Licenziamento per GMO e obbligo di repechage: la Cassazione ritorna sugli oneri di allegazione e prova
15 Settembre 2016
Massime
Cass. sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592
In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo in capo al secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente.
Cass. sez. lav., 13 giugno 2016, n. 12101
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare la soppressione del reparto o della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente licenziato (a tal fine non bastando un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale), l'impossibilità di una sua utile riallocazione in mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate (impossibilità del cd. repechage) e l'assenza di nuove assunzioni, per un congruo periodo di tempo successivo al licenziamento, di lavoratori addetti a mansioni equivalenti – per il tipo di professionalità richiesta – a quelle espletate dal dipendente licenziato.
Poiché onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della compiuta allegazione, non incombe sul lavoratore l'onere di segnalare postazioni di lavoro – analoghe a quella soppressa e alla quale era adibito – cui essere utilmente riallocato. Il caso
Nella vicenda che ha originato la prima sentenza, un dipendente impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo, che dapprima il Tribunale e poi la Corte d'appello ritenevano legittimo, giudicando provata la riorganizzazione aziendale per l'andamento economico e finanziario negativo, sulla base dei dati di bilancio, dei licenziamenti operati nel periodo e dell'ammissione della società alla Cassa integrazione guadagni, pure in assenza di specifica allegazione di repechage del lavoratore.
Questi ricorreva in cassazione per una serie di motivi, tra i quali la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966 , 1375, 2697, 2729 cod. civ. e vizio di motivazione, per non aver ritenuto, i giudici di merito, l'inadempimento della società all'obbligo di repechage, nonché la violazione e falsa applicazione delle medesime norme per erronea ripartizione dell'onere della prova al riguardo.
La Cassazione accoglieva il ricorso, rinviando alla Corte d'appello per la determinazione dell'assolvimento o meno, da parte del datore di lavoro, dell'onere di dimostrare l'impossibilità di repechage.
Nella vicenda che ha originato la seconda sentenza, la Corte territoriale riformava la sentenza di primo grado che aveva ordinato la reintegra di un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, ritenendo sufficiente la prova offerta dal datore di lavoro dell'avvenuta soppressione del posto di lavoro del dipendente in conseguenza di un riassetto organizzativo finalizzato alla riduzione dei costi, vista la contrazione dei risultati economici registratasi negli anni immediatamente anteriori e successivi al licenziamento.
Il lavoratore ricorreva in cassazione per due motivi, ed in particolare per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. , e 5 L. 604/1966 , , e vizio di motivazione, per avere la Corte d'appello sostanzialmente ribaltato l'onere probatorio a carico del lavoratore, nella parte in cui aveva considerato tardiva perché sollevata solo in appello e comunque irrilevante l'eccezione di nuove assunzioni intervenute dopo il licenziamento.
La Cassazione accoglieva il ricorso, rinviando alla Corte d'appello per la verifica della sussistenza dei presupposti del giustificato motivo oggettivo, in base ai principi in punto di distribuzione dei carichi probatori individuati in sentenza. La questione
La questione affrontata da entrambe le sentenze in commento è la seguente: se, ai fini della legittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, l'onere del datore di lavoro di provare, oltre alle ragioni che giustificano il licenziamento, l'impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui questi fosse precedentemente adibito, operi indipendentemente dall'allegazione, il cui onere graverebbe allora sul lavoratore, dell'esistenza di posti di lavoro per una utile collocazione, in virtù di un dovere di cooperazione tra le parti nell'accertamento di un possibile repechage. Le soluzioni giuridiche
Sul punto si assiste a due diversi orientamenti della giurisprudenza.
Per il primo, più risalente, ma ripreso da entrambe le pronunce in commento, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di un repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso, senza che al lavoratore possa attribuirsi un onere di allegazione dei posti nei quali sia possibile una ricollocazione, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra gli oneri suddetti. Ambedue le sentenze negano che sia “ipotizzabile un dovere dell'attore di cooperare con il convenuto affinché questi assolva all'onere probatorio che gli è proprio (dovere di cooperare che non figura menzionato in nessuna altra ipotesi nella giurisprudenza di questa Corte): il dovere di cooperazione fra le parti opera solo sul piano sostanziale (v. artt. 1175 e 1206 c.c. ), non su quello processuale, ispirato – invece – ad una leale, ma pur sempre dialettica, contrapposizione ”.
