Art. 18 post riforma Fornero: i confini della reintegrazione nel licenziamento collettivo illegittimo
18 Gennaio 2017
Massima
L'incompletezza della comunicazione finale del procedimento di licenziamento collettivo di cui all'art. 4, comma 9, della Legge 23 luglio 1991, n. 223, costituisce una “violazione delle procedure” previste dalla Legge citata e, pertanto, dà luogo alla tutela dell'indennizzo economico prevista dal terzo periodo dell'art. 18, comma 7, della Legge 20 maggio 1970, n. 300 e non alla tutela della reintegrazione nel posto di lavoro prevista in caso violazione dei criteri di scelta. Il caso
Tizio, ex dipendente della Fondazione Alfa, citava in giudizio quest'ultima contestando l'efficacia del licenziamento collettivo che aveva interessato anche la sua posizione lavorativa. Secondo il lavoratore, infatti, la comunicazione inviatagli all'esito del procedimento di licenziamento collettivo, ai sensi dell'art. 4, comma 9, della Legge n. 223/1991, era viziata da un'eccessiva genericità in merito alle modalità di applicazione dei criteri di scelta dei singoli lavoratori interessati dal recesso.
Nell'ambito del giudizio avviato nelle forme del cd. rito Fornero, la Corte d'Appello di Catanzaro ha accolto il reclamo rilevando che la comunicazione non fosse stata sufficientemente puntuale nell'esplicitazione delle modalità di applicazione del criterio delle “esigenze tecnico produttive e organizzative”, specialmente laddove tale criterio dava rilievo all'anzianità nelle mansioni. Secondo i giudici del reclamo, infatti, non risultavano chiare le modalità con le quali la Fondazione aveva proceduto all'attribuzione del punteggio finale e, pertanto, condannavano la Fondazione medesima alla reintegrazione nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 18 mensilità.
Avverso tale decisione la Fondazione ha proposto ricorso per Cassazione. La questione
La questione in esame è la seguente: a seguito della cd. riforma Fornero (Legge n. 92/2012) il vizio di genericità della comunicazione che, ai sensi dell'art. 4, comma 9, della Legge n. 223/1991 conclude il procedimento di licenziamento collettivo, dà luogo a quale conseguenza sanzionatoria? Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema della comunicazione che, ai sensi dell'art. 4, comma 9, della Legge n. 223/1991, conclude la procedura di licenziamento collettivo, confermando ed ampliando le indicazioni interpretative già anticipate con la propria sentenza del 13 giugno 2016, n. 12095.
Le questioni di merito sottoposte all'attenzione della Corte di Cassazione sono due.
La prima attiene alla definizione dei contenuti di tale comunicazione finale e più in particolare se essa debba contenere tutti i documenti necessari utilizzati dal datore di lavoro in sede di applicazione dei criteri di scelta.
Secondo l'interpretazione avanzata dalla Fondazione ricorrente, il contenuto della comunicazione finale era sufficientemente specifica, poiché attribuiva esplicitamente 2 punti per ogni anno di attività svolta nella mansione, producendo altresì le graduatorie finali suddivise per profilo professionale. Peraltro, rilevava la Fondazione reclamante, i lavoratori interessati avrebbero comunque potuto accedere a tutta la documentazione utilizzata dal datore di lavoro avvalendosi del diritto di accesso agli atti garantito dalla Legge n. 241/1990 (applicabile alla fattispecie stante la natura dell'ente di incaricato di pubblico servizio).
Nell'affrontare la questione, la Corte di Cassazione pone al centro dell'attenzione la finalità perseguita dalla comunicazione finale di cui all'art. 4, comma 9, della Legge n. 223/1991: consentire il controllo della correttezza dell'operazione di licenziamento collettivo e la rispondenza agli accordi sindacali eventualmente raggiunti.
