fattispecie, una volta ricostruita ed inserita all'interno del mondo del lavoro dipendente, si applicherà una disciplina inderogabile, una disciplina cioè da cui la libertà dei contraenti è esclusa per definizione. Non è casuale, per converso, che, nel diritto privato, la rottura degli stilemi della fattispecie (si basi su e) si faccia forza proprio dei larghi margini che lascia ai contraenti l'art. 1322 c.c., in cui ‘l'avverbio liberamente […] richiama la libertà come valore fondante, criterio e misura dell'attività del privato che opera in regime di autonomia'. Ed allora la liberazione dalle catene della fattispecie può aver luogo solo in un contesto al cui interno lo scrutinio dell'attività dei privati abbia luogo rispetto all'esercizio di poteri liberi nei fini e sui quali può aver luogo un controllo basato su concetti aperti".

Quindi, nel diritto del lavoro l'abbandono della fattispecie comporta, in sostanza, la sottrazione della norma dal vincolo inderogabile imposto dal legislatore a tutela del lavoratore, con una torsione della materia verso la sfera della libertà contrattuale individuale, in antitesi con lo spirito del diritto del lavoro.

Di qui il rischio che l'oscillazione del pendolo dell'interpretazione, una volta liberata dalla fattispecie, possa avere esiti non solo arbitrari, ma lasciati di volta in volta alle valutazioni etico-ideologiche del singolo interprete che, per di più, opera in un contesto socio-economico ormai non più soggiogato da una egemone valutazione di valori e, quindi, dall'uniformità della prospettiva d'indagine, ma da un variegato sentire influenzato da principi multiformi che si delineano, si contrappongono e si compongono negli ordinamenti e nella loro competizione (da quello comunitario a quello collettivo, per di più caratterizzato da una tendenza aziendale).

Tornando all'alternativa delineata – in ordine alla qualificazione del GMO come clausola generale o, piuttosto, concetto elastico – si deve segnalare che essa assume un significativo e concreto rilievo poiché consente di fornire una prima indicazione relativamente ai margini che il legislatore ha voluto lasciare all'interprete nell'identificazione del GMO. Alternativa, quindi, rilevante, ma di non univoca soluzione come avviene quando ci si avvale di classificazioni quasi mai esenti da semplificazioni che ne segnano, insieme, l'utilità a fini espositivi, ma anche l'incompletezza.

Limitandoci all'essenziale, si può agevolmente escludere la configurabilità del GMO alla stregua di una clausola generale, che può considerarsi tale quando il legislatore utilizza un concetto attinto dalla realtà sociale (ad esempio, il buon costume), affidando all'interprete una cognitio extra ordinem necessaria per completare il comando normativo che, solo così, può funzionare.

Seguendo una soluzione alternativa a questa ipotesi si potrebbe – aderendo, peraltro, all'opinione prevalente in dottrina – qualificare il GMO come un concetto elastico di cui il legislatore si sarebbe avvalso, invece di fissare un precetto preciso, assegnando all'interprete il compito di modulare i contenuti di un'espressione volutamente generica (e, per questo, elastica).

Però, la migliore dottrina civilistica ritiene che le norme che contengono un concetto elastico sono quelle nelle quali il legislatore ricorre a formule indeterminate come "lunga durata", "evidente pericolo" o "gravi difetti", lasciando all'interprete di stabilire "quando la durata sia lunga, quando il pericolo sia evidente e quando il vizio sia grave".

Appare, quindi, possibile revocare in dubbio l'opinione che la formula del GMO utilizzata dal legislatore ("ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa") identifichi un concetto elastico che, invece, sembra attagliarsi alla nozione di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (GMS).

Infatti in quest'ultimo caso dovrà essere l'interprete a stabilire quando l'inadempimento del lavoratore possa considerarsi "notevole", e ciò avverrà sulla scorta di un altro concetto elastico, quello della "gravità" dell'infrazione disciplinare evocato dall'art. 2106 c.c. da declinare in modo proporzionato alla sanzione da applicare.

Di qui una prima indicazione: mentre il GMS lascia all'interprete l'apprezzamento della gravità dell'inadempimento del lavoratore, con la conseguenza che il licenziamento sarà legittimo nella misura in cui lo stesso interprete valuti tale inadempimento come notevole; invece con il GMO il legislatore intende dare atto che le decisioni produttive o organizzative prese dal datore di lavoro, in quanto tali e cioè nella loro oggettiva sussistenza e nel loro collegamento con la soppressione del posto di lavoro, possono legittimare il licenziamento.

