Le Sezioni Unite si pronunciano sugli effetti dell’opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione

17 Febbraio 2015

Ove il lavoratore illegittimamente licenziato in regime di tutela c.d. reale – quale è quello, nella specie applicabile ratione temporis, previsto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, nel testo precedente le modifiche introdotte con la L. 28 giugno 2012, n. 92 – opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 18 cit., comma 5, il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale opzione senza che permanga, per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore, né può essere pretesa dal datore di lavoro, alcun obbligo retributivo, con la conseguenza che l'obbligo avente ad oggetto il pagamento di tale indennità è soggetto alla disciplina della mora debendi in caso di inadempimento, o ritardo nell'adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, quale prevista dall'art. 429 c.p.c., comma 3, salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore.
Massima

Ove il lavoratore illegittimamente licenziato in regime di tutela c.d. reale – quale è quello, nella specie applicabile ratione temporis, previsto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, nel testo precedente le modifiche introdotte con la L. 28 giugno 2012, n. 92 – opti per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 18 cit., comma 5, il rapporto di lavoro si estingue con la comunicazione al datore di lavoro di tale opzione senza che permanga, per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore, né può essere pretesa dal datore di lavoro, alcun obbligo retributivo, con la conseguenza che l'obbligo avente ad oggetto il pagamento di tale indennità è soggetto alla disciplina della mora debendi in caso di inadempimento, o ritardo nell'adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, quale prevista dall'art. 429 c.p.c., comma 3, salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore.

Il caso

A seguito della sentenza di condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato e a risarcirgli il danno conseguente, il dipendente esercita l'opzione per il pagamento dell'indennità sostitutiva della reintegra.

Il datore provvede al pagamento della somma circa quattordici mesi e mezzo dopo la richiesta avanzata dal lavoratore, il quale pertanto ricorre per decreto ingiuntivo chiedendo il pagamento di tutte le retribuzioni maturate e non percepite nell'intervallo di tempo intercorso tra la data di esercizio dell'opzione e quella dell'effettivo pagamento dell'indennità sostituiva della reintegra, nell'assunto che il rapporto di lavoro fosse sopravvissuto fino a tale ultimo momento.

Il Tribunale accoglie il ricorso del lavoratore e rigetta l'opposizione della società.

La posizione della società è invece condivisa dalla Corte d'Appello, la quale afferma di aderire a quell'orientamento interpretativo che ravvisa nell'esercizio dell'opzione la rinuncia da parte del lavoratore alla reintegrazione e dunque alla continuazione del rapporto, perciò venendo meno il diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate successivamente a tale momento.

Il lavoratore ricorre per cassazione, ma la Sezione lavoro, visti i contrastanti orientamenti interpretativi formatisi in merito all'interno della Corte, rimette alle sezioni unite la questione di diritto sottopostale.

Questione

La questione di diritto proposta alle Sezioni Unite della Corte di cassazione riguarda, pertanto, la definizione delle conseguenze sul rapporto di lavoro dell'esercizio da parte del lavoratore, secondo quanto disposto dalla previgente versione dell'art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300, dell'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, e ciò tanto sotto il profilo della individuazione del momento in cui il contratto si risolve, sia con riguardo alla determinazione del quantum del risarcimento spettante al lavoratore per il danno conseguente alla illegittimità del licenziamento.

Le soluzioni giuridiche

La questione è giunta ben presto all'attenzione dei giudici, stante il silenzio dell'art. 18 st. lav. in merito. L'originaria versione di tale previsione, introdotta dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, contemplava, infatti, quale unica ipotesi di estinzione del rapporto, quella in cui il lavoratore avesse inutilmente lasciato spirare il termine di trenta giorni dall'invito del datore a riprendere servizio o quello analogo per richiedere il pagamento dell'indennità a far data dalla comunicazione del deposito della sentenza, mentre nulla diceva a proposito del destino del contratto di lavoro a seguito dell'esercizio dal parte del lavoratore dell'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione.

In seno alla giurisprudenza si sono formati, pertanto, tre diversi orientamenti interpretativi, che poggiano su tre diverse ricostruzioni della natura dell'obbligo che sorge in capo al datore di lavoro a seguito della sentenza che accerta l'illegittimità del licenziamento e condanna il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno patito.

Per il primo orientamento, per lungo tempo prevalente e mai abbandonato, inaugurato – sebbene espresso in un obiter dictum - dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 81 del 4 marzo 1992, nel quinto comma dell'art. 18 sarebbe da ravvisare la previsione di un'obbligazione con facoltà alternativa da lato del creditore. La sentenza, cioè, farebbe sorgere in capo al datore di lavoro un'unica obbligazione, quella di reintegrare il lavoratore, ma questi avrebbe la facoltà di chiedere che sia eseguita una prestazione diversa, il pagamento dell'indennità, il cui adempimento comporterebbe l'estinzione del rapporto e il venir meno dell'obbligo di corrispondere un'indennità risarcitoria a compensazione del danno da licenziamento illegittimo (Cass. 5 agosto 2000, n. 10326).

