Licenziamento disciplinare del lavoratore per espressioni non vere contenute in uno scritto difensivo

Franco Raimondo Boccia
16 Febbraio 2015

Non costituisce illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598 c.p., comma 1, avente valenza generale nell'ordinamento – attribuire al proprio datore di lavoro in uno scritto difensivo atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c.)
Massima

"Non costituisce illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598 c.p., comma 1, avente valenza generale nell'ordinamento – attribuire al proprio datore di lavoro in uno scritto difensivo atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c.)."

Il caso

La Cassa di Risparmio di Fermo S.p.A. aveva disposto, in data 3.9.2003, licenziamento disciplinare nei confronti del proprio dipendente che aveva emesso un assegno bancario di Euro 774,69 su un conto corrente chiuso e per avere nel successivo giudizio, promosso dallo stesso dipendente avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Prefetto di Ascoli Piceno per violazione del D.Lgs. n. 507 del 1999, art. 28, comma 1, sostenuto, contrariamente al vero, che il predetto istituto di credito avrebbe omesso di comunicargli il preavviso di revoca e di chiusura del conto, dovuto L. n. 386 del 1990, ex art. 9 bis.
Il Tribunale di Fermo, dinanzi al quale il dipendente aveva proposto l'impugnativa del licenziamento irrogatogli, aveva respinto il ricorso confermando la legittimità del licenziamento. La sentenza del Tribunale di Fermo veniva impugnata dal lavoratore licenziato dinanzi la Corte d'Appello di Ancona che, con sentenza del 3.9.2011, rigettava l'appello e confermava la sentenza impugnata.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello di Ancona censurandola con quattro distinti motivi. Con i primi due motivi la sentenza della Corte d'Appello viene censurata per non avere ritenuto la tardività della contestazione e per la violazione del principio di immediatezza e tempestività. Con il terzo motivo per non avere la Corte territoriale riconosciuto la buona fede del lavoratore che aveva sostenuto di non avere avuto conoscenza dell'avviso recapitato presso la propria abitazione. Con il quarto motivo la sentenza della Corte territoriale viene censurata per violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c., e dell'art. 7 Stat. Lav., nella parte in cui l'impugnata sentenza ha ritenuto irrilevante l'inesistenza d'un danno all'immagine a carico dell'istituto di credito perché la condotta addebitata proveniva, comunque, da un suo dipendente. In proposito il lavoratore ricorrente sosteneva che nel caso di specie nessun rilievo aveva il rapporto di lavoro in essere, in quanto la sua asserzione (non aver ricevuto il preavviso di revoca e di chiusura del conto corrente) era comunque contenuta in uno scritto difensivo e, quindi, era avvenuta al di fuori dell'esercizio delle mansioni.
La Cassa di Risparmio resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale per un profilo processuale di inammissibilità dell'appello.

La questione

La questione in esame, tralasciando i profili processuali di ammissibilità dell'appello (sollevati con ricorso incidentale dalla Cassa di Risparmio di Fermo e risolti negativamente dalla Corte di Cassazione), riguarda la proporzionalità del provvedimento di licenziamento disposto dal datore di lavoro per fatti, comunque accertati, posti in essere dal lavoratore pur se nell'ambito di un procedimento giudiziale di cui era parte. Nel ricorso per Cassazione, invero, il lavoratore soccombente in appello, censura espressamente la sentenza della Corte d'Appello impugnata per violazione dell'art. 2016 c.c. e per violazione dell'art. 7, l. 300/1970. Nello specifico il lavoratore si duole perché la Corte di merito non ha dato rilievo alla inesistenza del danno all'immagine e non ha dato rilievo alla inesistenza della diffamazione, in quanto le affermazioni non vere erano contenute in uno scritto difensivo che non vedeva come parte la datrice di lavoro.