In questo caso, quindi, il legislatore non specifica il contenuto che queste ragioni possono assumere di volta in volta, proprio perché ritiene che esse siano quelle insindacabilmente decise dal datore di lavoro.

Il compito dell'interprete riguarda, quindi, l'accertamento dell'effettività della ragione produttiva o organizzativa specificata nell'atto di licenziamento, nonché la sua oggettiva attuazione, senza alcuno scrutinio in ordine all'opportunità o convenienza nel bilanciamento con la tutela della posizione del lavoratore. La verifica dovrà, piuttosto, riguardare il nesso di causalità che lega l'esecuzione delle scelte imprenditoriali alla soppressione del posto di lavoro e, quindi, al licenziamento.

Poteri del datore di lavoro e tecniche di bilanciamento: cenni generali

Quanto accennato induce a guardare alla collocazione del GMO all'interno delle tecniche utilizzate dal legislatore nel variabile bilanciamento tra poteri del datore di lavoro e tutela della posizione del dipendente.

Non è certo questa la sede per riprendere il tema generale, ma è noto che il legislatore limita i poteri datoriali, ponendo vincoli di vario tipo al loro esercizio: formali, procedurali, sostanziali o causali, con modalità diverse per intensità e contenuti del vincolo.

Solo pochi cenni per delineare schematicamente un parametro utilizzabile per il ragionamento da svolgere in questa sede, ad esempio:

  • il potere di modificare orizzontalmente le mansioni (art. 2103, comma 1, c.c.) è sottoposto ad un limite esterno (il rispetto dello stesso livello di inquadramento e della categoria legale, nonché l'obbligo formativo se necessario), ma non richiede alcuna forma quanto alla comunicazione al lavoratore, né una procedura, né una causale che lo giustifichi;
  • il potere di variazione in pejus delle mansioni (art. 2103, comma 2, c.c.) presuppone una causale (la "modifica degli assetti organizzativi aziendali"), una forma (quella scritta a pena di nullità), il rispetto di un limite sostanziale (la stessa categoria legale, un solo livello di sotto inquadramento);
  • l'esercizio del potere disciplinare viene assoggettato a requisiti di forma (quella scritta della contestazione disciplinare), procedurali (quelli dell'art. 7, St. Lav.) e sostanziali (la proporzionalità dell'art. 2106 c.c.);
  • infine il trasferimento disposto dal datore di lavoro (art. 2103, comma 8, c.c.) è subordinata ad una causale (le "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive") per verificare la sussistenza dell'interesse dell'impresa a modificare il luogo di adempimento della prestazione lavorativa.

I vincoli posti dal legislatore al licenziamento per GMO sono di tipo formale, procedurale e causale.

Infatti, alla forma scritta del licenziamento, riguardante anche le specifiche motivazioni che lo giustificano (art. 2, comma 2, L. n. 604/1966, modificato dall'art. 1, comma 37, L. 28 giugno 2012, n. 92), si è aggiunto l'obbligo della procedura preventiva che il datore di lavoro deve esperire tramite la DTL (art. 7, L. n. 604/1966, modificato dall'art. 1, comma 40, L. 92/2012). Questo non è applicabile ai rapporti di lavoro per i quali operano le tutele crescenti del D.Lgs. n. 23/2015.

Il vincolo causale costituisce il filtro più rilevante al licenziamento del dipendente che potrà avvenire non già per un qualsiasi interesse del datore di lavoro, bensì quando tale interesse risulti funzionale a ragioni dell'impresa riguardanti l'attività produttiva o l'organizzazione del lavoro, in modo analogo a quanto avviene per il trasferimento (art. 2103, comma 8, c.c.).

In poche parole il datore di lavoro non può espellere un dipendente a suo piacimento (come avveniva con l'art. 2118 c.c.), ma soltanto quando dimostra la sussistenza di una ragione imprenditoriale (non sindacabile) che legittima l'esercizio del potere organizzativo, anche se ciò può comportare la soppressione del posto di lavoro e, quindi, il licenziamento del dipendente.

