Riconoscimento in Cassazione dello ius superveniens retroattivo: il via libera delle Sezioni Unite
17 Febbraio 2017
Massima
È ammissibile il ricorso per Cassazione per violazione di legge sopravvenuta dotata di efficacia retroattiva. Il ricorso incontra, tuttavia, il limite del giudicato, salvo che la sentenza si componga di più parti, connesse tra loro in modo che l'accoglimento dell'impugnazione della parte principale determini la caducazione anche della parte dipendente, pur in assenza d'impugnazione specifica di quest'ultima. Il caso
Un lavoratore dipendente adiva il Tribunale per ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto, nonché la declaratoria della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Il giudice accoglieva la domanda, condannando la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni maturate sino alla data della pronuncia.
La Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado. Il soccombente proponeva ricorso per Cassazione, invocando, quanto alle conseguenze derivanti sul piano economico dalla ritenuta conversione del contratto a tempo indeterminato, l'applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7. Registrando un duplice contrasto di orientamenti in tema di applicazione di tale disciplina, la Sezione lavoro rimetteva la questione al Primo Presidente della Corte di Cassazione, che ne ha disposto l'assegnazione alle Sezioni Unite. La questione
Le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi sulla duplice questione dell'applicabilità, nel giudizio di Cassazione, dello ius superveniens retroattivo – successivo alla pronuncia resa in appello ma anteriore alla proposizione del ricorso in sede di legittimità – nonché dei limiti che la legge retroattiva incontra a causa del giudicato. Le soluzioni giuridiche
Con riguardo alla prima questione, a fronte di un orientamento estensivo, per il quale è possibile domandare, con uno specifico motivo di ricorso, l'applicazione della nuova disciplina retroattiva (cfr. Cass. sez. lav., 23 ottobre 2014, n. 22545; Cass. sez. lav., 8 ottobre 2013, n. 22854; Cass. civ., sez. VI, 15 aprile 2013, n. 9124; Cass. civ., sez. VI 16 luglio 2012, n. 12185), si pone la soluzione contraria, basata sull'inammissibilità del ricorso per Cassazione per ipotesi diverse da quelle previste dall'articolo 360 c.p.c., tra le quali non rientra il vizio di violazione di una legge che al momento della sentenza non era stata ancora emanata (cfr. Cass. sez. lav., 4 giugno 2014, n. 12568; Cass. sez. lav., 1 ottobre 2012, n. 16642).
Le Sezioni Unite ritengono che non sia di ostacolo il fatto che il ricorso per Cassazione sia un mezzo di impugnazione a critica vincolata, poiché il problema solo apparentemente attiene alla tipicità dei motivi di impugnazione.
La questione è, invece, tutta interna al concetto di violazione di norme di diritto, dovendosi interpretare l'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nel senso che la violazione può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano dotate di efficacia retroattiva, posto che il giudizio della Corte di Cassazione non riguarda l'operato del giudice ma la conformità o meno all'ordinamento giuridico della decisione adottata.
Superato il dubbio di legittimità costituzionale della legge retroattiva (su cui cfr. C. Cost., 11 novembre 2011, n. 303, Foro it., 2012, I, 717, con osservazioni di A. M. Perrino, seguita da C. Cost., 4 giugno 2014, n. 155 e C. Cost., 27 luglio 2014, n. 226, id., 2014, I, 2633, con osservazioni di A. M. Perrino), anch'essa costituisce, quindi, il parametro del giudizio sulla violazione di legge ai sensi dell'articolo 360, comma 1°, n. 3, c.p.c., essendo ammissibile anche il ricorso per Cassazione proposto solo per denunziare la violazione della legge nuova.