Le soluzione giuridiche

La Corte di legittimità dopo avere respinto, come già anticipato il ricorso incidentale proposto dalla Cassa di Risparmio di Fermo, ed avere respinto il primo ed il secondo motivo di ricorso, sollevati con riferimento alla pretesa violazione del principio di tempestività, ha esaminato il terzo ed il quarto motivo ritenendoli fondati.
Per meglio dire la Corte di legittimità a fronte di una dedotta violazione del principio di proporzionalità per la violazione dell'art. 2106 c.c. e dell'art. 7, l. 300/1970 ha ampliato il tema sottopostogli, sollevando d'ufficio la presenza di una scriminante al comportamento posto in essere e contestato.
In proposito la stessa Corte di legittimità puntualizza, nell'introdurre l'esame del motivo, di dover “rilevare ex officio, nella condotta oggetto di contestazione disciplinare così come descritta dall'impugnata sentenza, la configurabilità d'una scriminante e dovendo altresì dare atto dell'insussistenza d'un danno ingiusto per la Cassa di Risparmio di Fermo S.p.A.” (cfr Cass. 11.12.2014, n. 26106).
La Corte giustifica questa scelta – che in buona sostanza introduce un profilo mai sollevato e sul quale non si è mai instaurato il contraddittorio – richiamando alcuni precedenti della stessa Corte in base ai quali vi sono dei profili – tra i quali rientra, appunto, secondo la Corte quello sollevato – che non sono “bisognevoli di procedimentalizzazione del contraddittorio”. Nello specifico la Corte ha ritenuto possibile sollevare il suddetto profilo, pur in assenza della procedimentalizzazione del contraddittorio, in quanto pur non trattandosi di un profilo di inammissibilità, la causa non è stata decisa nel merito ma con rinvio ad altra Corte territoriale.
Ampliato in questi termini il “tema decidendum” la Corte di legittimità riconsidera la valenza giuridica dei fatti contestati, in base ai quali la sentenza impugnata aveva ritenuto nel comportamento posto in essere dal lavoratore l'astratta “potenzialità lesiva dell'immagine della società”, ritenuta sempre nella sentenza impugnata sufficiente ad integrare la “lesione del rapporto fiduciario in ambito lavorativo”.
In particolare la Corte di legittimità ha ritenuto che i fatti contestati – l'affermazione non veritiera contenuta negli scritti difensivi di un comportamento omissivo posto in essere, a dire del lavoratore, dalla datrice di lavoro - poiché contenuti in uno scritto difensivo e funzionali alla difesa svolta dal lavoratore in quel procedimento dovessero ritenersi scriminati ai sensi di quanto disposto dall'art. 598 c.p., 1° comma. Questa norma penale, come è noto, stabilisce espressamente che “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'autorità amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo” (Art. 598, 1° comma, c.p). Dette espressioni, offensive, in base al secondo comma dello stesso art. 598 avrebbero potuto essere stralciate dagli atti.
Con questa nuova impostazione la Corte Suprema ritiene che il comportamento contestato al lavoratore debba ritenersi giustificato, in quanto posto in essere con le affermazioni contenute in scritti difensivi e funzionali alla difesa nel giudizio in cui sono state svolte; ciò per la portata generale che hanno le esimenti nel nostro ordinamento. Nello specifico questo principio generale è stato più volte affermato dalla Corte Suprema in questi termini: “la speciale esimente contemplata dall'art. 598 c.p. «per offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alla autorità giudiziaria», con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo la massima libertà nell'esercizio del diritto di difesa, trova applicazione con riguardo alle offese che riguardino in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta” (Cass. n. 18207/07; Cass. n. 1757/07).
Sulla scorta di questa individuata ed introdotta scriminante la Corte Suprema ha ritenuto, quindi, che essa dovesse applicarsi anche alle affermazioni svolte dal lavoratore, oggetto della contestazione che aveva portato al licenziamento per giusta causa in data 3.9.2003. Peraltro la Corte Suprema ha ritenuto che le contestate affermazioni “erano state formulate in maniera tutt'altro che sconveniente, non continente o comunque oltraggiosa.”
La Corte Suprema ha, inoltre, ritenuto che le affermazioni oggetto di contestazione – e ciò si deve ritenere a prescindere dalla scriminante introdotta sin qui esaminata – non potessero essere ritenute tali da far ritenere sussistente la loro “astratta potenzialità lesiva in termini di danno all'immagine della società”. Secondo la valutazione della Corte Suprema si può, infatti, realizzare una ipotesi di danno alla reputazione, seppure potenziale, soltanto allorquando l'atto lesivo possa essere immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi (al riguardo viene richiamata Cass. n. 18082/13).
Questo ulteriore profilo secondo la Corte Suprema non trova adeguata motivazione nella sentenza impugnata, che invece di dare un riscontro alla affermata sussistenza del danno alla reputazione e del danno all'immagine per i profili propri di tali danni, si concentra su una ipotetica futura perdita di clientela che in quanto tale avrebbe dovuto far ritenere sussistente un diverso tipo di danno: vale a dire un danno di natura patrimoniale.
La carenze riscontrate nella sentenza impugnata, secondo la Corte Suprema, non possono ritenersi superate dal richiamo in essa effettuato alla sentenza Cass. n. 5504/05. Con questa sentenza la Corte Suprema aveva confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa disposto da una banca nei confronti di un cassiere che aveva versato l'importo di un mutuo ad uno solo dei due contestatari. Trattandosi, quindi, di un comportamento posto in essere nell'ambito del rapporto di lavoro, secondo la sentenza in esame, i principi in essa enunciati non potevano in alcun modo soccorrere, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza di merito impugnata, nella valutazione dei comportamenti, posti in essere in un contesto diverso da quello lavorativo, oggetto della contestazione che aveva portato al licenziamento.
Con questo iter argomentativo, quindi, la Corte Suprema ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Ancona rinviando ad altra Corte territoriale in applicazione del principio riportato nella massima.