L'identificazione del GMO deve essere incentrata sulle ragioni produttive od organizzative e sul contenuto delle stesse, muovendo dalla consapevolezza che i limiti al licenziamento possono assumere nel nostro ordinamento forme ed intensità molto variabili, rimesse alle opzioni politiche che competono al legislatore la cui discrezionalità si potrà dispiegare nei limiti dell'inderogabile principio costituzionale ed europeo della causalità del recesso.

La condivisione o meno delle scelte di politica del diritto compiute dal legislatore è sicuramente tema di grande rilievo ed interesse, ma l'inevitabile attrazione per questa discussione non deve essere fatale ed indurre l'interprete ad attribuire un suo contenuto precettivo all'art. 3, L. n. 604/1966 che, seppur in astratto legittimamente opzionabile da parte del legislatore in quanto conforme a Costituzione, implica esiti diversi da quelli in concreto disposti dal legislatore per la funzionalità dell'ordinamento.

GMO: ragione organizzativa, motivazioni e nesso di causalità

Quindi, le ragioni afferenti l'organizzazione della produzione o del lavoro identificano il limite posto dal legislatore al recesso del datore di lavoro, non più libero come prevedeva l'art. 2118 c.c., ma ancorato ad una decisione imprenditoriale oggettivamente verificabile che ne costituisce la causa e lo giustifica nel rispetto dei principi costituzionali e dell'inderogabile previsione dell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Quanto appena detto vuol dire focalizzare l'indagine interpretativa sulla nozione di GMO sulle "ragioni" che devono essere dimostrate dal datore di lavoro per provare la legittimità del licenziamento.

In questa prospettiva, un contributo al chiarimento del tema può derivare dalla scomposizione dei vari segmenti che, secondo le diverse opinioni prospettate in dottrina e giurisprudenza, concorrono a configurare il GMO per verificare quali di essi connotano la fattispecie individuata dall'art. 3 e quali, invece, sono ad essa estranei.

Partendo dal cuore del GMO e poi procedendo orizzontalmente tali segmenti possono essere accorpati in tre nuclei essenziali:

  1. quello centrale delle causali organizzative, cioè delle decisioni imprenditoriali relative "all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa";
  2. quello che ne costituisce l'antecedente logico, cioè le motivazioni che inducono il datore di lavoro ad esercitare il potere organizzativo;
  3. l'ultimo, relativo al nesso che raccorda, secondo un rapporto di causa-effetto, l'attuazione della decisione organizzativa con il licenziamento del lavoratore, all'interno del quale – come si dirà – sembra possibile collocare anche il c.d. repechage o ripescaggio.
Irrilevanza delle motivazioni delle decisioni organizzative

Chiarita la centralità della ragione produttiva o organizzativa che configura il GMO, appare scontata, in primo luogo, l'osservazione che il potere organizzativo del datore di lavoro può incontrare limiti nella legge (statale o regionale) o nella contrattazione collettiva laddove, ad esempio, si impone l'impiego di un numero minimo di addetti per gestire un certo servizio (un asilo nido, una clinica convenzionata, ecc.) oppure si inibisce al datore di lavoro di effettuare un decentramento produttivo affidando a terzi attività prima gestite direttamente.

In questi casi, infatti, l'interdizione del potere organizzativo si ripercuote inevitabilmente sul licenziamento per GMO, che non può essere legittimato da scelte organizzative non consentite. È il caso emblematico esaminato da Cass., 5 settembre 2000, n. 11718 (con nota di G. Riganò) nel quale viene ritenuta l'illegittimità di un licenziamento per GMO disposto a seguito di un decentramento organizzativo realizzato dal datore di lavoro in violazione dei limiti posti dalla contrattazione collettiva.

Più complessa si presenta la questione relativa ai contenuti delle ragioni produttive o organizzative ed il loro approfondimento deve muovere da alcune precisazioni.

La prima riguarda il tipo di indagine da effettuare con un approccio non concettuale, ma normativo (seguendo l'indicazione di R. DE LUCA TAMAJO).

Infatti è mal posto l'interrogativo se, in astratto, le scelte organizzative del datore di lavoro possano essere o meno sottoposte ad un controllo giurisdizionale quanto alle motivazioni che su di esse si fondano; si tratta, invece, di verificare se la causale legale scritta nell'art. 3, L. n. 604/1966 risulti o meno comprensiva di tali motivazioni.

