Mancato esperimento del preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione e improponibilità della domanda giudiziale

Sara Brambilla
17 Maggio 2017

Il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione di cui all'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003, costituisce condizione di proponibilità della domanda. La sua mancanza, quindi, è rilevabile d'ufficio e comporta la definizione della causa con una sentenza (nel caso di specie ordinanza) dichiarativa dell'improponibilità, al pari di quanto avviene in altri procedimenti in cui è imposta la previa fase conciliativa stragiudiziale, come, ad esempio, in materia agraria.
Massima

Il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione di cui all'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003, costituisce condizione di proponibilità della domanda.

La sua mancanza, quindi, è rilevabile d'ufficio e comporta la definizione della causa con una sentenza (nel caso di specie ordinanza) dichiarativa dell'improponibilità, al pari di quanto avviene in altri procedimenti in cui è imposta la previa fase conciliativa stragiudiziale, come, ad esempio, in materia agraria.

Il caso

Un lavoratore dipendete di una società (a seguire denominata società X) che prestava attività in favore di una società terza (a seguire denominata società Y), in forza di un contratto di appalto di servizi certificato ex art. 79, D.Lgs. n. 276/2003, a seguito del licenziamento intimatogli da parte della società X, agiva in giudizio chiedendo che venisse accertata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in capo alla società Y, con conseguente condanna di quest'ultima alla reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato, al pagamento di una indennità risarcitoria ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dovuti, dalla data del licenziamento sino alla data dell'effettiva reintegra.

Si costituiva in giudizio la società Y chiedendo il rigetto del ricorso ed eccependo l'improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto ai sensi dell'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003.

Il giudice, chiamato a decidere sull'eccepita improcedibilità e rilevato l'effettivo mancato esperimento, da parte del ricorrente in epoca antecedente all'instaurato giudizio, del predetto tentativo di conciliazione obbligatorio innanzi la Commissione di certificazione ex art. 80, D.Lgs. n. 276/2003, nonostante la richiesta formulata nel corso della causa di sospendere il giudizio per poter promuovere il predetto tentativo di conciliazione, dichiarava la domanda improponibile.

Le questioni

Le questioni in esame sono le seguenti:

  1. il tentativo di conciliazione di cui all'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003 deve essere preventivamente esperito anche in seguito all'entrata in vigore della L. n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro)?
  2. quali sono le conseguenze del mancato esperimento del suddetto tentativo anche in ragione dell'avvenuta abrogazione dell'art. 412-bis per effetto dell'art. 16, comma 31, L. n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro)?
  3. in caso di mancato preventivo espletamento del suddetto tentativo di conciliazione è possibile, su richiesta delle parti, sospendere il giudizio ovvero rinviarlo al fine di consentirne l'espletamento in corso di causa?

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame, il Tribunale di Bari ha affrontato la questione relativa agli effetti procedurali del mancato esperimento del preventivo tentativo di conciliazione previsto per i contratti oggetto di certificazione ai sensi dell'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003.

Nel caso di specie il lavoratore, lamentando l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato direttamente in capo alla società Y, nonostante l'avvenuta certificazione a priori del contratto di appalto esistente tra la società X e la società Y, agiva in giudizio al fine di contestare la validità di tale certificazione, lamentando la non genuinità del contratto d'appalto stante la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.

Il giudizio, come rilevato ed accertato in corso di causa, veniva avviato senza che fosse stato preventivamente esperito il tentativo di conciliazione previsto dall'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003.

Al fine di risolvere la questione, il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bari ha analizzato dapprima le disposizioni del D.Lgs. n. 276/2003, ricordando come l'art. 80, mentre al suo comma 1 così statuisce: “Nei confronti dell'atto di certificazione, le parti e i terzi nella cui sfera giuridica l'atto stesso è destinato a produrre effetti, possono proporre ricorso, presso l'autorità giudiziaria di cui all'articolo 413 del codice di procedura civile, per erronea qualificazione del contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Sempre presso la medesima autorità giudiziaria, le parti del contratto certificato potranno impugnare l'atto di certificazione anche per vizi del consenso” al suo comma 4 così specifica: “Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione ai sensi dei precedenti commi 1 e 3, deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione che ha adottato l'atto di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c.

In sostanza, tale norma stabilisce in maniera chiara come chiunque abbia interesse a ricorre in giudizio per contestare la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua reale attuazione ovvero un erroneo qualificazione del contratto certificato ex D.Lgs. n. 276/2003, debba, obbligatoriamente e ed in via preliminare, espletare il detto tentativo di conciliazione.

