Cessione di ramo d’azienda illegittima e mancata riammissione del lavoratore: diritto alle retribuzioni o al risarcimento del danno?

16 Febbraio 2015

In caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento.
Massima

In caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo di azienda, il cedente, che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro, è tenuto a risarcire il danno secondo le ordinarie regole civilistiche, sicché la retribuzione, corrisposta dal cessionario al lavoratore, deve essere detratta dall'ammontare del risarcimento.

Il caso

Una società di telecomunicazioni, che aveva ceduto alcuni dipendenti ad altra azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c., promuoveva opposizione ai decreti ingiuntivi con cui i lavoratori le avevano ingiunto il pagamento delle retribuzioni sulla base di una sentenza del Tribunale che aveva dichiarato l'illegittimità della cessione del ramo d'azienda ed aveva, conseguentemente, ordinato il ripristino dei rapporti di lavoro con la medesima Società cedente.
Secondo i lavoratori ceduti, la pretesa monitoria trovava fondamento nel fatto che il mancato ripristino del rapporto lavorativo da parte della società cedente, nonostante l'intervenuta pronuncia giudiziale di illegittimità della cessione di ramo d'azienda, poneva quest'ultima in una situazione di mora, con conseguente obbligo di corresponsione delle retribuzioni relative al periodo successivo a quello di annullamento della cessione d'azienda, indipendentemente dal fatto che i lavoratori avessero, nel frattempo, reso le loro prestazioni in favore della società cessionaria.
Avverso la sentenza della Corte di Appello, che aveva condiviso la tesi dei lavoratori ceduti, aveva proposto ricorso in cassazione la società cedente evidenziando, tra l'altro, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206 e 1207 c.c. nella parte in cui la Corte d'Appello aveva ritenuto che la messa in mora del creditore e la conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto imputabile al creditore stesso avessero determinato il diritto ad esigere la controprestazione, cioè la retribuzione, da parte dei lavoratori, a prescindere dal fatto che questi ultimi avessero percepito nello stesso periodo la retribuzione erogata dal cessionario (c.d. "aliunde perceptum").
La società cedente assumeva che non era possibile prescindere dalla situazione derivante, nella fattispecie, dalla corresponsione ai lavoratori ceduti degli emolumenti retributivi da parte dell'impresa cessionaria e dalla mancata prosecuzione dell'attività lavorativa presso l'impresa cedente, in quanto diversamente i dipendenti avrebbero conseguito, senza una valida ragione, una doppia retribuzione, ossia quella corrisposta dall'impresa cessionaria, quale datrice di lavoro subentrata alla precedente, e quella pretesa nei confronti della cedente, per la quale non avevano svolto alcuna attività lavorativa.

La questione

La questione in esame è la seguente: una volta dichiarata l'illegittimità di una cessione di ramo d'azienda ex art. 2112 c.c., i lavoratori ceduti non riammessi presso il cedente hanno diritto al pagamento da parte di quest'ultimo della retribuzione per il periodo successivo alla declaratoria di illegittimità della cessione oppure soltanto al risarcimento del danno secondo le ordinarie regole civilistiche e con detrazione dell'aliunde perceptum?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento interviene sul discusso problema della natura risarcitoria o retributiva delle somme rivendicabili dal lavoratore in caso di trasferimento di ramo d'azienda giudicato illegittimo e di mancata riammissione del lavoratore presso l'azienda del cedente.
La scelta tra “retribuzione” e “risarcimento del danno” ha conseguenze rilevanti: mentre al risarcimento del danno è applicabile la compensatio lucri cum damno e, in particolare, gli istituti dell 'aliunde perceptum e percipiendum (con conseguente possibilità per il cedente di defalcare da quanto dovuto al lavoratore le somme da quest'ultimo percepite alle dipendenze del cessionario), le retribuzioni sono esenti dalla suddetta compensazione. In quest'ultimo caso, quindi, il lavoratore avrebbe diritto a percepire sia le retribuzioni erogate dal cessionario sia quelle dovute dal cedente a seguito della ricostituzione del vincolo contrattuale per effetto della sentenza che ha dichiarato illegittima la cessione del ramo d'azienda. Per tale ragione, il filone in cui si innesta la sentenza in commento è anche noto tra gli operatori del settore come “doppie retribuzioni”.
La tematica ha fatto registrare una netta divisione nella giurisprudenza di merito, sia di primo sia di secondo grado.
Coloro che sostengono la natura retributiva delle somme in questione evidenziano che, una volta offerta formalmente la prestazione lavorativa al cedente ed intervenuta la sentenza dichiarativa della illegittimità del trasferimento del ramo d'azienda, la mancata riammissione del lavoratore presso il cedente determinerebbe l'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa. Tale impossibilità, ai sensi dell'art. 1207 c.c., resterebbe “a carico” del creditore, cioè del datore di lavoro che ha ceduto il proprio dipendente. Quindi, il lavoratore ceduto potrebbe promuovere un'azione di adempimento volta ad ottenere la retribuzione per l'intera quota dovuta, senza che possano essere scomputate le somme da lui percepite, per lo stesso periodo, dal cessionario del ramo d'azienda.
La “preoccupazione” sottesa al suddetto orientamento è che, se fosse possibile defalcare dal quantum le retribuzioni del cessionario, non vi sarebbe alcuno strumento per indurre il cedente a dare esecuzione alla sentenza che ha ordinato la riammissione del lavoratore ceduto.
Invece, il contrapposto orientamento (tra cui si annovera la sentenza in commento) recepisce gli insegnamenti della Suprema Corte che avevano già affrontato la problematica soprattutto con riferimento ai contratti a termine ed all'interposizione di manodopera.
Muovendo dal principio sinallagmatico posto a fondamento del contratto di lavoro, la Corte di Cassazione osserva che il diritto alla retribuzione, ai sensi dell'art. 2094 c.c., sorge solo in caso di effettivo svolgimento della prestazione lavorativa. Non basta cioè l'esistenza del rapporto di lavoro o il mero protrarsi dello stesso, ma è indispensabile – appunto – che la prestazione sia effettivamente resa, in assenza della quale non può sorgere l'obbligo retributivo a carico del datore di lavoro.
Con la pronuncia in esame la Suprema Corte ribadisce, quindi, che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l'erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce un'eccezione, che deve essere oggetto di un'espressa previsione di legge o di contratto (come nei casi del riposo settimanale e delle ferie annuali, cfr artt. 2108 e 2109 c.c.).
In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo, anche nel contratto di lavoro, ad una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione-corrispettivo, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni.
Proprio perché si tratta di un risarcimento del danno - ed in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare - soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che deve essere detratto quanto il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa, tra cui la prestazione resa in favore del cessionario del ramo d'azienda.