In altre parole, le motivazioni (a monte) o le finalità (a valle delle decisioni organizzative) rilevano se e nella misura stabilita dal legislatore al quale compete - in applicazione non solo dell'art. 41, ma anche degli artt. 4 e 35 Cost. - di individuare l'equilibrio tra le iniziative che il datore di lavoro è libero di intraprendere e la tutela del lavoratore quanto alla prosecuzione del suo rapporto contrattuale (infatti, come si dirà in seguito, l'interesse all'occupazione – che è diverso da quello alla conservazione del posto di lavoro – può ben essere tutelato in varie forme, ad esempio dando vita ad efficaci politiche attive del lavoro).

Quindi per tale tutela non c'è un modello univoco o legalmente dovuto, ma essa si realizza in forme, modalità, con gradualità e su piani (individuali o collettivi o amministrativi) molto diversi, nei limiti delle compatibilità sancite normativamente dal legislatore.

Di tutto ciò chi è chiamato ad applicare la legge se ne deve fare interprete leale e non arbitro decisore.

Quanto fin qui accennato evidenzia (cfr. R. DE LUCA TAMAJO; F. SCARPELLI) che nell'identificazione del GMO non è dirimente la previsione dell'art. 30, comma 1, Legge 4 novembre 2010, n. 183 in quanto, se è pur vero che "il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro", la fattispecie del GMO non comprende - come si è detto - i motivi delle scelte organizzative che ne identificherebbero il merito.

Ed è proprio per questo, quindi, che su di essi il controllo giurisdizionale non può essere esercitato. Infatti, se il legislatore avesse ricompreso nella fattispecie del GMO anche i motivi idonei a determinare le scelte organizzative, tali motivi avrebbero concretizzato un "presupposto di legittimità", quindi sindacabile.

Ma ciò implica una precisa scelta del legislatore finalizzata ad attribuire rilievo ai motivi che legittimano le decisioni del datore di lavoro idonee ad esercitare il recesso per GMO.

Una scelta che il legislatore avrebbe potuto realizzare optando per una di queste due alternative:

  1. rimettendo al giudice la valutazione della meritevolezza di tali motivi evocati in termini generali (parafrasando l'art. 3: "ragioni fondate su seri motivi inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa");
  2. selezionando direttamente i motivi per stabilire quelli che consentono di procedere alla soppressione del posto di lavoro ("ragioni finalizzate al contrasto della crisi inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa"), distinguendo così tra quelli idonei e quelli inidonei a legittimare il licenziamento per GMO.

Ma nell'art. 3, L. n. 640/1966 – come già accennato – non vi è traccia alcuna di queste due opzioni.

In conclusione, per quanto concerne il GMO il controllo sulla sussistenza delle ragioni produttive o organizzative evocate dall'art. 3 è sempre di legittimità, nel senso che esso riguarda e si esaurisce all'interno della fattispecie che autorizza il licenziamento a fronte di tali ragioni, e non anche delle motivazioni che determinano le decisioni del datore di lavoro.

Sono, quindi, irrilevanti i motivi posti a base delle scelte sulle quali si fonda il GMO, ma anche gli obiettivi che con tali scelte il datore si propone di realizzare. I primi si collocano nella fase di valutazione delle iniziative che il datore di lavoro intende assumere ed applicare nel preesistente assetto organizzativo della produzione e del lavoro; mentre i secondi riguardano i risultati a cui mira il datore di lavoro ed in vista dei quali procede al licenziamento.

Causali e motivazioni nel licenziamento individuale e collettivo

Per chiarire quanto appena detto, può essere utile ricordare la fattispecie che legittima il licenziamento collettivo "in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" (art. 24, comma 1, Legge 23 luglio 1991, n. 223) e che evoca i "motivi che determinano la situazione di eccedenza" soltanto come oggetto dell'informativa che il datore è tenuto a fornire preventivamente al sindacato relativamente ai "motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo" (art. 4, comma 3, L. n. 223/1991).

In questo caso si distinguono plasticamente due piani che consentono di misurare la diversa rilevanza attribuita dal legislatore ai "motivi" del licenziamento collettivo, evidenziando che essi non incidono direttamente sulla fattispecie che legittima tale licenziamento.