Per il secondo orientamento, più recente ma, fino alle due pronunce in esame, ritenuto ormai consolidato dalla stessa Corte ( Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10018 ), il lavoratore dovrebbe invece allegare l'esistenza di altri posti di lavoro, presso cui poter essere ricollocato, mentre sul datore di lavoro graverebbe l'onere di provare, ma solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse (
Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2016, n. 9647 ).
Per questo secondo orientamento, vi è un onere di collaborazione del prestatore di lavoro che trova la sua specificazione con riferimento alla situazione concreta, in relazione cioè all'esigenza di rendere “ragionevole” l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro, a propria volta delimitato dalle contrapposte deduzioni delle parti e dalle circostanze di fatto e di luogo reali, proprie della singola vicenda esaminata. Un onere di collaborazione che non deve spingersi fino al punto di imporre una particolare specificità delle allegazioni, tenuto conto del fatto che il lavoratore non può (o comunque non è tenuto a) conoscere i dettagli dell'organizzazione aziendale e quindi l'eventuale esistenza di posizioni di lavoro analoghe a quelle dallo stesso occupate e suscettibili di essere dallo stesso ricoperte ( Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2014, n. 16484 ), e che è ancor più attenuato nelle imprese di grandi dimensioni, “circostanza questa che obiettivamente non consente al lavoratore di essere a conoscenza dei posti di lavoro potenzialmente disponibili al momento del licenziamento e che, comunque, rende oltremodo difficile o difficoltosa tale conoscenza, riguardando situazioni che attengono alla struttura imprenditoriale, note quindi essenzialmente al datore di lavoro” ( Cass. civ., sez. lav., 23 novembre 2012, n. 20766 ).
Nell'indicare i posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, il lavoratore – secondo questo secondo orientamento – sarebbe tenuto ad allegare anche i posti di lavoro comportanti una dequalificazione e a manifestare la disponibilità a ricoprire mansioni di livello inferiore, eventualmente anche in altre unità produttive ( Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2002, n. 16141 , in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 824 ), qualora prima di intimare il licenziamento il datore abbia omesso di offrire le mansioni inferiori (v iceversa, ove, antecedentemente al recesso, sia stato manifestato, anche implicitamente, il dissenso ad una soluzione comportante il mutamento di sede o di mansioni, la manifestazione di volontà diviene definitiva e non può essere revocata dopo l'intimazione del licenziamento ; v. Guida all'approfondimento, p. 1), sicché “il datore di lavoro assolverà l'onere della prova sullo stesso gravante, dimostrando, nei limiti delle allegazioni di controparte, o la indisponibilità dei posti lavorativi o di avere prospettato al lavoratore il demansionamento ed il trasferimento senza ottenere il suo consenso” ( Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10018 ). Osservazioni
Anche se non si esaurisce in esso, la questione posta dalle due sentenze in commento dev'essere inquadrata nel tema più generale dell'oggetto del processo nell'impugnativa del licenziamento. Ciò per sgombrare il campo dagli equivoci che potrebbero discendere, ai fini che qui interessano, dall'individuazione dell'oggetto del giudizio nel diritto di impugnativa, o nel diritto potestativo di recesso, anziché nel rapporto giuridico nel suo complesso.