Più complessa, invece, la questione attinente ai rapporti tra legge retroattiva e giudicato. Se, da un lato, si afferma che l'applicabilità della nuova legge retroattiva ai giudizi in corso, eventualmente anche d'ufficio, trova un limite nel giudicato interno sul capo della sentenza relativo al risarcimento del danno, da ritenersi formato qualora sul punto la sentenza di primo grado non sia stata oggetto di motivo di appello (Cass. sez. lav., 5 gennaio 2015, n. 2; Cass. civ., sez. VI, 13 gennaio 2015, n. 359; Cass. sez. lav., 17 marzo 2014, n. 6101), dall'altro si esclude la formazione del giudicato interno, pur in assenza di un'impugnazione delle statuizioni della sentenza di primo grado sulle conseguenze risarcitorie, poiché l'eventuale accoglimento degli altri motivi di gravame, quali risultanti dalla sentenza impugnata, comporterebbe la caducazione anche di tali statuizioni (Cass. civ., sez. VI, 8 gennaio 2015, n. 85; Cass. civ., sez. VI, 28 marzo 2012, n. 5001).
La Corte di Cassazione aderisce al secondo orientamento poiché, trattandosi di capi della domanda strettamente connessi, l'accoglimento dell'impugnazione sulla parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente, in applicazione dell'art. 336 c.p.c., secondo il quale «la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata o cassata». E infatti, l'art. 329, comma 2, c.p.c., per il quale «l'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata» vale esclusivamente per i capi autonomi e indipendenti da quello impugnato, presupponendo che le parti della sentenza non siano tra loro collegate (ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2007, n. 22863; Cass. civ., sez. III, 18 ottobre 2005, n. 20143; Cass. civ., sez. III, 23 ottobre 1998, n. 10550; Cass. civ., sez. I, 9 aprile 1996, n. 3271; Cass. S.U., 22 novembre 1994, n. 9872; Cass. 2 maggio 1967, n. 810). Osservazioni
Nello sciogliere i dubbi prospettati dall'ordinanza di rimessione, le Sezioni Unite si soffermano innanzitutto sul concetto di violazione di legge, affermando che tale violazione non richiede necessariamente un errore imputabile al giudice, trattandosi, piuttosto, di un dato oggettivo che sussiste tutte le volte in cui v'è contrasto tra il provvedimento giurisdizionale e una norma di diritto applicabile ratione temporis al rapporto dedotto in giudizio.
Di conseguenza, la parte interessata è legittimata a proporre un ricorso per Cassazione anche contro una sentenza che abbia correttamente applicato la legge all'epoca vigente, qualora sia sopravvenuta una nuova legge dotata di efficacia retroattiva.
Premesso che sul concetto di violazione di norme di diritto si fronteggiano due diverse tesi interpretative – una tesi soggettiva, secondo la quale il concetto di violazione attiene ad un errore del giudice, da escludere quando la sentenza contrasta con una norma che non esisteva al momento della decisione, e una tesi oggettiva, per la quale il concetto di violazione si riferisce al contrasto della sentenza con l'ordinamento giuridico – le Sezioni Unite sposano la tesi oggettiva, affermando che la Cassazione, quando opera il controllo di legittimità, non deve soffermarsi sull'operato del giudice, ma deve tener conto degli sviluppi normativi con efficacia retroattiva che pongano la sentenza di merito in contrasto con l'ordinamento giuridico.
La tradizionale nozione di error in judicando è, quindi, riletta in chiave oggettiva, come concreto conflitto fra l'ordinamento – così come modificato dalla legge sopravvenuta – e la decisione emessa dal giudice.
La Cassazione sembra conformarsi a quanto già sostenuto da Cass. sez. trib., 12 maggio 2003, n. 7207, in Foro it., 2003, I, 2024; Cass. civ., sez. I, 13 gennaio 1995, n. 398, id., Rep. 1995, voce Cassazione civile, n. 54; Cass. S.U., 22 novembre 1994, n. 9872, id., 1995, I, 126, secondo cui, il sopravvenire di nuove disposizioni di legge, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata e prima della notificazione del ricorso, determina un'ingiustizia oggettiva della decisione, sufficiente a giustificarne la cassazione, quando sia specificamente dedotta come motivo di impugnazione e il mutamento normativo attenga a questioni già dibattute nelle fasi di merito e la cui soluzione non sia coperta da giudicato.
