Tempi di spostamento e orario in assenza di un luogo di lavoro abituale

19 Febbraio 2016

L'art. 2, punto 1, Direttiva 2003/88/CE deve essere interpretato nel senso che, in circostanze nelle quali i lavoratori non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale, costituisce «orario di lavoro» il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio ed i luoghi in cui si trovano il primo e l'ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro.
Massima

L'articolo 2, punto 1, della

direttiva 2003/88/CE

del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che, in circostanze (…) nelle quali i lavoratori non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale, costituisce «orario di lavoro», ai sensi di tale disposizione, il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio ed i luoghi in cui si trovano il primo e l'ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro.

Il caso

Un'impresa spagnola, che svolge attività di installazione e manutenzione di sistemi di sicurezza presso clienti esterni, in virtù di una riorganizzazione aziendale chiude i propri uffici regionali assegnando tutti i dipendenti all'ufficio centrale di Madrid. Il lavoratori sono dotati di un veicolo di servizio con il quale quotidianamente si muovono dal proprio domicilio alle sedi dei clienti presso cui devono effettuare gli interventi. Alla vigilia della giornata di lavoro essi ricevono, all'uopo, una tabella di viaggio da parte del datore del lavoro, che indica gli appuntamenti con luogo ed orario.

L'impresa inizia a conteggiare l'orario di lavoro partendo dall'ora di arrivo del dipendente presso il primo cliente della giornata e cessando all'ora in cui egli si allontana dal luogo ove si trova l'ultimo cliente: considera pertanto ricompreso nella durata quotidiana del lavoro il tempo degli interventi e quello necessario agli spostamenti intermedi, mentre non computa il tempo impiegato per il trasferimento all'inizio ed alla fine della giornata, rispettivamente dal e per il proprio domicilio.

Il Giudice spagnolo ha disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'U.E. sottoponendo la questione se l'

articolo 2 della direttiva 2003/88

debba essere interpretato nel senso che i predetti lassi temporali rientrino nell' “orario di lavoro” oppure debbano essere considerati “periodi di riposo”.

La questione

La questione in esame è la seguente: per i lavoratori che non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale, debbono considerarsi orario di lavoro gli spostamenti per recarsi dal proprio domicilio al primo cliente della giornata e per tornare dall'ultimo cliente al proprio domicilio?

Le soluzioni giuridiche

La norma di riferimento è l'art. 2, punto 1 e 2 della direttiva 2003/88, che dispone:

«Ai sensi della presente direttiva si intende per:

1. "orario di lavoro": qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali;

2. "periodo di riposo": qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro».

La problematica interpretativa attiene alla individuazione del tempo da ricomprendersi nel concetto di orario di lavoro, con particolare riguardo alle ipotesi in cui il lavoratore non sia addetto al proprium della prestazione dedotta nel contratto di lavoro bensì ad un'attività correlata alla stessa, di carattere preparatorio. Sotto altro aspetto, nelle fattispecie de quibus l'attività svolta non è direttamente oggetto di prescrizioni da parte del datore di lavoro ed il lavoratore gestisce il relativo tempo con discrezionalità.

La questione viene in rilievo in svariati casi concreti e l'opzione interpretativa nell'uno o nell'altro senso comporta conseguenze rilevanti sia sulla salvaguardia dei necessari tempi di intervallo tra l'una e l'altra giornata lavorativa, sia sulla quantificazione della retribuzione (aspetto, quest'ultimo, che tuttavia rimane estraneo alla direttiva comunitaria de qua e alla decisione ora in commento).

Osservazioni

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affrontato sovente questioni interpretative afferenti alla qualificazione, come orario di lavoro, di tempi che non sono impiegati nell'esecuzione della prestazione finale.

Giova a tale proposito ricordare la problematica del computo dei tempi di vestizione e di svestizione dalla divisa, il cui utilizzo sia condizione necessaria per l'espletamento dell'attività produttiva. In tale materia è stato evidenziato, sulla scorta della decisione della

Corte di Giustizia

del

9 settembre 2003

nella causa C-151/02, come gli elementi qualificanti ai fini dell'individuazione dell'orario di lavoro consistano nell'eterodirezione da parte del datore di lavoro (che disciplina il luogo ed il tempo di esecuzione) e nel carattere obbligatorio dell'operazione di vestizione per lo svolgimento della prestazione lavorativa (Cfr.