Com'è noto, a fronte di una ricostruzione, propria della dottrina giuslavoristica e di parte della giurisprudenza ( Cass. civ., sez. lav., 9 marzo 2006, n. 5125 , in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 117; v. altresì Cass. civ., sez. lav., 5 aprile 2001, n. 5092 ; Cass. civ., sez. lav., 20 settembre 2005, n. 18497 ), che mette l'accento sull'atto di licenziamento, e costruisce il processo come una sorta di processo all'atto, di natura costitutiva, sul modello tradizionale del processo amministrativo (s eppure anche questo abbia subito, nel tempo, e particolarmente con l'emanazione del Codice del processo amministrativo , una marcata trasformazione, diventando sempre di più un giudizio sul rapporto ), la dottrina processualcivilistica ha inteso in una chiave diversa il giudizio di impugnativa, ritenendo che al giudice si chieda di accertare, con pronuncia dichiarativa, se il rapporto di lavoro sia ancora in essere, previa verifica della sussistenza o meno dei presupposti del potere di recesso datoriale (s econdo l'opinione prevalente nella dottrina processualistica, l'azione esercitata è qualificata di accertamento, non costitutiva, in quanto avente ad oggetto la dichiarazione della persistenza del rapporto lavorativo, nonostante l'esercizio da parte del datore di lavoro del diritto potestativo di estinguere il rapporto stesso; alla domanda di accertamento si aggiungono quelle di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di una somma a titolo risarcitorio e/o retributivo, ai sensi dell' art. 18 l. 300/70 ; v. Guida all'approfondimento, p. 2). Il difetto dei presupposti fa sì che il potere di recesso non produca l'effetto dello scioglimento del rapporto di lavoro, con la conseguenza naturale – ove non vi siano previsioni di legge ad impedirlo - della condanna, in via di tutela specifica, all'attuazione del diritto alla ripresa dell'attività lavorativa. Interpretazione, questa, la cui correttezza non è stata inficiata dalle novità introdotte con la riforma del 2012 e le modifiche successive (v. Guida all'approfondimento, p. 3).
In quest'ottica, la domanda del lavoratore è una domanda di accertamento (positivo) dell'esistenza attuale del rapporto di lavoro, che presuppone l'accertamento (negativo) dell'esistenza dei presupposti del recesso.
Oggetto del processo e del giudicato è il rapporto di lavoro, e non il diritto di impugnativa né il potere di licenziamento, che una volta esercitato, non può costituire, come tale, l'oggetto del giudizio, se è vero che una volta esercitato quel potere si consuma: del resto, che oggetto del processo nelle impugnative negoziali non sia mai il diritto potestativo, ma siano le situazioni giuridiche soggettive che quel diritto pretende di estinguere o impedire, è quanto hanno affermato con nettezza le Sezioni unite della Cassazione nel 2014 ( Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243 , in Giur. it., 2015, 70 ss., con mia nota, Il «sistema» delle impugnative negoziali dopo le sezioni unite ) a proposito delle impugnative del contratto, con un principio che può essere esteso anche all'ipotesi che ci occupa.
Con queste due importantissime pronunce, le sezioni unite hanno chiaramente affermato che “nell'azione di nullità del contratto, come in generale nelle azioni di impugnativa negoziale, l'oggetto del processo (e del giudicato) è costituito non dal diritto potestativo fondato sul singolo motivo (di annullamento, rescissione, risoluzione, nullità) dedotto in giudizio, ma dal negozio e dal rapporto giuridico sostanziale che ne scaturisce”, dal momento che il diritto potestativo, inteso quale autonoma situazione soggettiva, potrebbe al più costituire oggetto del processo prima del suo esercizio, e mai dopo: “una volta esercitato, in via giudiziale o stragiudiziale, il diritto potestativo è destinato a estinguersi per consumazione, mentre, a seguito del suo esercizio, la contesa delle parti nel processo non è più sull'esistenza o meno del diritto potestativo”, bensì sulle situazioni soggettive sostanziali alla cui estinzione l'esercizio di quel diritto è rivolto. Il diritto potestativo sostanziale riveste, infatti, “la sola funzione di attribuire, tramite il suo esercizio, rilevanza ai fatti modificativi-impeditivi-estintivi” degli effetti scaturenti dal negozio, che è il vero oggetto del processo: in tal modo, il potere “si pone inevitabilmente al medesimo livello dei fatti e delle norme, in guida di coelemento di una più complessa fattispecie, in funzione di interruttore destinato ad attivare un più vasto ‘circuito' ad esso preesistente” .
