Reclutamento e progressione di carriera nella P.A.: le posizioni di Corte Costituzionale e Cassazione

Antonio Dibitonto
15 Luglio 2015

Con il D.Lgs. n. 165/2001 e successive modificazioni, si è assistito, fatta eccezione solo per alcune fattispecie tassativamente indicate, alla c.d. privatizzazione, recte, contrattualizzazione, del Pubblico impiego. La Corte Costituzionale ha negato e nega la legittimità di reclutamento del personale e la progressione professionale che non si realizzino attraverso il concorso pubblico. E il D.Lgs. n. 165/2001 ha recepito e normato tale metodo così, diversificando, sotto questo profilo, il lavoro privato da quello pubblico. Il dualismo pubblico/privato ha generato questioni interpretative circa la ripartizione della giurisdizione (amministrativa e ordinaria) nelle controversie. Per risolverle sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Brevi premesse

Il pubblico impiego, nella sua evoluzione storica, ha avvertito l'esigenza, per governare i propri rapporti di lavoro, di utilizzare strumenti propri dell'impiego privato quali, ad esempio, la contrattazione collettiva e la risoluzione delle controversie affidata alla giurisdizione del Giudice ordinario.

Il combinato disposto del primo comma dell'art. 51 e dei commi 2 e 3 dell'art. 2 del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, con esclusione delle eccezioni elencate nel comma 3, quindi, ha affidato la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche alle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e alle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa disponendone la regolamentazione per contratto.

È stato osservato, però, che l'uso di strumenti tipici dell'impiego privato non deve portare ad accomunare la pubblica amministrazione ad un imprenditore privato poiché il fine di lucro non rientra tra i suoi obbiettivi primari. Quando si parla di rapporto di lavoro divenuto privato, infatti, si ha riguardo alla gestione e non anche ai fini, ecco perché appare più corretto parlare di “rapporto contrattualizzato” anziché di “rapporto privatizzato”. Osservazione, questa, coerente con il disposto dell'art. 2, comma 3 che fissa la disciplina dei rapporti lavorativi per contratto (individuale e collettivo).

Può, dunque, affermarsi che la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici è privatizzata per quanto riguarda i mezzi ma non per gli obiettivi che restano quelli che istituzionalmente persegue la Pubblica Amministrazione.

Sistema di reclutamento

L'art. 1 del D.Lgs. n.150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) stigmatizza l'obbiettivo di assicurare “… la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, … la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, … la trasparenza dell'operato delle amministrazioni pubbliche anche a garanzia della legalità”. E, l'art. 35 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che l'assunzione nelle pubbliche amministrazioni avvenga con contratto individuale di lavoro:

- tramite procedure selettive;

- mediante l'avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della legislazione vigente per le qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo, facendo salvi gli eventuali ulteriori requisiti per specifiche professionalità.

Ci occuperemo delle procedure selettive non senza sottolineare, però, per la seconda ipotesi, i problemi interpretativi generati dal requisito dell'assolvimento dell'obbligo scolastico.
L'art. 4 del DLT 19 febbraio 2004, n. 59, infatti, prevede che il diritto-dovere all'istruzione si sviluppa nell'arco temporale di otto anni mentre il comma 622 dell'articolo unico della L. 27 dicembre 2006, n. 296 considera obbligatoria, l'istruzione impartita per almeno dieci anni.

Analizziamo, quindi, le procedure selettive ponendo subito l'attenzione sul fatto che l'attuale norma regolatrice (art. 35 D.Lgs. n. 165/2001) non fa alcun riferimento all'istituto del concorso ma solo alle procedure selettive. Disposizione, questa, coerente con il dettato costituzionale poiché è proprio il terzo comma dell'art. 97 della Costituzione che, nel prevedere la regola del concorso per accedere agli impieghi pubblici, fa poi salvi i casi stabiliti dalla legge (tra cui trova cittadinanza quello in commento). E la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 478 del 31/10/1995, afferma la possibilità di deroghe alla regola del pubblico concorso per reclutare e coprire posti ma a condizione che, sia la legge a disporle nel rispetto delle disposizioni costituzionali dei criteri di ragionevolezza e dei i principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione.

In quest'ambito, la differenza sostanziale tra concorso e procedura selettiva è stata rinvenuta nel fatto che mentre il concorso individua i vincitori attraverso un giudizio comparativo, la procedura selettiva può anche consistere solo nella verifica della sussistenza dei titoli richiesti per l'accesso purché rispettosa del requisito della neutralità.

Nell'attualità, la delega al Governo contenuta nell'art. 2, co. 1, lett. g) della legge n. 15/2009 ha affermato il principio di concorsualità per l'accesso al lavoro pubblico e per le progressioni di carriera cosicché non possono più avviarsi procedure selettive prive del requisito della concorsualità.