A livello sistematico assume interesse anche Cass. S.U., 18 dicembre 2006, n. 26948, id., Rep. 2007, voce cit., n. 113, secondo cui il regime giuridico contenuto nelle direttive comunitarie, così come interpretato dalla Corte di giustizia, deve essere applicato nel giudizio di Cassazione anche indipendentemente da uno specifico motivo o da un'espressa istanza di parte e, quindi, senza necessità di una valutazione sull'autosufficienza del ricorso.
Nell'identificare il giudicato col limite all'operatività dello ius superveniens, la Corte specifica che tale limite è inoperante al cospetto di un'impugnazione che, pur riguardando la sola parte principale, travolge quella da questa dipendente, così confermando quanto più volte sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale la cosa giudicata parziale è effetto dell'acquiescenza quando la sentenza contenga due o più capi autonomi, il che non avviene nel caso di soluzione di una questione giuridica strumentale rispetto all'attribuzione del bene della vita controverso.
Il giudicato parziale va infatti riconosciuto solo con riguardo alle parti sostanziali della sentenza impugnata, che abbiano deciso su specifica domanda, e che mantengano, nell'ambito dell'oggetto del contendere globalmente considerato, caratteri di completa autonomia (cfr. Cass. sez. lav., 9 novembre 1992, n. 12062, id., Rep. 1992, voce Impugnazioni civili, n. 30; Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 1992, n. 757, id., Rep. 1992, voce Cassazione civile, n. 34; Cass. civ., sez. I, 16 aprile 1991, n. 4033, id., 1992, I, 131, con nota di R. Caponi, In tema di «ius superveniens» sostanziale nel corso del processo civile: orientamenti giurisprudenziali).
Le Sezioni Unite negano, quindi, la necessità di esaminare l'atto di appello al fine di verificare se, pur non essendo stato formulato un motivo con il quale si chiede l'applicazione della legge sopravvenuta, tuttavia il capo relativo al risarcimento sia stato comunque impugnato per altri motivi, mantenendo così fluida anche la questione risarcimento; affermano, inoltre, che tale fluidità si determina comunque a causa dell'impugnazione del capo relativo all'illegittimità del termine, poiché l'eventuale accoglimento dei motivi volti a negare l'illegittimità del termine determina in ogni caso il venir meno della parte della decisione sul risarcimento del danno.
Conforme alla sentenza in epigrafe, con riguardo all'operatività dell'effetto espansivo interno della riforma o della cassazione parziale della sentenza, è anche la giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato 15 settembre 2015, n. 4283, id., Rep. 2015, voce Giustizia amministrativa, n. 722), secondo cui, in base al principio di cui all'art. 336 c.p.c. (applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio operato dall'art. 39 Codice del processo amministrativo), la riforma parziale della sentenza ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata. L'accoglimento dell'appello nella parte concernente il rigetto della domanda di annullamento travolge, quindi, il capo di sentenza che rigetta la domandarisarcitoria non per ragioni autonome, ma in conseguenza della ritenuta legittimità dei provvedimenti impugnati.
Da ultimo, le Sezioni Unite sottolineano che le parti dipendenti della sentenza, sebbene rimaste fluide e non cristallizzate nel giudicato, non possono considerarsi intangibili a causa della maturazione di preclusioni e decadenze processuali, non sussistendo alcuna disposizione che imponga l'impugnazione autonoma anche delle parti della sentenza esposte alla necessaria caducazione in caso di accoglimento della parte principale, e tanto meno che la imponga a pena di decadenza.
A conferma di quanto sostenuto, la Corte evidenzia le conseguenze che, in punto di deflazione del contenzioso, deriverebbero da una diversa ricostruzione interpretativa, così avvantaggiando chi casualmente propone un motivo di impugnazione del capo di sentenza dipendente, oppure chi eccede nella proposizione di motivi di impugnazione, a scapito di chi, invece, avanza un'impugnazione mirata ed essenziale e omette di impugnare un capo della decisione che, prima della modifica legislativa retroattiva, non vi era motivo di impugnare. |