Il giustificato motivo di licenziamento è fatto estintivo del rapporto, come nell'azione di annullamento del contratto l'errore, la violenza, il dolo o l'incapacità sono fatti impeditivi delle situazioni soggettive scaturenti dal contratto. La differenza è che qui il diritto potestativo viene esercitato prima del giudizio, sicché l'iniziativa è presa, di norma, dal lavoratore ( v. però, in un caso in cui l'iniziativa giudiziale è stata presa dal datore di lavoro, la vicenda Schettino c. società Costa Crociere, che ha originato la rimessione alle sezioni unite ad opera di Cass. civ., sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 3838 ; v. Guida all'approfondimento, p. 4) , mentre nel caso dell'annullamento del contratto i fatti impeditivi vengono spesi direttamente nel processo, e ciò può avvenire tanto in via di azione, quando chi propone la domanda è colui che mira all'invalidità del contratto, quanto in via di eccezione, quando chi vuole ottenere l'annullamento venga convenuto in giudizio per l'adempimento.
In questo senso, l' art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 60 4 sui licenziamenti individuali, nel porre espressamente a carico del datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso, rispecchia la regola generale dell' art. 2697 c.c. , in quanto onera il datore della prova della sussistenza degli elementi estintivi del rapporto. Non necessariamente correlata all'individuazione dell'oggetto del giudizio di impugnativa è invece ladistribuzione dell'onere probatorio quanto al requisito dimensionale di cui all' art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 , nell'impostazione offerta dalle Sezioni unite nel 2006 ( cfr. Cass. civ., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141 ) , riposando in quel caso, la qualificazione del requisito quale fatto costitutivo o impeditivo, principalmente su opzioni di valore oltre che sul principio di vicinanza della prova (v. Guida all'approfondimento, p. 5) : per quanto qui interessa, comunque, la Corte, anche in questo caso, ravvisa n ell'azione di impugnativa del licenziamento un'azione non dissimile da una normale azione di adempimento contrattuale, basata sul rapporto di lavoro, i cui fatti estintivi sono la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento (v. Guida all'approfondimento, p. 6) .
Come in ogni azione di adempimento contrattuale, il giudice dovrà accertare se vi è stato o meno inadempimento e pronunciare di conseguenza: in questo senso valgono le regole dettate dalla Cassazione con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533 a proposito della distribuzione del carico probatorio tra creditore e debitore. Ma l'applicazione pura e semplice di quelle regole al caso del licenziamento è complicata dal fatto che in questo caso l'“inadempimento” è dato dalla mancanza dei presupposti del potere di recesso datoriale, sicché la ripartizione dell'onere della prova dev'essere adattata alla peculiarità della fattispecie.
L'individuazione nel rapporto di lavoro dell'oggetto del processo fa sì che:
Le contestazioni sollevate dal lavoratore con l'impugnativa tendono, da un lato, alla dichiarazione dell'insussistenza dei presupposti di legittimità («giusta causa», «giustificato motivo») dell'atto di esercizio del potere da parte del datore di lavoro; dall'altro, all'accertamento dell'esistenza ed efficacia del rapporto di lavoro e, quindi, alla sua conservazione. È il datore di lavoro, dunque, che deve dimostrare che i presupposti del potere sussistevano, ma lo deve fare nei limiti della contestazione del lavoratore: come il datore di lavoro ha l'onere di porre a fondamento del licenziamento ogni fatto, anteriore, che fondi una giusta causa o un giustificato motivo di recesso, infatti il lavoratore ha l'onere di individuare, nell'azione di impugnativa, i profili di illegittimità di quest'ultimo su cui intende far portare l'accertamento da parte del giudice. Nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la discussione, incentrata sul controllo della effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, muove comunque nei binari tracciati dal lavoratore che afferma di essere stato ingiustificatamente licenziato.
Sulla scorta dei rilievi svolti, compreso quest'ultimo, n on è irragionevole ipotizzare una distribuzione dei carichi probatori, in caso di giustificato motivo oggettivo, diversa da quell a che hanno ritenuto le sentenze in commento . E concludere nel senso che i fatti della cui dimostrazione è gravato il datore di lavoro , relativamente ai posti di lavoro nei quali il lavoratore potrebbe essere impiegato, debbano essere comunque circoscritti in base alle contestazioni del dipendente.
Vi sono, infatti, più ragioni , tra loro concorrenti, che possono sorreggere una siffatta conclusione , alla luce della ricostruzione che appare più corretta, sotto il profilo processuale, della vicenda in esame.