Progressioni di carriera

Le mansioni rappresentano uno dei punti di maggiore distacco tra lavoro privato e lavoro pubblico: mentre il primo è regolato dal principio dell'effettività, che privilegia le mansioni di fatto svolte rispetto a quelle assegnate sulla carta (art. 2103 c.c.), nel secondo, invece, la prestazione lavorativa è ancorata all'organizzazione della Pubblica Amministrazione (art. 52, D.Lgs. n. 165/2001).

Orbene, in caso di esercizio di mansioni superiori, nella compagine privata, decorso un determinato iato temporale, l'assegnazione diventa definitiva con diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta; nell'apparato della Pubblica Amministrazione, invece, non trovando applicazione il principio di effettività, non essendo operativa la c.d. promozione automatica, l'attività più elevata non produce alcun effetto essendo, la mansione, vincolata ai criteri di composizione della organizzazione formale dell'amministrazione e delle figure professionali che fanno capo alle stesse nonché al rispetto dei principi di imparzialità e di controllo della spesa pubblica.

Il lavoratore, pertanto, giusta il disposto del primo comma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001, deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto (che, di norma, gli sono già note prima della stipulazione del contratto data la regola generale della procedura concorsuale per il reclutamento) o a quelle equivalenti nell'area di inquadramento (T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, 13 gennaio 2015, n. 124 ha chiosato: “… equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”) ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia eventualmente acquisito a seguito di procedure selettive.

Le mansioni equivalenti

Nel settore privato, sono ritenute equivalenti quelle mansioni di pari caratteristiche lavorative che consentono di utilizzare e di arricchire il bagaglio professionale (statico e dinamico) acquisito nella pregressa fase del rapporto (Cass. civ. Sez. Unite, 24 novembre 2006, n. 25033).

Nel settore pubblico, invece, l'aver espunto dalla lettera dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 la locuzione "considerate equivalenti", operato dal D.Lgs. n. 150/2009, ha generato in dottrina due posizioni contrapposte: la prima che ritiene la modifica, rectius, l'eliminazione curata dalla riforma Brunetta, non idonea a vincere l'idea di equivalenza formale; la seconda, opposta, che afferma superata la nozione di equivalenza formale rimessa ai contratti collettivi.

In questa diatriba, la giurisprudenza ha recepito la nozione di equivalenza formale delle mansioni ancorata, indipendentemente dalla professionalità acquisita, alla classificazione prevista dai contratti collettivi ed escludendo che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2014, n. 7106; Cons. Stato Sez. V, 11 giugno 2013, n. 3236).

Le mansioni superiori

La disciplina delle mansioni è contenuta nell'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 il quale, al primo comma, vuole che il lavoratore sia adibito alle mansioni di assunzione ovvero a quelle superiori acquisite per effetto di procedure selettive e sanziona l'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza privando di effetti tale attività lavorativa ai fini dell'inquadramento o dell'assegnazione di incarichi di direzione.

Nel comma 1-bis, poi, troviamo la disciplina della mobilità verticale che si contraddistingue per il fatto che diversifica le progressioni all'interno della stessa area, per le quali è richiesto il rispetto dei principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali, dell'attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l'attribuzione di fasce di merito, da quelle fra le aree che avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l'amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l'accesso dall'esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La ratio legis è evidente: garantire un adeguato rapporto tra interni ed esterni per mantenere ed accrescere quelle professionalità maturate all'interno dell'amministrazione tant'è che la valutazione positiva per almeno tre anni è titolo per la progressione economica e l'attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l'accesso all'area superiore.

Da annotare che le procedure selettive all'interno della stessa area non sono veri e propri concorsi pubblici per cui la selezione potrà essere dedicata ai dipendenti già in servizio.

Il comma secondo, infine, individua quelle ipotesi, tassative, in cui il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni superiori; e cioè nel caso:

- di vacanza di posto in organico per un periodo non superiore a 6 mesi, prorogabile fino a 12 qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti;

- di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza.

È stato osservato al riguardo che, in caso di assenza di un lavoratore, sia da escludere la possibilità di una c.d. sostituzione per “scorrimento”. L'attribuire, infatti, ad un dipendente le mansioni lasciate scoperte da quello che va a sostituire l'assente, rappresenta una violazione dell'art. 52 comma 2, lett. b), in quanto, questi non va a sostituire un collega assente con diritto alla conservazione del posto ma, un lavoratore presente utilizzato per sostituirne un altro assente!