Cass. sez. lav. 7 giugno 2012 n. 9215

).

È stata dunque sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità (

Cass. sez. lav.

15 gennaio 2014 n. 692

) l'inclusione del tempo per la vestizione della divisa nell'orario di lavoro in quanto attività da eseguirsi nell'ambito della disciplina di impresa ed autonomamente esigibile da parte del datore, il quale può rifiutare l'adempimento della prestazione finale in mancanza di esecuzione di quella preparatoria.

La distinzione tra tale tipologia di ipotesi (così come quella oggetto della summenzionata pronuncia della Corte CE nella causa C-151/02) e la fattispecie sottoposta all'esame della Corte nella pronuncia in commento consiste tuttavia nella presenza fisica, o meno, del soggetto sul luogo di lavoro.

La decisione Corte CE nella causa C-151/02 verteva, infatti, su fattispecie relativa ai medici che svolgono servizio di guardia presso l'ospedale, da considerarsi orario di lavoro effettivo anche laddove agli stessi sia consentito riposare in una stanza da letto all'uopo allestita, quando non sono richieste le loro prestazioni.

La maggiore problematicità del caso ora in esame consiste proprio nella mancata presenza fisica sul posto di lavoro e nella possibilità del dipendente di gestire tale tempo secondo la propria discrezionalità, questione tuttavia da doversi considerare in maniera strettamente connessa all'assenza di un luogo di lavoro fisso ed al carattere –viceversa- mobile di tale luogo, che varia giornalmente su indicazione del datore.

Subentra allora un diverso ed innovativo concetto di trovarsi al lavoro, nell'esercizio delle proprie attività e a disposizione del datore di lavoro, da intendersi secondo un profilo sostanziale e funzionale; ciò che rileva è lo svolgimento di un'attività strettamente connessa alla prestazione principale, elemento che consente di qualificare come espletamento delle proprie mansioni l'attività di guida verso il primo dei clienti e dall'ultimo dei clienti di una giornata. L'eterodirezione assume pertanto una valenza elastica, intesa come direttiva di risultato, affinché il lavoratore si ponga nella condizione necessaria ad adempiere alla prestazione principale.

Particolare pregnanza a tale proposito riveste il carattere variabile del luogo di lavoro, che impedisce di imputare al lavoratore le conseguenze della scelta del proprio domicilio in relazione alla sede di lavoro.

La Corte di Cassazione, nell'affrontare casi simili, ha avuto modo di individuare, come criterio discretivo dell'inclusione o meno del tempo per raggiungere il luogo di lavoro nel concetto di attività lavorativa vera e propria, la funzionalità dello stesso rispetto alla prestazione; ha precisato al predetto scopo che “sussiste il carattere di funzionalità nel caso in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta inviato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa” (

Cass. sez. lav. 22 marzo 2004 n. 5701

).

Giova tuttavia ricordare, nella materia in questione, l'orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale è escluso dall'orario di lavoro il tempo impiegato giornalmente dal lavoratore in trasferta per il raggiungimento del posto di lavoro, poiché il relativo corrispettivo risulta assorbito nel trattamento economico rappresentato dall'indennità di trasferta, avente carattere compensativo del disagio psicofisico e materiale dato dalla faticosità degli spostamenti (

Cass. sez. lav. 3 febbraio 2000 n. 1170

,

Cass. sez. lav. 3 febbraio 2000 n. 1202

,

Cass. sez. lav. 10 aprile 2001 n. 5359

,

Cass.

sez. lav. 22 marzo 2004 n.

5701

, cit.).

È opportuno, in proposito, evidenziare che, come precisato dalla decisione in commento, la

direttiva 2003/88

in linea di principio non concerne l'aspetto retributivo ma solo gli aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro.

In conclusione, la pronuncia in esame pone un importante principio nella definizione del concetto di orario di lavoro effettivo, basato -come sopra detto- su un'interpretazione sostanzialistica e sul criterio funzionale: tale definizione rileva, dal punto di vista del diritto comunitario, sotto il profilo dell'organizzazione dell'orario di lavoro, nonché della sicurezza e della salute dei lavoratori. Il riflesso della questione sull'aspetto retributivo è rimesso, viceversa, alle legislazioni nazionali e alle relative interpretazioni giurisprudenziali.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.