Da un lato, si può sostenere che la mancanza di occupazioni alternative non faccia parte della fattispecie estintiva , della cui dimostrazione è gravato il datore di lavoro, ma che il repechage rappresenti una sorta di contro-eccezione del lavoratore, il quale allora è chiamato ad eccepire che, se pure esistevano i presupposti oggettivi richiesti per l'esercizio del potere di recesso, tuttavia quell'esercizio è impedito dalla possibilità di adibire il dipendente a posizioni lavorative alternative.
In linea di principio, i fatti estranei al modello legale, alla cui integrazione contribuiscono i fatti costitutivi, sono oggetto di altrettante eccezioni da parte di chi li invoca.
L'eccezione, infatti, opera in senso opposto alla tecnica della semplificazione analitica della fattispecie (che impone all'attore di provare una frazione soltanto della fattispecie, ovvero i soli fatti costitutivi), poiché riporta nel thema probandum gli elementi negativi fino a quel momento assenti, gravando della relativa dimostrazione il convenuto: ma a ben vedere la possibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni lavorative va al di là del nucleo essenziale dei fatti necessari e sufficienti alla nascita del diritto e di quelli che impediscono l'accoglimento della pretesa nel gioco dei rapporti tra azione e eccezione. Sicché l'interprete – cui l' art. 2697 cod. civ. (che è di per sé una norma in bianco) rimette, alla fine, il compito di individuare i fatti da provare nell'ambito della fattispecie - deve fare i conti con la necessità di evitare un eccessivo dilatarsi dell'eccezione, e di ampliare a dismisura le circostanze che devono essere provate dall'eccipiente.
Dall'altro lato , e indipendentemente da quale sia, sul piano teorico, la corretta collocazione, all'interno della fattispecie, del repechage (del resto, non sempre è possibile rintracciare nelle norme sostanziali la prefigurazione della prospettiva processuale, ma spesso è inevitabile il ricorso a criteri empirici, che orientino la scelta giudiziale nel senso di una razionale ed equa distribuzione del rischio della mancata prova), se si grava il datore di lavoro dell'onere di provare l'inesistenza delle sole posizioni alternative contestate dal lavoratore, si individua un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di tutela del diritto di azione e quelle del diritto di difesa: un punto di equilibrio ragionevole, come quello che, mutatis mutandis, nelle azioni di accertamento negativo, suggerisce di gravare l'attore della prova dell'inesistenza di quel solo fatto che il convenuto abbia posto a base del proprio vanto stragiudiziale.
Una simile conclusione soddisfa contemporaneamente più esigenze: quella di non aggravare eccessivamente la posizione del datore di lavoro, costringendolo ad una probatio diabolica, nel contempo rispettando le regole di vicinanza della prova, perché per il datore di lavoro, che ha la disponibilità materiale degli strumenti necessari, è più semplice dimostrare se un determinato posto sia o meno già coperto (e, nel contempo, l'onere delle allegazioni del lavoratore è sufficientemente attenuato, dalla giurisprudenza, per tener conto delle difficoltà che questi altrimenti potrebbe incontrare) ; quella di considerare i principi di lealtà e cooperazione cui è ispirato il nostro sistema processuale, meglio messi a fuoco dalla L. 18 giugno 2009, n. 69 , con la quale il dovere di collaborazione dei difensori nella messa a fuoco del thema probandum si è tradotto nella consacrazione normativa, all' , del principio di non contestazione. La Cassazione, nelle sentenze in commento, nega che un dovere di cooperazione tra le parti sul piano processuale sussista, quando invece quel dovere costituisce ormai un patrimonio acquisito del nostro processo.
Né vi è da criticare la divaricazione, che in tal modo si avrebbe, tra allegazione e prova. Diversamente da quanto affermato dalla Corte, l'allegazione e la prova del fatto possono seguire regole differenti, com'è agevole constatare sol che si guardi alla circostanza che solo nel caso del fatto costitutivo del diritto eterodeterminato, o del fatto estintivo, impeditivo e modificativo che sostanzia l'eccezione in senso stretto, l'allegazione deve avvenire, rispettivamente, ad opera dell'attore o del convenuto, mentre negli altri casi non è rilevante né il modo in cui il fatto entra nel giudizio, né ad opera di chi ciò avvenga (v. Guida all'approfondimento, p. 7) .