È stato ritenuto lecito, di contro, “disgregare” le mansioni del lavoratore assente tra diversi dipendenti poiché, in difetto di una prevalenza nello svolgimento dei compiti, non si producono gli effetti dell'assegnazione alla mansione superiore.

Per completezza espositiva, va posto in evidenza, poi, che giusta il disposto dei commi 4 e 5 dell'art. 52, in ipotesi di assegnazione lecita a mansioni superiori, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Nell'ipotesi contraria, invece, l'assegnazione è nulla ma al lavoratore è riconosciuta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore.

A tal ultimo riguardo, condivisibile è la pronuncia n. 18808 del 07/08/2013 della Cassazione, Sezione Lavoro (fatta propria da T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, 9 settembre 2014, n. 9543) laddove ha affermato che il diritto alla retribuzione propria della qualifica superiore non può essere “condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all'operativa del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost.”.

Va evidenziato, infine, che la base retributiva dell'indennità di buonuscita resta ancorata all'inferiore qualifica di appartenenza e non risente della retribuzione corrispondente alla qualifica superiore percepita durante l'esercizio di fatto di mansioni più elevate attesa la sua inefficacia ai fini dell'inquadramento (Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 11 giugno 2008, n. 15498, ripresa da App. Potenza Sez. lavoro, 17 giugno 2010).

Le progressioni professionali alla luce della Corte Costituzionale

L'art. 6 della “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789, partendo dal postulato secondo cui la legge deve essere uguale per tutti e che tutti sono uguali ai suoi occhi, fissa il principio secondo cui tutti i cittadini sono “ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”.
La Corte Costituzionale non si è discostata da questi principi e, anche dopo la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, ha posto sullo stesso piano le assunzioni ed i passaggi di qualifica consacrando il pubblico concorso come il metodo più adatto a garantire il rispetto del principio di imparzialità per reclutare i soggetti più adeguati ad assicurare efficienza e trasparenza nelle pubbliche amministrazioni. Da qui la contrarietà verso i concorsi solo interni poiché in contrasto proprio con i principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione.
Anche il passaggio ad una fascia funzionale più elevata, infatti, allorché consente l'accesso ad un nuovo e diverso posto di lavoro caratterizzato da mansioni superiori, necessita di un modello di reclutamento che impone una valutazione selettiva delle attitudini per assicurare l'ingaggio dei migliori.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 194 del 16 maggio 2002, ha ritenuto incongrua la scelta del concorso "interno" riservato ai dipendenti dell'amministrazione anziché la previsione di un concorso pubblico con riserva di posti; ed abnorme l'utilizzo del criterio dell'anzianità, anche in mancanza del titolo di studio. Modus operandi, questo, già censurato dai Giudici delle leggi con la sentenza n. 1 del 4 gennaio 1999 i quali, nell'occasione, hanno affermato che “non sono ammissibili deroghe al regime del concorso pubblico per il passaggio ad una fascia funzionale superiore, atteso che il concorso interno, oltre a reintrodurre surrettiziamente il modello delle carriere in una nuova disciplina che ne presuppone il superamento, viola il principio di buon andamento della p.a. ed arreca grave pregiudizio allo stesso principio dell'efficienza”.
Ciò non significa, però, che in assoluto i concorsi interni non abbiano cittadinanza nel nostro ordinamento. Sono ammesse eccezioni purché non irragionevoli ed in quanto funzionali a garantire il buon andamento dell'amministrazione o per “attuare altri principi di rilievo costituzionale, in ragione della peculiarità di particolari uffici”.

Le mansioni inferiori

Puntiglio espositivo, infine, impone una breve digressione sulla possibilità o meno di adibire il dipendente pubblico a mansioni inferiori. L'art. 52, nella attuale formulazione, non lo prevede, per cui, deve ritenersi in via generale preclusa l'attribuzione unilaterale a mansioni inferiori.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che “per ragioni di efficienza e di economia del lavoro o di sicurezza, possono essere richieste, incidentalmente o marginalmente, attività corrispondenti a mansioni inferiori che il lavoratore è tenuto ad espletare” (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 7 agosto 2006, n. 17774). È stata ritenuta legittima, pertanto, “l'adibizione a mansioni inferiori del dipendente per esigenze di servizio allorquando è assicurato in modo prevalente ed assorbente l'espletamento di quelle, concernenti la qualifica di appartenenza” (Cass. Sez. lavoro, Sent., 21 febbraio 2013, n. 4301s).

La possibilità di concordare tra lavoratore e Amministrazione lo svolgimento di mansioni inferiori è segnata da una maggiore incertezza e divide gli interpreti.