Anche il licenziamento collettivo deve essere ricondotto ad una fattispecie legale che lo legittima, come dimostra Cass. sez. lav., 26 giugno 2015, n. 13277, che è una delle ultime sentenze nelle quali si affronta un contezioso relativo a licenziamenti collettivi effettuati alla fine degli anni '90 dalle Ferrovie dello Stato, a seguito di un accordo collettivo che, nella tesi accolta dalla Cassazione, aveva identificato la situazione di eccedenza di personale in base all'anzianità contributiva dei lavoratori. Criterio idoneo per individuare i lavoratori eccedenti da licenziare, ma non per "assumere funzione di gestione negoziale dell'individuazione del personale in eccedenza" che, invece, secondo la Cassazione avrebbe dovuto essere accertata in base all'art. 24, comma 1, e che può essere smentita, com'è avvenuto nel caso in esame, dall'assunzione di altri lavoratori in sostituzione di quelli licenziati con le stesse qualifiche e nelle medesime unità produttive.

Al contrario, i "motivi" del licenziamento collettivo trovano spazio nella sfera collettiva, considerata dal legislatore a sostegno dell'azione sindacale, con l'effetto di sottoporre il datore di lavoro ad un controllo sindacale in ordine alle motivazioni del licenziamento che sfuggono, invece, alla verifica giurisdizionale.

Affermazione che non è smentita dalla previsione dell'art. 4, comma 12, L. n. 223/1991, che sancisce l'illegittimità dei licenziamenti collettivi irrogati in violazione (non sanata) delle procedure di informazione e consultazione sindacale. Ciò, infatti, accade per il collegamento – che non altera la diversità dei due piani di tutela (quello individuale e quello collettivo) – operato, per scelta del legislatore, dalla specifica norma che pone tale collegamento che, invece, non viene previsto nel caso del trasferimento di azienda a cui si accenna successivamente nel testo.

Tecnica analoga viene adottata dall'art. 47, comma 1, legge 29 dicembre 1990, n. 428, nel caso del trasferimento di azienda, obbligando il cedente ed il cessionario ad informare preventivamente il sindacato circa i "motivi del programmato trasferimento d'azienda", le "sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori" e le "eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi".

Motivi, conseguenze e misure che non rilevano sul piano dell'effetto legale previsto dall'art. 2112, comma 1, c.c. dell'automatica prosecuzione in capo al cessionario dei rapporti di lavoro del personale addetto al ramo ceduto.

Il richiamo all'art. 24, L. n. 223/1991 consente anche di mettere a confronto la fattispecie ivi identificata conseguente ad una "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" con le "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa" (art. 3, L. n. 604/1966).

Un confronto utile per evidenziare come le ragioni del GMO siano formulate dal legislatore in termini generali ed astratti, ma comprensivi di ciò che l'art. 24 individua quanto agli effetti ("riduzione o trasformazione di attività o di lavoro") che oggettivamente si determinano pur essendo medesime le cause che li generano.

Restano distinte ed irrilevanti, quanto alla fattispecie, le motivazioni soggettive che, nel licenziamento collettivo, inducono il datore di lavoro a ridurre l'attività o, soltanto, la forza lavoro oppure ad incidere, nel GMO, sull'organizzazione della produzione o del lavoro sopprimendo un posto di lavoro.

Soppressione del posto di lavoro e decisioni organizzative: la necessità di distinguere

Per mettere meglio a fuoco la rilevanza della ragione organizzativa all'interno della causale che legittima il GMO, si deve aggiungere che tale GMO non si configura quando il licenziamento viene giustificato soltanto con la soppressione del posto di lavoro, poiché in questo caso non si rende evidente a monte la decisione organizzativa (oggettivamente verificabile) che determina tale soppressione.

Ciò significa che non appare possibile identificare la soppressione del posto di lavoro con la ragione che ne è la causa, così come, su un diverso piano, non si possono confondere le decisioni organizzative, nella loro oggettività, con le motivazioni che, soggettivamente, inducono il datore di lavoro ad assumere tali decisioni e neppure con le finalità che con esse si intendono perseguire.

La distinzione non è, secondo quanto alcuni sostengono, meramente nominalistica e priva di un contenuto pregnante, come dimostra la giurisprudenza che applica utilmente questo concetto per indagare in concreto la legittimità del licenziamento per GMO.

In alcune recenti sentenze della Cassazione (v., da ultimo, Cass. sez. lav., 28 settembre 2016, n. 19185) si ribadisce, infatti, "la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (cfr. in tal senso Cass. sez. lav., 21 novembre 2011, n. 24502). Infatti, se tale redistribuzione fosse un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un'esigenza di più efficiente organizzazione produttiva".