Per il nostro ordinamento, la correlazione tra onere della prova e onere dell'allegazione non ha fondamento: da una parte, chi è gravato dall'onere dell'allegazione “può poi non avere quello della prova, ad esempio quando operino a suo favore presunzioni legali; dall'altro lato, l'onere della prova, ma non anche quello di allegazione, è largamente limitato per i poteri ufficiali di iniziativa probatoria”( M. Cappelletti, L'eccezione come controdiritto del convenuto, in Riv. dir. proc., 1961, 272 ). E ciò significa che onere della prova e onere dell'allegazione sono ben lungi dall'implicarsi reciprocamente e che il tema del repechage può essere letto senza i condizionamenti legati ad un presunto necessario parallelismo tra i due, restando entro i binari che la Corte Suprema aveva tracciato, prima del ripensamento compiuto dalle sentenze in commento. 1. Sulle implicazioni che, sul tema del repechage, può avere la modifica all' art. 2103 c.c. , intervenuta nel frattempo col D. Lgs . 15 giugno 2015, n. 81 (modifica operante, a decorrere dal 25 giugno 2015, nei confronti di tutti i lavoratori subordinati, anche se assunti precedentemente a tale data), v. le considerazioni di M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage, in Giur. it., 2016, 1167. In argomento v., inoltre, R. Diamanti, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repechage: oneri di allegazione e onere della prova, in www.rivistalabor.it, 2016, 117.
2. C. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo. II. Oggetto del giudizio ed impugnazione del licenziamento, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1991, 569 ss.; R. Oriani, Diritti potestativi, contestazione stragiudiziale e decadenza, Padova, 2003, 162 ss.; I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, Milano, 2004, 100 ss., spec. 104, ivi anche per ulteriori riferimenti .
3. Per le ragioni che, nella riforma del 2012, metterebbero in dubbio la possibilità di continuare a sostenere la tesi della natura di mero accertamento, e non costitutiva, dell'impugnativa del licenziamento nei casi diversi dalla nullità, e per una replica a quelle ragioni, v. D. Dalfino, Il licenziamento dopo la l. n. 92 del 2012 : profili processuali , in M. Barbieri e D. Dalfino, Il licenziamento individuale nell'interpretazione della legge Fornero , Bari, 2013, 64 ss.
Sulle caratteristiche della reazione giudiziale nei confronti del licenziamento illegittimo, come tratteggiata originariamente nello Statuto dei lavoratori e nella L. 15 luglio 1966, n. 604 , e poi modificata nella cd. legge Fornero e nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 , emanato nell'ambito del Jobs Act, v. I. Pagni, Effettività della tutela in materia di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2016, 225 ss.
4. I n un caso in cui l'iniziativa giudiziale è stata presa dal datore di lavoro, v. la vicenda Schettino c. società Costa Crociere, che ha originato la rimessione alle sezioni unite ad opera di Cass. civ., sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 3838 , in Foro it., 2014, I, 1845, con nota di S. Izzo, della questione poi decisa con l'ordinanza 31 luglio 2014, n. 17443, in Corr. giur., 2015, 378, con nota di D. Rizzardo.
Per un caso più risalente, in cui la Corte ha ritenuto che possa ravvisarsi l'interesse del datore di lavoro ad agire in mero accertamento della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso, prima dell'intimazione del licenziamento, e che quell'interesse discenda dall'impossibilità di rimuovere altrimenti il pregiudizio derivante dall'incertezza oggettiva della configurazione del rapporto attraverso uno strumento diverso dall'invocata sentenza di mero accertamento dell'inadempimento, v. Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 1993, n. 5889 , in Foro it., 1994, I, 510, con mia nota, “Licenziamento, poteri privati e interesse ad agire in mero accertamento”.