Un prima corrente di pensiero, postulando l'inapplicabilità dell'art. 2103 c.c. al settore pubblico, opina per la validità in presenza di un accordo pattizio non operando la nullità prevista dal codice. L'opinione contraria, invece, ritiene applicabile l'art. 2103 c.c.; ed in assenza di una diversa disciplina contenuta nell'art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001, afferma la nullità dell'accordo. La teoria intermedia, infine, individua nell'accordo una rinuncia alle mansioni con conseguente applicabilità dell'art. 2113 c.c.

Il dualismo della giurisdizione

Il permanere di rapporti non contrattualizzati, nonostante la privatizzazione e la diversa disciplina che regola le progressioni verticali ed orizzontali, ha generato un dualismo tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa.

La giurisdizione del Giudice amministrativo, infatti, mentre rimane per le controversie ad oggetto i rapporti non privatizzati e per quelle relative alle procedure concorsuali per l'assunzione, cede il passo a quella del Giudice ordinario in funzione di Giudice del lavoro per le dispute relative ai rapporti contrattualizzati poiché al posto degli interessi legittimi, entrano in gioco diritti soggettivi.

Lo spartiacque tra le due giurisdizioni è l'approvazione della graduatoria.

Di più difficile individuazione è, invece, il distinguo tra “procedura concorsuale per l'assunzione”, “assunzione” e “concorso”.

In soccorso sono intervenuti i Giudici della nomofilachia i quali hanno chiarito che le "procedure concorsuali per l'assunzione" sono quelle dirette a costituire un rapporto di lavoro "ex novo" e la soluzione di eventuali controversie è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo. In quest'ambito, il termine "assunzione" non va inteso in senso letterale poiché riguarda anche lavoratori già dipendenti dell'amministrazione che pongono in essere una novazione oggettiva del rapporto originario con un inquadramento qualitativamente diverso dal precedente mentre il termine “concorsuale” va interpretato in senso restrittivo poiché afferisce solo a quelle procedure selettive pubblicizzate attraverso un bando che, per stilare la graduatoria finale, utilizzano criteri di valutazione comparativi.

La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, quindi, con l'Ordinanza n. 9168 del 20 aprile 2006 ha definito i criteri per il riparto della giurisdizione:

a) del giudice amministrativo:

- sulle controversie relative a concorsi per soli esterni;

- su controversie relative a concorsi misti (è indifferente che il posto da coprire rientri o meno all'interno della stessa area funzionale poiché la circostanza che non si tratti di passaggio ad un'area diversa è vanificata dalla presenza di possibili vincitori esterni, secondo il criterio di riparto originario):

- per i concorsi per soli interni che comportino passaggio da una "area" ad un'altra, spettando, poi, al giudice del merito la verifica di legittimità delle norme che escludono l'apertura del concorso all'esterno;

b) del giudice ordinario: sulle controversie attinenti a concorsi per soli interni, che comportino passaggio da una qualifica ad altra, ma nell'ambito della medesima area.

In conclusione

Un'analisi strutturata dei vari argomenti trattati, evidenzia una loro appartenenza anche ai principi ispiratori del D.Lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009 (c.d. “Riforma Brunetta”) che ha cercato, in una logica di innovazione e di intercomunicabilità tra Pubblica Amministrazione e cittadini, di instaurare un sistema ispirato a criteri di modernizzazione, efficienza, trasparenza e neutralità.

In questa logica la Riforma Brunetta ha recepito i decisa della Corte Costituzionale che hanno affermato la necessità del pubblico concorso per garantire il rispetto dei principi de quibus che oggi hanno trovato ulteriore conferma nella recente sentenza della Corte Costituzionale n. 37 del 17 marzo 2015, di grossa evidenza mediatica, che nella vicenda che ha visto protagoniste l'Agenzia delle Entate, delle Dogane e del Territorio, nel dichiarare incostituzionale l'art. 8, comma 24 del D.L. n. 16/2012 in quanto “aggirerebbe la regola costituzionale di accesso ai pubblici uffici mediante concorso, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost.”, ha suggellato che “il concorso pubblico rappresenta la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, quale procedura strumentale al canone di efficienza dell'amministrazione” e che il concorso è necessario “anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio” atteso che “anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta l'accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso".

Tale rigidità, però, se da un lato è garanzia dell'efficienza dell'amministrazione che con lo strumento dell'imparzialità si assicura le migliori professionalità, dall'altro, è stato ritenuto, può ostacolare, di fatto, la progressione professionale.

Guida all'approfondimento

Luigi Fiorillo, “Il Reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni”, in “Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale privato e pubblico” a cura di

Giuseppe Santoro Passatelli, 2014, UTET.

Domenico Mezzacapo, “Le mansioni”, ibidem.

Giuseppe Gallenca, “Pubblico impiego”, in Digesto, UTET

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