Osservazioni

Con la sentenza in commento la Suprema Corte di Cassazione aderisce all'orientamento secondo cui, nell'ambito della questione degli effetti della dichiarazione di nullità della cessione di ramo d'azienda, l'obbligazione del cedente che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro dei lavoratori ceduti deve essere qualificata come risarcimento del danno, con la conseguente detraibilità del cosiddetto "aliunde perceptum".
La soluzione accolta dalla Suprema Corte di Cassazione si ritiene preferibile in quanto coerente con il principio sinallagmatico che fonda il contratto di lavoro, in virtù del quale il lavoratore ha diritto alla retribuzione soltanto qualora abbia effettivamente prestato l'attività lavorativa a favore del datore di lavoro.
Ne consegue che, qualora i lavoratori ceduti continuino a svolgere la prestazione lavorativa alle dipendenze della cessionaria, venendone regolarmente retribuiti, a loro incombe l'onere di dedurre e dimostrare i danni sofferti, tra i quali l'inferiorità di quanto ricevuto rispetto alla retribuzione che sarebbe spettata alle dipendenze della società cedente.
Infatti, la cessione ex art. 2112 cod. civ. produce come effetto la sostituzione di un soggetto (cessionario) ad altro (cedente) nel rapporto giuridico, il quale rimane eguale nei suoi elementi oggettivi. Del tutto correttamente, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto che, essendo la controprestazione retributiva nel caso di specie relativa ad un unico rapporto di lavoro, dalla situazione di mora non possa che scaturire, ai sensi dell'art. 1207 cod. civ., un'obbligazione risarcitoria, essendo quella retributiva già adempiuta.
Secondo l'art. 1207 cod. civ. quando il creditore viene messo in mora “è a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravenuta per causa non imputabile al debitore”. Pertanto, se il cedente è stato posto in mora, essendo a suo carico l'impossibilità sopravvenuta della prestazione ed essendo egli inadempiente all'obbligo di cooperare per rendere possibile l'esecuzione della prestazione, egli è tenuto al risarcimento del danno (commisurato alla retribuzione persa) e non alla controprestazione, ossia alla corresponsione della retribuzione stessa.
Ciò, del resto, anche in applicazione del generale principio per cui all'inadempimento delle obbligazioni consegue il risarcimento del danno ai sensi degli artt. 1223 e ss. cod. civ. e non la controprestazione.
Priva di rilevo, ad avviso dello scrivente, è poi la distinzione tra periodo anteriore e successivo alla sentenza che ha dichiarato illegittima la cessione di ramo d'azienda, sostenuta da parte della giurisprudenza di merito.
Tale impostazione, infatti, riprende la formulazione dell' art. 18, 2° comma, L. n. 300/1970 (norma peraltro non applicabile al trasferimento di ramo d'azienda illegittimo) antecedente alla riforma ad opera della L. 11 maggio 1990, n. 108. Il testo previgente, infatti, introduceva una deroga al principio delle conseguenze risarcitorie della mora credendi prevedendo che, per il periodo dalla sentenza alla effettiva reintegrazione, il datore di lavoro dovesse erogare le retribuzioni e non il risarcimento del danno.
Tale deroga, tuttavia, è venuta meno per effetto della riforma operata dalla L. 108/1990, la quale ha unificato i due periodi pre e post sentenza, obbligando il datore di lavoro al risarcimento del danno e con possibilità di “defalcare” l'aliunde perceptum.
In altri termini, ad avviso dello scrivente, non è possibile utilizzare le conseguenze della mora del creditore a fini coercitivi, quasi che l'obbligo retributivo possa rappresentare una sorta di astreinte per indurre l'esecuzione di un obbligo di fare infungibile. Del resto, il legislatore ha introdotto, con l'art. 614-bis cod. proc. civ., un rimedio sanzionatorio per garantire l'esecuzione degli obblighi di fare infungibili, escludendo tuttavia – in una evidente ottica di bilanciamento degli interessi in un settore particolarmente delicato – il rapporto di lavoro. Tralasciando in questa sede gli eventuali profili di illegittimità costituzionale di tale esclusione denunciati da parte della dottrina, non si ritiene che debba essere il giudice a sostituirsi al legislatore nell'approntare mezzi di tutela alternativi che lo scrivente ritiene incoerenti con l'impianto della responsabilità risarcitoria del nostro ordinamento, generando peraltro paradossali situazioni quali il diritto ad ottenere la “doppia retribuzione”.