Trattandosi di un giudizio di fatto, la Corte chiarisce che tale valutazione compete al giudice di merito sottolineando, tuttavia, che la comunicazione deve dare conto anche dei presupposti fattuali sulla base dei quali sono stati applicati i criteri di scelta. Pertanto, la controllabilità della corretta applicazione dei criteri di scelta deve consentire anche di comprendere come sia stato calcolato il punteggio attribuito al lavoratore, fornendo conoscenza e conoscibilità degli eventuali elementi estranei al rapporto di lavoro valorizzati dal datore di lavoro.
La seconda questione, invece, attiene alle conseguenze sanzionatorie derivanti da un simile vizio del licenziamento collettivo.
A seguito della cd. riforma Fornero (Legge n. 92/2012), infatti, le conseguenze sanzionatorie si distinguono sulla base del tipo di vizio che determina l'illegittimità del licenziamento collettivo.
L'art. 5, comma 3, distingue tra la violazione delle procedure previste dalla Legge n. 223/1991 e la violazione dei criteri di scelta. Nel primo caso, infatti, resta ferma l'efficacia risolutiva del rapporto di lavoro del licenziamento ed il giudice condannerà il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Nel secondo caso, invece, il giudice annullerà il licenziamento e condannerà il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto ed al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità.
Tanto chiarito, la Corte di Cassazione con la sentenza in esame accoglie la prospettazione della Fondazione ricorrente e riconduce la carenza nei contenuti della comunicazione finale di cui all'art. 4, comma 9, della Legge n. 223/1991 nell'ambito della violazione delle procedure con conseguente applicazione della tutela dell'indennità risarcitoria.
Secondo i giudici, infatti, un'incompletezza formale della comunicazione non configura una “violazione dei criteri di scelta” che sussiste, invece, quando i criteri siano illegittimi perché in violazione di legge ovvero illegittimamente applicati perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.
Pertanto, conclude la Corte di Cassazione, poiché la sentenza di Appello si è limitata a sindacare il profilo formale attinente il contenuto della comunicazione, la Corte di Appello ha erroneamente applicato la tutela della reintegrazione in quanto, per un simile vizio della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, trova, invece, applicazione la tutela indennitaria. Osservazioni
La sentenza in esame è ricca di spunti di riflessione e riveste una particolare importanza non solo perché fa chiarezza sul regime delle tutele applicabili al lavoratore in caso di illegittimità del licenziamento collettivo, ma anche perché conferma l'orientamento già espresso in merito dalla Corte di Cassazione con la precedente sentenza n. 12095/2016.
Proprio alla luce del progressivo consolidamento dell'orientamento in questione, è utile ripercorrere il ragionamento svolto dalle sentenze della Corte di Cassazione, perché i criteri ivi esposti aiutano a tracciare i confini dell'ambito di applicazione della reintegrazione in caso di licenziamento collettivo illegittimo successivamente alla riforma dell'art. 18 della Legge n. 300/1970 operata dalla Legge n. 92/2012.
Come noto, infatti, l'attuale formulazione dell'art. 5, comma 3, Legge n. 223/1991 prevede il seguente regime sanzionatorio in caso di licenziamento collettivo illegittimo:
Tralasciando il vizio di forma scritta, nel caso in esame la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su una tipologia di vizio che rappresenta il vero e proprio confine tra i due regimi sanzionatori: l'incompletezza della comunicazione finale del procedimento di licenziamento collettivo nell'esporre le modalità di applicazione dei criteri di scelta. Proprio il carattere controverso della questione rende apprezzabile il rigore interpretativo adottato dalla Corte di Cassazione che ha tenuto distinto il profilo formale della comunicazione finale da quello sostanziale dell'applicazione dei criteri di scelta.
Così il vizio di incompletezza della comunicazione finale viene ricondotto dai giudici della Cassazione nell'alveo della tutela dell'indennità risarcitoria e non della reintegrazione proprio perché contestato sotto il profilo formale e non già sotto il profilo sostanziale che attiene invece, per dirla con le parole della Corte di Cassazione, al “merito della correttezza dei criteri di scelta applicati”.
