Inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. all’impresa gestita in forma societaria
17 Febbraio 2015
Massima
L'istituto dell'impresa familiare, di natura residuale rispetto ad ogni altro tipo di rapporto negoziale eventualmente configurabile, è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo. La relativa disciplina sussidiaria deve intendersi, dunque, recessiva, nel sistema delle tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Il caso
Il Tribunale di Torino - accogliendo la domanda avanza dal ricorrente nei confronti dei figli della propria sorella, soci, in qualità di accomandatario e di accomandante, di una società avente ad oggetto la gestione di un bar del quale assumeva essersi quotidianamente occupato sotto il profilo gestionale - sul presupposto della sussistenza nella compagine societaria dei requisiti dell'impresa familiare ex art. 230 bis c.c., ha condannato la socia accomandataria al pagamento in favore dell'attore di una somma di denaro a titolo di partecipazione agli utili e quale incremento di valore dell'azienda. Il ricorrente ha successivamente proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello di Torino che, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda risolvendo il contrasto giurisprudenziale esistente in materia nel senso della incompatibilità dell'impresa familiare con la forma societaria. La sezione lavoro della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stato originariamente assegnato, rilevato il contrasto giurisprudenziale sulla questione oggetto di causa, lo ha rimesso alle Sezioni Unite. La questione
La questione affrontata concerne la riconducibilità dell'impresa familiare allo schema societario e, segnatamente, il diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili del familiare che presti la propria attività lavorativa in favore di una società. Le soluzioni giuridiche
Ai sensi del primo comma dell'art. 230 bis c.c., “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”. Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, invitate a dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto in ordine all'applicabilità o meno dell'art. 230 bis c.c. in caso di impresa gestita in forma societaria, dopo aver ricondotto “le incertezze ermeneutiche” in materia alla “mancata previsione testuale, nell'art. 230 bis c.c., dell'esercizio in forma societaria di un'impresa familiare”, hanno escluso la compatibilità dell'istituto dell'impresa familiare con “la disciplina delle società di qualunque tipo”. La tesi sostenuta dal ricorrente circa la sussistenza, nella specie, dell'impresa familiare e della sua conciliabilità con la struttura societaria, avrebbe potuto trovare conforto nell'opinione elaborata dalla Corte di Cassazione, richiamata nella motivazione della pronuncia in commento, secondo cui il “coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall'art. 230 bis c.c. (al pari degli altri soggetti indicati dal terzo comma di tale articolo), anche se l'impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con i terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230 bis c.c. nei limiti della quota societaria” (Cass. civ., sez. lavoro, sent. 23 settembre 2004, n. 19116; Cass. civ., sez. lavoro, sent. 19 ottobre 2000, n. 13861). Il Supremo Collegio ha, tuttavia, opposto al predetto orientamento l'indirizzo negativo formatosi in materia di riconoscimento di un'impresa familiare nell'ambito di una famiglia di fatto: il principio di diritto secondo cui presupposto per l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 230 bis c.c. è l'esistenza di una famiglia legittima e “alla stessa non può essere equiparata la semplice convivenza né può essere estesa analogicamente la disciplina del richiamato art. 230 bis c.c. trattandosi di norma eccezionale” (Cass. civ., sez. II, sent. 29 novembre 2004, n. 220405) sarebbe, secondo la Corte, risolutivo della questione in esame dal momento che “la dizione dell'art. 230 bis c.c., incentrata sulla nozione soggettiva dei familiari dell'imprenditore (identificati entro precisi gradi di parentela ed affinità), non potrebbe applicarsi al familiare del socio, a copertura di un oggettivo vuoto di disciplina legale, se non in virtù di analogia legis”. L'inapplicabilità dell'art. 230 bis c.c. all'impresa societaria è stata altresì sostenuta dalla Corte di Cassazione, sez. lavoro, nella sentenza del 6 agosto 2003, n. 11881 ove il Collegio di legittimità - sottolineata l'insuperabilità del rilievo per cui “impresa familiare”, ai sensi del terzo comma dell'art. 230 bis c.c., “è quella in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado, e non può certo ipotizzarsi un rapporto di parentela o di affinità del lavoratore con la società” - ha rimarcato come l'eventuale riconoscimento dell'impresa familiare esercitata in forma societaria darebbe luogo alla coesistenza ”nell'ambito della medesima compagine […] di due rapporti, uno che, fondato sul contratto di società, concerne i soci, e l'altro fra il socio e i suoi familiari, prestatori di lavoro nell'impresa, derivante dal vincolo familiare o di affinità”. Coesistenza non consentita dal primo comma dell'art. 230 bis c.c. che, come evincibile dall'incipit della medesima norma, espressamente esclude l'applicabilità della disciplina dell'impresa familiare tutte