Si deve, quindi, ritenere che la decisione organizzativa costituisce il prius e la soppressione del posto di lavoro il posterius e ciò non già sul piano della sequenza temporale, quanto piuttosto del rapporto di causalità che deve riscontrarsi tra tale decisione addotta dal datore di lavoro e ciò che ad essa consegue (la soppressione del posto).

Proprio per questo, come si è detto, non sembra possibile assimilare la soppressione del posto alla ragione organizzativa che ne è la causa. Infatti invertire i fattori – cioè, anteporre l'effetto alla causa – porterebbe ad un licenziamento privo di GMO perché la soppressione del posto non sarebbe fondata (giustificata) da una decisione organizzativa del datore di lavoro la cui realizzazione comporta il licenziamento del dipendente.

Peraltro, se la sola soppressione del posto giustificasse il licenziamento, il GMO si risolverebbe in una tautologia per la coincidenza pressoché totale tra i due concetti che, invece, sono legati da un nesso causale.

In tale prospettiva, si deve ribadire che la verifica in concreto dell'ancoraggio del recesso ad una decisione organizzativa appare agevolata dall'obbligo, per il datore di lavoro, di specificare nell'atto di licenziamento la motivazione, il che vuol dire non già limitarsi ad enunciare la soppressione del posto, bensì indicare – in modo non implicito, ma espresso – le ragioni organizzative o produttive (ma non le motivazioni) che sono la causa di tale soppressione.

Soppressione del posto di lavoro, prosecuzione delle attività e sostituzione del dipendente nello stesso posto di lavoro

Quindi, la soppressione del posto di lavoro costituisce l'effetto derivante dalla modifica dell'assetto organizzativo disposta dal datore di lavoro e, così ricostruita, concorre a legittimare il licenziamento per GMO.

Tale soppressione si verifica quando viene meno il posto di lavoro, inteso come la posizione (o postazione) organizzativa ricoperta dal dipendente e con riferimento alla quale è stato inizialmente concluso il contratto di lavoro o successivamente assegnato il prestatore. Ciò, però, non implica necessariamente anche il venir meno dell'attività svolta da quest'ultimo in tale posizione.

Infatti, si può verificare che il datore di lavoro, anziché decidere di cessare definitivamente l'attività affidata al dipendente, continui (direttamente o indirettamente) a svolgerla, ma con modalità diverse.

In quest'ultima ipotesi può accadere che l'attività, concentrata in precedenza su un solo dipendente addetto ad un posto di lavoro, venga, ad esempio:

  1. smembrata per essere ripartita tra più lavoratori;
  2. oppure svuotata di alcuni compiti per essere affidata ad un diverso dipendente con mansioni inferiori;
  3. all'inverso, arricchita e, quindi, attribuita a chi è inquadrato in un livello superiore;
  4. dismessa (in tutto o in parte) e conferita a terzi con l'incarico – oggetto di un contratto di appalto o di lavoro autonomo o di collaborazione continuativa – di eseguire un'opera o un servizio che permetta all'organizzazione produttiva del datore di lavoro di ottenere il risultato finale per la cui realizzazione venivano in precedenza impiegate le energie lavorative del dipendente addetto al posto soppresso.

In tutti questi casi viene meno quello specifico posto di lavoro, inteso come articolazione dell'organizzazione produttiva di cui il datore di lavoro si avvaleva e che viene modificata dal licenziamento per GMO; si configura così un assetto organizzativo diverso da quello preesistente al licenziamento.

Ad una diversa conclusione si deve, invece, pervenire nei casi in cui non si verifica alcuna soppressione o mutazione del posto di lavoro che resta inalterato, anche se il datore di lavoro intende sostituire il dipendente che lo occupa per migliorare l'organizzazione del lavoro e della produzione.

Infatti, tale sostituzione è finalizzata a realizzare una concreta utilità per l'impresa derivante da una maggiore efficienza/rendimento della prestazione lavorativa o dal contenimento dei costi di produzione ottenuti dal datore di lavoro che per le stesse mansioni si avvale di un altro dipendente con una retribuzione più bassa (ad esempio per la minore anzianità di servizio o perché la retribuzione individuale del dipendente sostituito era più elevata degli standards di mercato) o con maggiori capacità di rendimento.

Diversa dall'ipotesi in esame è quella dell'apprendista: in quest'ultimo caso, infatti, le mansioni svolte sono diverse per contenuti professionali e competenze.