In particolare, la sentenza in esame distingue tra il vizio relativo al contenuto della comunicazione finale che rientra comunque tra i vizi delle procedure richiamate all'art. 4, comma 12, della Legge n. 223/1991 e, pertanto, tutelato con la condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria ed il vizio di “violazione dei criteri di scelta”.
La Cassazione chiarisce che quest'ultima violazione – e la conseguente applicazione della tutela della reintegrazione – sussiste qualora il criterio di scelta sia illegittimo (ipotesi che sembra potersi configurare solo nel caso di definizione di criteri convenzionali poiché, per definizione è difficile ipotizzare che un criterio legale possa essere al contempo contra legem), ovvero qualora sia illegittima l'applicazione dei criteri medesimi perché attuati in difformità alle previsioni di legge o della contrattazione collettiva.
In questo modo la Corte di Cassazione delinea i confini dell'ambito di applicazione della reintegrazione.
Definizione che pone una questione successiva ma non meno importante: la ripartizione dell'onere della prova. Si tratta di una questione alquanto delicata e che merita qualche riflessione specialmente quando il vizio riguarda il contenuto della comunicazione finale del licenziamento collettivo.
È la stessa sentenza in esame a ricordare, infatti, che “la comunicazione di cui alla L. n. 223/1991, art. 4, comma 9, che fa obbligo di indicare "puntualmente" le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti (Cass. sez. lav., 15 giugno 2015, n. 12344)”. Emerge facilmente, quindi, l'obiezione secondo cui proprio l'omissione nel contenuto della comunicazione finale potrebbe rappresentare il mezzo per aggirare la reintegrazione poiché non mette il lavoratore nelle condizioni di poter verificare le modalità di applicazione dei criteri di scelta.
La questione, tuttavia, è facilmente risolvibile proprio alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 27165 del 23 dicembre 2009, infatti, i giudici di legittimità hanno già avuto modo di chiarire la ripartizione dell'onere della prova in caso di difetto nella comunicazione dei criteri, pronunciando la seguente massima di diritto: “In tema di licenziamento collettivo, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di allegazione dei criteri di scelta e la prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori licenziati, con indicazione, in relazione a ciascuno di questi ultimi, dello stato familiare, dell'anzianità e delle mansioni, incombe al lavoratore dimostrare l'illegittimità della scelta, con indicazione dei lavoratori in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata. Ne consegue che, ove il datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi, inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il posto di lavoro, nessun onere è ravvisabile in capo al lavoratore”.
Se, come sembra opportuno, tale principio in materia di ripartizione dell'onere della prova resta fermo, in un caso come quello affrontato dalla sentenza della Corte di Cassazione in esame, qualora il lavoratore avesse contestato non solo il contenuto della comunicazione finale ma anche nel merito le modalità di applicazione dei criteri di scelta, sarebbe gravato sul datore di lavoro il relativo onere della prova.
Per concludere, è interessante rilevare come la questione di diritto affrontata dalla sentenza in esame non si sarebbe posta qualora il lavoratore fosse stato assunto dopo il 7 marzo 2015 e, pertanto, fosse rientrato nell'ambito di applicazione della disciplina del contratto a tutele crescenti. L'art. 10 del D. Lgs. n. 23/2015 dispone, infatti, in ogni caso l'applicazione della tutela dell'indennizzo economico commisurato all'anzianità di servizio del lavoratore, riservando la reintegrazione unicamente al caso del licenziamento collettivo intimato in assenza della forma scritta. La reintegrazione diviene, quindi, residuale, mentre si estende il regime dell'indennizzo fino a travalicare il confine che la sentenza della Corte di Cassazione in esame ha tracciato per la nuova formulazione dell'art. 18 della Legge n. 300/1970.
|