Osservazioni

La decisione in commento risolve, positivamente, la questione relativa alla possibilità di introdurre d'ufficio temi sui quali non si era mai formato il contraddittorio nel giudizio di merito. La soluzione adottata pone, tuttavia, una perplessità che nasce dagli stessi precedenti citati per dare ad essa sostegno.
Infatti i precedenti richiamati per dare sostegno all'ampliato tema d'indagine, con l'introduzione della scriminante di cui all'art. 598, 1° comma, c.p., si riferiscono tutti ad ipotesi di inammissibilità del ricorso rilevata d'ufficio. In particolare nell'ordinanza della Corte di Cassazione n. 15964/2011, che riguarda il caso della inammissibilità per tardività del ricorso rilevata d'ufficio. L'altro precedente richiamato riguarda il caso della decisione assunta in camera di consiglio per un motivo diverso da quello proposto dal relatore della causa (Cass. 15901/2009). Infine anche il terzo precedente richiamato (Cass. 8137/2014) riguarda il caso in cui d'ufficio viene sollevato ed accolto il profilo della inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso.
Nel caso deciso, invece, il tema d'indagine viene ampliato dalla Corte Suprema in relazione ad un profilo (la sussistenza di una causa scriminante nel comportamento contestato ai sensi dell'art. 598, 1° comma, c.p.), mai sollevato ed in relazione al quale non si era mai potuto formare il contraddittorio. Profilo in relazione al quale e per la decisione del quale deve, invece, ritenersi essenziale la diversa prospettazione delle parti da formarsi nei termini e con i limiti di cui all' art. 414 e 416 c.p.c..
La decisione in commento, inoltre, con l'ampliamento del “tema decidendum” perviene ad una diversa valutazione della rilevanza giuridica del fatto contestato. Nello specifico la scriminante individuata dalla Corte Suprema l'ha portata a ritenere giustificato il fatto contestato, poiché posto in essere in uno scritto difensivo in una controversia che non avevo visto coinvolto la datrice di lavoro. Sulla scorta di questa nuova valutazione la sanzione del licenziamento viene ritenuta non più proporzionata al fatto stesso oggetto di contestazione, con conseguente cassazione della sentenza.
La nuova valutazione che compie in questo modo la Corte Suprema potrebbe non essere più consentita dalla modifiche introdotte all'art. 18 dalla L. 28 giugno, n. 92. La nuova disciplina, come è noto, ha reso la reintegra nel posto di lavoro ipotesi residuale limitandola a precise e specifiche ipotesi. In merito la Corte di Cassazione in una recente decisione ha affermato che in base alla nuova normativa “va tenuta distinta dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo di recesso, la reintegrazione postula la verifica dell'insussistenza del fatto materiale addotto a fondamento del licenziamento, che si esaurisce nell'accertamento, positivo o negativo, di esso, senza margini per valutazioni discrezionali, irrilevante essendo il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato.” (cfr Cass., sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669.)

Sulla stessa pronuncia vedi anche

Marco Giardetti, Ininidoneità di affermazioni rese dalla parte nel processo a costituire giusta causa di licenziamento. scriminante ex art. 51 c.p.

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