Successivamente, il Tribunale di Bari si è chiesto che effetti abbia avuto l'entrata in vigore della L. n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) su tale disposizione normativa, avendo l'art. 31 della suddetta legge eliminato l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione di cui all'art. 410 c.p.c., rendendolo facoltativo, quindi rimesso alla libera volontà delle parti.

Anche sul punto la risposta appare agevole, essendo stato sufficiente per l'organo giudicante richiamare il comma 2 del predetto art. 31, L. n. 183/2010, il quale ha stabilito come “il tentativo di conciliazione di cui all'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003 è obbligatorio”, così lasciando inalterata l'obbligatoria del previo esperimento del tentativo di conciliazione per la sola materia dei contratti certificati ex D.Lgs. n. 276/2003

Essendo pertanto stata accerta l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione e essendo fatto non contestato il suo mancato, espletamento nel caso di specie, il Giudice del lavoro si è interrogato in merito agli effetti/conseguenze procedurali di tale mancanza.

Ora, come viene ricordato nella analizzata ordinanza, il Collegato Lavoro nell'abrogare l'art. 410-bis c.p.c. ha altresì abrogato l'art. 412-bis c.p.c., il quale, come noto, prevedeva la sanzione processuale dell'improcedibilità del ricorso nel caso di mancato esperimento del tentativo di conciliazione.

Quindi, mentre sino all'entrata in vigore del Collegato Lavoro gli effetti del mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione erano stabiliti dell'art. 412-bis c.p.c., con la sua abrogazione si è venuto a creare un vuoto normativo, non avendo il legislatore ridefinito ovvero previsto ex novo, sanzioni per quell'unica ipotesi di obbligatorietà rimasta in vigore.

Allo stato, pertanto, non esistente una norma che stabilisca quale sia la sanzione applicabile ed è proprio sul punto che l'Organo Giudicante fa un interessante excursus interpretativo, ricorrendo ad un parallelismo, già in passato sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, tra il tentativo di conciliazione previsto nella materia agraria e quello previsto (prima della L. n. 183/2010) per le controversie di lavoro.

Ritenendo così tale tentativo - al pari di quanto previsto in materia agraria – una condizione, rilevabile anche d'ufficio, non di improcedibilità (come era previsto dall'art. 412-bis c.p.c.) ma, bensì, di improponibilità della domanda giudiziale.

Il Giudice fa poi un passo successivo chiedendosi, anche a fronte della richiesta formulata del ricorrente, se sia possibile ipotizzare la sospensione del giudizio con un rinvio della controversia all'esito dell'espletamento di un tentativo di conciliazione da attivarsi in corso di causa.

Sul punto, l'organo giudicante esclude la possibilità di sospendere il giudizio ovvero di rinviarlo in quanto equivarrebbe ad “ammettere un meccanismo in contrasto con il dettato normativo. Nulla essendo stato previsto alcune specifico meccanismo, come invece previsto in altri ambiti e settori tra cui la mediazione obbligatoria dove l'art. 5, D.Lgs. n. 28/2010 al comma 1 bis prevede che il giudice rilevato il mancato esperimento della mediazione assegni alle parti un termine di 16 giorni per la presentazione della relativa domanda.”

Osservazioni

Preliminarmente, va inquadrato l'istituto della certificazione di cui al D.Lgs. n. 276/2003, introdotto proprio al fine di ridurre il contenzioso in materia di rapporti di lavoro.

La certificazione dei contratti ex D.Lgs. n. 276/2003, che può essere ottenuta sia all'atto della sottoscrizione del contratto sia successivamente, è uno strumento che permette alle parti contraenti di richiedere su base volontaria e consensuale a specifici organismi individuati ex lege (le c.d. Commissioni di certificazione) la corretta qualificazione (e quindi certificazione) del contratto stipulato, avente ad oggetto, direttamente o ovvero indirettamente, una prestazione di lavoro.