Per il secondo orientamento – consacrato da una serie di sentenze pronunciate alla fine del 2009, ma avviato una decina di anni prima nel contesto di decisioni aventi ad oggetto ipotesi in cui l'opzione era stata esercitata dal lavoratore prima della pronuncia della sentenza – la disposizione ammetterebbe «una dichiarazione di volontà negoziale del lavoratore, i cui effetti limitatamente all'ammontare dell'indennità sono sottoposti al termine dell'effettivo ricevimento di essa». Il rapporto di lavoro, pertanto, si estinguerebbe con la comunicazione dell'opzione del lavoratore per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, ma l'ammontare del risarcimento sarebbe comunque da parametrare alle retribuzioni perdute fino al giorno dell'adempimento dell'obbligazione pecuniaria (Cass. 16 novembre 2009, n. 24199), in virtù del principio dell'effettività dei rimedi, che impone che la sanzione sia dissuasiva (Cass. 17 dicembre 2012, n. 15519).

Il terzo orientamento – inaugurato con molte cautele nel 2009, ripreso con maggior convinzione a partire dal 2012 e fatto proprio dalle Sezioni Unite nella sentenza in epigrafe – si contrappone con decisione alla prima, tradizionale, lettura del quinto comma, ravvisando in esso la previsione di un'obbligazione alternativa con scelta assegnata al creditore. La sentenza di condanna farebbe sorgere un'unica obbligazione con due oggetti, e il datore di lavoro sarebbe liberato prestando l'uno (la reintegrazione) o l'altro (il pagamento dell'indennità), in base alla scelta compiuta dal lavoratore. L'esercizio dell'opzione – irrevocabile – comporterebbe la “concentrazione” dell'obbligazione, che diverrebbe semplice con ad oggetto il solo pagamento dell'indennità, con la conseguenza che la reintegrazione diverrebbe inesigibile, il rapporto si estinguerebbe e non potrebbe, pertanto, configurarsi un inadempimento del datore che generi conseguenze risarcitorie.

Le Sezioni Unite compongono il contrasto giurisprudenziale a favore di quest'ultimo orientamento, così argomentando:

  1. il rapporto di lavoro si risolve con l'esercizio dell'opzione, perché la permanenza del vincolo contrattuale è incompatibile con la funzione dell'indennità sostitutiva che è da ravvisarsi nella sostituzione di «ciò che il datore di lavoro, convenuto in giudizio e soccombente sul punto, deve fare per ottemperare alla sentenza: non (…) più (…) reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato, ma (…) corrispondergli l'indennità sostitutiva». È incoerente la configurazione di un rapporto di lavoro in cui il sinallagma sia completamente paralizzato; se una volta esercitata l'opzione il datore non può più pretendere la prestazione lavorativa né il lavoratore può pretendere la controprestazione retributiva, non si giustifica la sopravvivenza del vincolo giuridico rimasto senza causa;
  2. siccome il rapporto si estingue con l'esercizio dell'opzione, viene meno il diritto del lavoratore a veder corrisposte, a titolo risarcitorio, tutte le retribuzione perse fino al pagamento dell'indennità;
  3. l'opzione interpretativa è avvalorata dall'evoluzione subita dall'indennità sostitutiva, la quale ha aggiunto alla sua originaria veste di istituto di natura “processuale” (connesso alla provvisoria esecutorietà dell'ordine di reintegrazione e volto a favorire la composizione transattiva della lite), la veste di istituto di natura “sostanziale”, avendo una parte della giurisprudenza ammesso che il lavoratore possa chiedere al giudice fin dall'inizio o in corso di giudizio la condanna al pagamento dell'indennità sostitutiva, invece che alla reintegrazione. Poiché in queste ipotesi viene meno il diritto al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute dopo l'esercizio dell'opzione, valendo quest'ultima come rinuncia alla reintegrazione, non è ragionevole che si verifichi una siffatta asimmetria nel trattamento delle due vicende.

Osservazioni

L'argomento decisivo che ha condotto le Sezioni Unite alla scelta interpretativa appena descritta è, tuttavia, rappresentato - a giudizio di chi scrive - dal senso attribuito alla riformulazione dell'art. 18, compiuta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, che - com'è noto - risolve la questione de qua, prevedendo espressamente al terzo comma, che la richiesta dell'indennità determini l'estinzione del rapporto di lavoro.
Dal discorso della Corte si deduce, infatti, che alla nuova disposizione è riconosciuta funzione di norma interpretativa, avendo essa «una valenza meramente confermativa e chiarificatrice di quanto già era previsto e ricostruibile (…) sulla base della precedente formulazione dell'art. 18». Potendo, tuttavia, esserne contestato l'effetto retroattivo, avendo essa sostituito la precedente e mancando un'espressa qualificazione della norma nel suddetto senso da parte del legislatore, la consacrazione da parte delle Sezioni Unite del corrispondente orientamento interpretativo chiude definitivamente ogni partita.

Sullo stesso provvedimento vedi anche:

Marco Giardetti, Esercizio del diritto di opzione e ritardato pagamento della relativa indennità

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