5. O sserva in proposito D. Dalfino, La prova del «requisito dimensionale»
ex art. 18 l. 300/70 al vaglio delle sezioni unite , ivi, 708 ss., che la questione della distribuzione dell'onere probatorio in relazione al requisito dimensionale di cui all'art. 18 in realtà non è direttamente correlata al problema della individuazione della natura del giudizio di impugnativa del licenziamento illegittimo. Ad avviso di Dalfino, la qualificazione di quel requisito quale fatto costitutivo o impeditivo, ai fini dell'applicazione dell' art. 2697 c.c. , dipende principalmente da opzioni di valore, e riposa su ragioni diverse e oggettive (quali, ad esempio, l'esigenza di non gravare le imprese di piccole dimensioni di vincoli idonei a intralciarne la funzionalità), le quali, a loro volta, rappresentano l'esito del processo di bilanciamento degli opposti interessi, entrambi costituzionalmente garantiti, svolto dal legislatore (cfr. I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, cit., 113 ss).
Come rileva A. Proto Pisani, La prova del «requisito dimensionale» ex art. 18 l. 300/70 : un «grand arrêt» delle sezioni unite, ivi, 710 ss., in questo caso il criterio della maggiore vicinanza o disponibilità della prova, di stretta derivazione dall' art. 24 Cost. ed espressione di realismo e di equità, è idoneo a superare, con riferimento ad ipotesi come questa, astratte e formalistiche dispute sulla contrapposizione fatto costitutivo-fatto impeditivo. Per la difficoltà di distinguere tra fatto costitutivo e fatto impeditivo, e sul tema, collegato, della cd. semplificazione analitica della fattispecie, v. L.P. Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 265 ss.
6. Anche le sentenze in commento riconducono la normativa in materia di licenziamenti alla disciplina civilistica dell'inadempimento, tanto che richiamano entrambe, a sostegno della tesi prescelta in punto di distribuzione degli oneri probatori, la notissima pronuncia delle Sezioni unite 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769, con nota di P. Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo, che ha affermato l'unicità della fattispecie costitutiva dei diritti all'adempimento ed alla risoluzione del contratto, superando il tradizionale orientamento giurisprudenziale in tema di inadempimento delle obbligazioni che prevedeva, a carico del creditore, un differente onere di prova in funzione dell'azione concretamente dedotta in giudizio, ed affermando, invece, che il creditore che agisca in giudizio per l'inesatto adempimento del debitore deve solo fornire la prova della fonte negoziale o legale del proprio diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l'inesattezza dell'adempimento costituita dalla violazione dei doveri accessori, dalla mancata osservanza dell'obbligo di diligenza o dalle difformità qualitative o quantitative dei beni, mentre incombe sul debitore convenuto l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento dell'obbligazione.
Tuttavia, nell'individuare la domanda del lavoratore, parlano di “un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità” e di “una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro” (così Cass. civ., sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5592 ), quando invece si è visto come sia più corretto ritenere che la domanda del lavoratore sia una domanda di accertamento (positivo) dell'esistenza attuale del rapporto di lavoro, sicché il petitum non è il potere di impugnazione ma sono le situazioni soggettive scaturenti dal contratto.
7. Com'è noto, i fatti posti a fondamento di eccezioni rilevabili d'ufficio (e i fatti costitutivi alternativi del diritto c.d. autodeterminato fatto valere in giudizio dall'attore) non devono necessariamente essere allegati dalla parte (convenuto o attore) cui giovano, ma possono anche emergere dagli atti legittimamente acquisiti al processo (allegazioni della controparte, risposte in sede d'interrogatorio libero, risultanze istruttorie, ivi compresa la consulenza tecnica, ecc.) anche se si tratti di allegazioni c.d. silenti (ad es. emergenti da documenti prodotti ad altri fini) di cui le parti non hanno consapevolezza: in questi termini, A. Proto Pisani, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazione nei processi a cognizione piena, in Foro it., 2006, I, 3143 ss., spec. 3145-3146. Nel senso che non occorre che la circostanza posta a fondamento dell'eccezione in senso lato (nella specie, quella di limitazione di responsabilità derivante da accettazione con beneficio d'inventario) sia allegata dalla parte interessata, essendo sufficiente che risulti dagli atti del processo, v., da ultimo,
Cass. civ., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531 , in Foro it., 2013, I, 3500, con nota di R. Oriani, Eccezione in senso lato e onere di tempestiva allegazione: un discorso chiuso?
In generale, sull'allegazione, v. D. Buoncristiani, L'allegazione dei fatti nel processo civile. Profili sistematici, Torino, 2001. |