Secondo la normativa vigente, un contratto certificato (a far corso dalla data di sottoscrizione dell'atto di certificazione sino al momento in cui eventualmente venga accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi d'impugnazione esperibili):

  1. acquista piena forza di legge nei confronti delle parti e dei terzi interessati (INPS, INAIL, Amministrazione finanziaria e Ministero del Lavoro);
  2. può essere impugnato innanzi all'autorità giudiziaria solo per motivi specifici elencati nell'art. 80, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003, ossia:
    i) per erronea qualificazione del contratto;
    ii) per difformità del programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione;
    iii) per vizi del consenso;
  3. può essere impugnato per i motivi di cui al predetto punto 2 purché la parte ricorrente, prima di proporre ricorso giurisdizionale, si sia obbligatoriamente rivolta alla Commissione che ha adottato l'atto di certificazione per espletare il preventivo ed obbligatorio tentativo di conciliazione.

Non solo ma, nel giudizio di impugnazione di un contratto certificato, opera il c.d. "principio di inversione dell'onere della prova", secondo il quale spetta a chi contesta la regolarità del contratto dimostrarne l'invalidità del testo certificato ed in sede di qualificazione del contratto di lavoro, il giudice, chiamato ad interpretarne le relative clausole, è tenuto ad attenersi alle valutazioni espresse dalle parti in sede di certificazione (art. 30, co. 2, L. n. 183/2010).

Ora, nel caso in esame cosa è accaduto: il lavoratore licenziato dalla società X ha deciso di ricorre in giudizio non solo per impugnare il licenziamento intimatogli, ma per far accertata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo alla società Y, committente dalle società X, così impugnando il contratto d'appalto certificato, per difformità tra il programma negoziale ivi indicato e la sua successiva attuazione.

Tuttavia il lavoratore, nell'azionare tale giudizio proposto correttamente con il rito Fornero, non ha preventivamente esperito il detto tentativo di conciliazione.

Parte resistente, costituitasi in giudizio ne rilevava quindi la mancanza, chiedendo il rigetto del ricorso.

Premesso, come è indubbio, che ai sensi dell'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003: “Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione ai sensi dei precedenti commi 1 e 3, deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione che ha adottato l'atto di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell'art. 410 c.p.c.”, la questione inizialmente da valutare è stabilire se tale tentativo di conciliazione sia rimasto obbligatorio anche a seguito dell'avvenuta abrogazione dell'art. 410, disposta dal Collegato Lavoro.

L'Organo Giudicante sul punto fa un'attenta valutazione, iniziando proprio da una analisi delle novità apportate suo tempo dalla L. n. 183/2010.

Il Collegato Lavoro, infatti, è andato a rinnovare sensibilmente il sistema della conciliazione in materia di diritto del lavoro, novellando l'art. 410 c.p.c. ed abrogato gli art. 410-bis e 412-bis c.p.c. con la conseguente abolizione dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione (diventato quindi facoltativo) per tutte le cause di lavoro, ad eccezione del tentativo previsto dall'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003.

Infatti, al suo comma 2, l'art. 31, L. n. 183/2010 così statuisce: “Il tentativo di conciliazione di cui all'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003, è obbligatorio.”

Quindi non vi è dubbio: in caso di contratti certificati, nonostante le modifiche introdotte dal Collegato Lavoro è rimasto invariato l'obbligo per le parti di esperire il tentativo di conciliazione prima di ricorrere in sede giudiziale qualora si stia impuganndo un contratto certificato ex D.Lgs. n. 276/2003.

All'uopo appare interessante rimandare a quanto indicato dal Ministero del Lavoro con Nota 25 novembre 2010, n. 3428, che andò a chiarire la questione, a commento dell'art. 31, Legge 4 novembre 2010, n. 18, proprio in tema di “Conciliazioni presso le Direzioni provinciali del lavoro. Prime istruzioni operative nella fase transitoria”.

Chiarita la questione mediante la semplice lettura del dettato normativo (che invero non lascia dubbi sul punto), il Tribunale di Bari ha affrontato un secondo problema: stabilire cosa accada ad un giudizio promosso, senza il preventivo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003 in seguito all'avvenuta abrogazione degli art. 410-bis e 412-bis c.p.c..

Ora, come noto e come ampiamente dibattuto ai tempi della sua entrata in vigore, con il Collegato Lavoro all'art. 31 comma 16, così dispone: “Gli articoli 410-bis e 412-bis c.p.c. sono abrogati.

La L. n. 183/2010, quindi, nell'eliminare l'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, fatto salvo per il tentativo previsto dall'art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003, è andata ad abrogare – logicamente - gli articoli 410 bis e 412-bis c.p.c. che regolavano e disciplinavano i casi in cui le parti non avevano ottemperato a tale obbligo.