le volte in cui sia configurabile un diverso rapporto. Sebbene la tesi della “natura eccezionale” non appaia convincente per le Sezioni Unite, che individuano nell'impresa familiare un istituto autonomo - “creato ex novo nell'ambito della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975 n.151) con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali” - cui riconoscere natura speciale ma non eccezionale, le Sezioni Unite hanno aderito alla “tesi dell'incompatibilità dell'impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo”. Nel comporre il pregresso contrasto giurisprudenziale, la Suprema Corte ha posto in rilievo: a) la disciplina patrimoniale riguardante la partecipazione del familiare “agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione”. Se in una società di persone è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio (art. 2262 c.c.), sebbene proporzionale ai conferimenti (art. 2263 c.c.), nella società di capitali compete al socio solo una mera aspettativa non potendo, quest'ultimo, reclamare alcun diritto sui beni acquisiti al patrimonio sociale e sugli incrementi aziendali dipendendo, la distribuzione degli utili, da una delibera assembleare o da una decisione dei soci (art. 2433 c.c. e art 2479 c.c., comma 2, n. 1); b) il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio palesemente “confliggente con le regole imperative del sottosistema societario”. Se il familiare del socio può prendere parte alle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa (adottate a maggioranza dei partecipanti all'impresa familiare), nell'ambito di una società la titolarità delle decisioni è riservata agli amministratori o ai soci, “in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale”; c) la “natura residuale” dell'istituto dell'impresa familiare, costantemente affermato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, “rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile” (art. 230 bis, comma primo, c.c.: “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”). Ne segue che, ove sussista un rapporto negoziale tipizzato, la disciplina sussidiaria dell'impresa familiare, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, deve intendersi come “recessiva” rispetto al sistema di tutele approntato. La Corte di Cassazione - ritenuta incensurabile alla luce dei superiori rilievi la pronuncia impugnata che, nel riformare la sentenza di primo grado, ha risolto in senso negativo la questione di diritto sottoposta al suo esame (incompatibilità dell'impresa familiare con la struttura societaria) - ha rigettato il ricorso e compensato tra le parti le spese di giudizio.
Osservazioni
La soluzione accolta dalle Sezioni Unite appare condivisibile alla luce della discrasia ravvisabile tra la disciplina complessiva dell'impresa familiare rispetto alla quella societaria, così come delineata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento che, a conferma della descritta impostazione, richiama il criterio ermeneutico di natura teleologica per il quale l'istituto della impresa familiare possiede carattere suppletivo rispetto ad altro e diverso rapporto giuridico. Come affermato dal Supremo Collegio, “è comune l'opinione che l'istituto dell'impresa familiare, introdotto con la riforma del diritto di famiglia (articolo 89, legge 19 maggio 1975 n. 151), in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto a ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile. Il che si evince dallo stesso incipit dell'articolo 230 bis c.c. (“salvo che sia configurabile un diverso rapporto”)”. Diversamente opinando, l'estensione della disciplina dell'impresa familiare alle società comporterebbe una coesistenza di regolamentazioni che non solo attribuirebbe al familiare, estraneo alla società, il potere di incidere sulle scelte gestionali che la legge riserva ai soci ed agli organi della stessa, ma - come chiarito dalla Corte di Cassazione nella sentenza richiamata nella pronuncia in esame - renderebbe impossibile “l'individuazione nella società del soggetto passivo dell'obbligo correlato al diritto al mantenimento del congiunto che collabora nell'impresa familiare” e “vi sarebbe una diversa regolazione della ripartizione degli utili e degli incrementi dell'azienda, dovendo per i soci essere effettuata in base alle quote sociali, mentre per il familiari, che collaborano nell'impresa, in base alla quantità e qualità del lavoro prestato” (Cass. civ., sez. lavoro, sent. 6 agosto 2003, n. 11881, cit.). Conclusione, quest'ultima, esclusa dalle Sezioni Unite che hanno ritenuto non condivisibile, pena la “destrutturazione della norma”, una applicazione “selettiva” delle regole dettate per l'impresa familiare (rectius diritto al mantenimento del familiare) con inapplicabilità, stante la descritta incompatibilità con la forma societaria dell'impresa, del restante complesso dei poteri che verrebbero “ad assumere natura accessoria ed eventuale, nell'esclusivo ambito di un'impresa individuale”. La tesi dell'incompatibilità con qualsiasi tipo di società, chiarisce il Supremo Collegio, non deve far temere la configurabilità di “un vuoto di tutela” per il “lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa)”, potendo trovare applicazione il rimedio sussidiario dell'arricchimento senza causa di cui all'art. 2041 c.c.. |