Il caso in esame potrebbe materializzarsi anche quando la sostituzione nello stesso posto di lavoro avviene con un dipendente somministrato a tempo indeterminato (il cui rendimento è notoriamente superiore a quello di un lavoratore fisso, così come la sua flessibilità di impiego), essendo possibile per un'impresa dotarsi stabilmente di un organico costituito per il 20% da lavoratori somministrati (cfr. art. 31, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015).

Queste ipotesi, però, non legittimano un licenziamento per GMO del lavoratore sostituito per avvicendamento nello stesso posto di lavoro con un altro dipendente.

In questi casi il licenziamento sarebbe causato, infatti, non già da una ragione riconducibile all'organizzazione del lavoro o della produzione dell'impresa di cui essa intende avvalersi, ma dall'adeguatezza del lavoratore che, per il costo o per qualità soggettive (abilità, attitudini, rendimento), non risponde alle esigenze dell'impresa.

In altre parole il problema non riguarda l'organizzazione dell'impresa nella sua oggettività e, quindi, le modifiche che il datore di lavoro può apportare ad essa, bensì la carenza (o insufficienza) di requisiti soggettivi del lavoratore che ne suggeriscono la sostituzione.

Sostituzione che lascia inalterata l'organizzazione del lavoro e della produzione quanto alla sua ripartizione quantitativa e qualitativa, modificando invece i soggetti (i lavoratori) ai quali è affidata l'attività.

Quindi la sostituzione di un dipendente con un altro non è causata da una modifica dell'organizzazione produttiva, ma deriva dall'inadeguatezza del dipendente. Il problema che, in questo caso, si pone per il datore di lavoro non riguarda l'organizzazione della produzione o del lavoro, ma è soggettivamente collegato alla qualità/quantità della prestazione che il lavoratore è in grado di offrire.

Quanto appena detto consente di evidenziare che l'utilità economica dell'avvicendamento di un lavoratore con un altro costituisce la motivazione dell'operazione condotta dal datore di lavoro che, però, va distinta dalla modifica delle modalità di organizzazione del lavoro e della produzione.

Infatti la legittimità del licenziamento per GMO riguarda le modifiche organizzative adottate dal datore di lavoro quando esse consentono di fare a meno della prestazione resa dal lavoratore: non si tratta, quindi, di sostituire il lavoratore (per lo scarso rendimento o perché meno capace) con un altro, ma di permettere all'imprenditore di attuare le proprie scelte dotandosi di una diversa modalità di organizzare il lavoro per continuare a produrre senza più la necessità dell'apporto di un dipendente, il cui posto di lavoro, in ragione di ciò, viene soppresso.

Né la realizzazione di siffatto assetto può essere contrastata imponendo al datore di lavoro l'invarianza dell'occupazione preesistente, facendo gravare su di lui i costi di produzione appesantiti da un'occupazione ormai eccedente rispetto al fabbisogno di lavoro; costi che, peraltro, con tutta probabilità, l'impresa cercherebbe di scaricare sulla collettività (CIG).

In conclusione, il GMO si configura ogni qual volta la ragione organizzativa evocata dall'art. 3 comporta la soppressione del posto di lavoro e non la sostituzione di un dipendente nello stesso posto di lavoro:in questo caso, infatti, si pone un problema soggettivo che attiene all'inadeguatezza del lavoratore rispetto alla posizione che occupa in azienda.

L'esclusione del GMO nel caso di sostituzione di un lavoratore inadeguato appare peraltro coerente con la finalità dell'art. 3, L. 10 giugno 1966, n. 604, che è quella di selezionare e delimitare le causali che autorizzano il recesso del datore di lavoro, individuando la fattispecie in funzione del licenziamento come atto esecutivo delle decisioni del datore di lavoro finalizzato ad estinguere il rapporto di lavoro per realizzare un diverso assetto dell'organizzazione della produzione o del lavoro, e non già come atto di gestione del rapporto di lavoro per conformare la prestazione del lavoratore alle esigenze produttive dell'impresa.

Ancora sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale

Guida all'Approfondimento
  • F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, 48 ss.
  • O. MAZZOTTA, "Nel laboratorio del giuslavorista", di prossima pubblicazione nel Liber amicorum in onore di Giuseppe Santoro Passarelli
  • G. RIGANO', La tutela individuale e le clausole collettive contenute nella parte obbligatoria del contratto collettivo, in ADL, 2001, 289

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