All'uopo si ricorda come mentre l'art. 410-bis c.p.c così recitava “[1] Il tentativo di conciliazione, anche se nelle forme previste dai contratti e accordi collettivi, deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta. [2] Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato ai fini dell'art. 412-bis c.p.c..”, l'art. 412 bis c.p.c. così disponeva “[1] L'espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda. [2] L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'articolo 416 e può essere rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di cui all'articolo 420. [3] Il giudice ove rilevi che non è stato promosso il tentativo di conciliazione ovvero che la domanda giudiziale è stata presentata prima dei sessanta giorni dalla promozione del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione2.[4] Trascorso il termine di cui al primo comma dell'articolo 410 bis, il processo può essere riassunto entro il termine perentorio di centottanta giorni3.[5] Ove il processo non sia stato tempestivamente riassunto, il giudice dichiara d'ufficio l'estinzione del processo con decreto cui si applica la disposizione di cui all'articolo 3084.[6] Il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la concessione dei provvedimenti speciali d'urgenza e di quelli cautelari previsti nel capo III del titolo I del libro IV.”

Quindi, in sostanza, durante la preveggenza dell'art. 412-bis c.p.c., se il giudice rilevava che il ricorso era stato presentato in mancanza del verificarsi della prevista condizione di procedibilità (quindi senza che fosse stato esperito il tentativo di conciliazione), sospendeva il processo e concedeva alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazione.

La sospensione era necessaria ed il giudice, sussistendone i presupposti, doveva dichiararla senza valutazioni discrezionali, anche se il tentativo risultava del tutto inutile (Luiso, Tentativo, 482; Trisorio Liuzzi, La conciliazione, 972).

Il giudice era, inoltre tenuto a sospendere il giudizio non solo quando il tentativo non fosse stato esperito e non fosse decorso il termine di cui all'art. 410-bis, ma anche quando la pretesa fatta valere in giudizio non risultasse identica a quella avanzata in sede conciliativa (Cecchella, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro privato e pubblico, in MGL, 1999, 451; Luiso, Tentativo, 456; Trisorio Liuzzi, La conciliazione, 973).

Se le parti non esperivano il tentativo di conciliazione nel termine concesso dal giudice, quest'ultimo doveva procedere, non estinguendo il giudizio, ma bensì dichiarando con sentenza l'improcedibilità della domanda. Sul punto si ricordi, fra le tante pronunce della Suprema Corte, la sentenza n. 6326/2004.

Il problema postosi dall'Organo Giudicante con l'ordinanza de qua è stato quindi chiedersi, stante l'abrogazione dell'art. 412-bis c.p.c., ma permanendo l'obbligatorietà del tentativo ex art. 80, L. n. 283/2003, quale sia l'effetto prodotto sul giudizio già azionato il mancato esperimento del suddetto tentativo.

Il Tribunale di Bari ha cercato di rispondere al quesito, ricorrendo ad un intelligente parallelismo con quanto previsto nella materia agraria.

Ora, l'art. 46, L. 3 maggio 1982, n. 203 (articolo abrogato dal comma 12, art. 34, D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150) così stabiliva: ”Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia in materia di contratti agrari è tenuto a darne preventivamente comunicazione, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, all'altra parte e all'ispettorato provinciale dell'agricoltura competente per territorio. Il capo dell'ispettorato, entro venti giorni dalla comunicazione di cui al comma precedente, convoca le parti ed i rappresentanti delle associazioni professionali di categoria da esse indicati per esperire il tentativo di conciliazione della vertenza. Se la conciliazione riesce, viene redatto processo verbale sottoscritto da entrambe le parti, dai rappresentanti delle associazioni di categoria e dal funzionario dell'ispettorato. Se la conciliazione non riesce, si forma egualmente processo verbale, nel quale vengono precisate le posizioni delle parti. Nel caso in cui il tentativo di conciliazione non si definisca entro sessanta giorni dalla comunicazione di cui al primo comma, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria competente. Quando l'affittuario viene convenuto in giudizio per morosità, il giudice, alla prima udienza, prima di ogni altro provvedimento, concede al convenuto stesso un termine, non inferiore a trenta e non superiore a novanta giorni, per il pagamento dei canoni scaduti, i quali, con l'instaurazione del giudizio, vengono rivalutati, fin dall'origine, in base alle variazioni della lira secondo gli indici ISTAT e maggiorati degli interessi di legge. Il pagamento entro il termine fissato dal giudice sana a tutti gli effetti la morosità. Costituisce grave ed irreparabile danno, ai sensi dell'articolo 373 del codice di procedura civile, anche l'esecuzione di sentenza che privi il concessionario di un fondo rustico del principale mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia, o possa risultare fonte di serio pericolo per l'integrità economica dell'azienda o per l'allevamento di animali”.

Anche in ambito agrario, quindi, era previsto un tentativo obbligatorio di conciliazione ante causa, ma, anche in tal caso, la legge nulla statuiva in merito alle conseguenze che si sarebbero avute sul giudizio azionato in caso di mancato espletamento dello stesso.

Ora, come ricordato dal Tribunale di Bari, la giurisprudenza è sempre stata orientata nel risolvere la questione delle controversie agrarie ritenendo applicabile tanto alle domande attoree, quanto ad eventuali domande riconvenzionale, l'art. 412-bis c.p.c. (Trib. Roma 12 ottobre 2002; Trib. Pisa, 28 agosto 2000; v. anche Cass. civ., n. 13359/1999).

In sostanza, secondo la giurisprudenza unanime le domande giudiziali (attoree ovvero riconvenzionali) proposte nei procedimenti agrari dovevano essere precedute obbligatoriamente dal tentativo di conciliazione di cui all'art. 46, L. 3 maggio 1982, n. 203; in mancanza tali domande dovevano essere dichiarate improponibili.

All'uopo si ricorda la sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. III, 16 novembre 2007, n. 23816, così massimata: “In tema di contratti agrari, la domanda riconvenzionale, al pari di quella proposta dall'attore, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 e, in mancanza, deve essere dichiarata improponibile; tuttavia, non sussiste la necessità di tale preventivo tentativo qualora il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall'attore.” (tra le altre, in questo senso, ad esempio, Cass. sez. III, 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. civ., sez. III, 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. civ., sez. III, 5 ottobre 1995, n. 10447)

Peraltro, la Suprema Corte, sempre chiamata a decidere in materia agraria, aveva altresì ribadito come il tentativo di conciliazione dovesse essere sempre attivato prima dell'inizio della controversia, poichè l'art. 46 appena richiamato non consentiva che venisse posto in essere successivamente alla domanda giudiziale: quindi la mancanza del tentativo di conciliazione preventivo era rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito e comportava sempre la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità (cfr Cass. civ., sez. III, 15 luglio 2008, n. 19436).

Pare doveroso evidenziare come tale disposizione sia stata considerata applicabile, in via analogica, anche al tentativo di conciliazione previsto in materia di telecomunicazioni (Trib. Modena, 8 giugno 2007).

In sostanza, con l'ordinanza de qua il Tribunale di Bari, stante l'avvenuta abrogazione dell'art. 412-bis c.p.c., ma permanendo l'obbligatorietà del tentativo ex art. 80, comma 4, D.Lgs. n. 276/2003, ha ritenuto di poter applicare al caso di specie quanto già dedotto dalla giurisprudenza di legittimità per le materie agrarie: il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, che è rilevabile anche d'ufficio, comporta la definizione del giudizio con una sentenza (ovvero ordinanza) dichiarativa di improponibilità.

Non ultimo il Tribunale di Bari si chiede se possa essere accolta la richiesta del ricorrente di rinvio ovvero sospensione del giudizio al fine di esperire, ancorché tardivamente ed in corso di causa, il detto tentativo di conciliazione.

Il Giudice del Lavoro ha tuttavia rigettato anche tale richiesta per tre ordini di ragioni:

  1. l'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003 e l'art. 31, comma 2, L. n. 183/2010 prevedono l'obbligatorietà dell'attivazione preventiva del tentativo rispetto all'introduzione del giudizio non ammettendo alcuna possibile promozione tardiva;
  2. la possibilità di sospendere ovvero rinviare il giudizio era prevista dall'art. 412-bis c.p.c., ad oggi abrogato e pertanto non più applicabile;
  3. con il Collegato Lavoro, il Legislatore ha specificatamente affrontato la fattispecie in oggetto senza prevedere la facoltà per l'autorità giudiziaria di assegnare termini per l'avvio di un tentativo di conciliazione in corso di causa.

In sostanza, conclude il Tribunale di Bari, ogni operazione interpretativa volta a rendere ammissibile lo schema della sospensione del giudizio ovvero del rinvio con la concessione di un termine per la presentazione della domanda di conciliazione sarebbe contrario alla normativa vigente così rendendo inaccoglibile la richiesta del lavoratore.

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