Licenziamento disciplinare per abuso dei permessi per assistenza disabili

18 Maggio 2016

La condotta del lavoratore che abusa dei permessi per assistenza disabili – in quanto svolge attività assistenziali soltanto per il 17,5% del tempo totale dei permessi retribuiti – assume un carattere abusivo e, pertanto, è idonea a integrare una violazione dei canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto tale da configurare una giusta causa di licenziamento.
Massima

La condotta del lavoratore che abusa dei permessi per assistenza disabili – in quanto svolge attività assistenziali soltanto per il 17,5% del tempo totale dei permessi retribuiti – assume un carattere abusivo e, pertanto, è idonea a integrare una violazione dei canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto tale da configurare una giusta causa di licenziamento.

Il caso

Il lavoratore A. S. veniva licenziato in data 13 dicembre 2012 per giusta causa, consistita nell'abuso dei permessi per assistenza disabili ex

art. 33 L.

5 febbraio 1992, n. 104

.

La condotta abusiva contestatagli dal datore di lavoro concerneva l'irrisorio utilizzo di tali permessi a fini effettivamente assistenziali, in quanto nelle giornate del 22, 26 e 28 novembre 2012, a fronte delle ventiquattro ore di permesso fruite, soltanto 4 ore e 13 minuti – pari al 17,5% del tempo totale concesso – erano stati dedicati al parente assistito.

Il dipendente impugnava davanti al Tribunale di Lanciano il recesso disciplinare intimatogli e l'iter processuale, esperendo tutti i gradi previsti dal rito Fornero in materia di licenziamenti, culminava con il ricorso del dipendente per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di L'Aquila.

La Suprema Corte rigetta il ricorso e condanna il lavoratore al pagamento delle spese di giudizio.

La questione

La controversia sottoposta all'esame della Corte di Cassazione è essenzialmente incentrata su un interrogativo: l'utilizzo dei permessi

ex art. 33 L. n. 104/1992 per fini parzialmente – e non totalmente – assistenziali configura una condotta abusiva tale da integrare una giusta causa di licenziamento?

Secondo la Suprema Corte non ci sono dubbi e, confermando la sentenza impugnata, afferma che una tale condotta manifesta “un sostanziale disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali” e costituisce “una grave violazione dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto di lavoro di cui agli

artt. 1175

e

1375 c.c.

, idonea a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro”. E non rileva il fatto che il dipendente si sia comunque recato presso l'abitazione del parente assistito, perché il comportamento adottato è risultato irregolare “sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza”, considerato che l'attività assistenziale è stata svolta per un tempo esiguo e, pertanto, avrebbe potuto essere effettuata anche compatibilmente con gli orari lavorativi.

Nel caso di specie, non viene assolutamente messo in discussione il diritto del dipendente alla concessione del beneficio (i tre giorni di permesso mensile retribuito), sussistendo effettivamente i requisiti per il suo riconoscimento. Al riguardo, è opportuno ricordare che l'

art. 24 L. 4 novembre 2010, n. 183

, ha modificato l'

art. 33 L. n. 104/92

, aggiungendo il comma 7 bis: “Ferma restando la verifica dei presupposti per l'accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore di cui al comma 3 decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l'INPS accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti”.

Ciò che la Corte di Cassazione evidenzia nella pronuncia in esame è la “condotta successiva del lavoratore […] durante il tempo della sua fruizione”. È, infatti, imprescindibile il “rispetto del canone di buona fede che presiede all'esecuzione del contratto di lavoro, come di ogni altro (

art. 1375 c.c.

)”.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento non è la prima a focalizzare l'attenzione sull'uso distorto dei permessi previsti dalla

L. n. 104/1992

: i precedenti – sia di merito che di legittimità – sono numerosi e variegati.

Basti pensare ai dipendenti che hanno usufruito dei predetti permessi per partire per le vacanze (

Cass. 4 marzo 2014, n. 4984

) o per “arrangiarsi” a modo proprio in seguito a una mancata concessione delle ferie per esigenze di servizio (

Trib. Milano 30 dicembre 2010, n. 5432

) o per svolgere un'altra prestazione lavorativa (

Corte d'Appello L'Aquila 4 luglio 2011, n. 544

;

Tribunale

Teramo 15 aprile 2015, n. 392

) o, semplicemente, per motivi di svago personale (

Cass. 30 aprile 2015, n. 8784

).

La particolarità del caso de quo consiste nel fatto che il lavoratore abbia comunque utilizzato – almeno in parte – i permessi per scopi effettivamente assistenziali (il 17,5% del monte ore concesso), ma ciò non è stato ritenuto sufficiente per escludere l'abusività del comportamento e la sua lesività.

Confermando le valutazioni della Corte d'Appello, la Cassazione sottolinea non solo l'irrisorietà della percentuale del tempo destinato all'attività di assistenza rispetto a quello totale dei permessi, ma anche le modalità temporali in cui tale attività risulta prestata, “caratterizzate da un'evidente, quanto anch'essa non contestata, irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza”.

Come già rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, “ove l'esercizio del diritto soggettivo […] presupponga un'autonomia comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento. […] Deve ritenersi verificato un abuso del diritto potestativo allorché il diritto venga esercitato, come nella specie, non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività” (

Cass. n. 4984/2014

, cit.).

È evidente come, in tali ipotesi, la condotta del lavoratore risulti fraudolenta sia nei confronti del datore di lavoro – che deve far fronte all'assenza del dipendente che usufruisce dei citati permessi e, comunque, deve provvedere anche in quelle giornate all'accantonamento per il t.f.r. – sia dell'Istituto previdenziale che eroga l'indennità.

Inoltre, anche in pronunce precedenti a quella in commento, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l'uso improprio dei permessi per l'assistenza di un parente disabile integri gli estremi per l'irrogazione della massima sanzione disciplinare “in forza del disvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario” (

Cass. n. 4984/2014

, cit.).

In ogni caso, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza tra la sanzione comminata e l'illecito commesso è rimessa al giudice di merito e “si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso” (in tal senso, vd.

Cass. 26

aprile 2012, n. 6498

).

In sintesi, “per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale” (

Cass

.

n. 4984/2014

, cit.).

Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte si riporta alle valutazioni espresse dalla Corte di merito, che ha considerato l'utilizzo dei permessi per scopi estranei a quelli per i quali sono stati concessi “oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa”.

Osservazioni

In conclusione, è interessante rilevare che nella pronuncia de qua non c'è traccia della vexata quaestio relativa alle modalità di accertamento dell'abuso da parte del datore di lavoro: si tratta di controlli occulti effettuati tramite un'agenzia investigativa?

Al riguardo, la consolidata giurisprudenza sulla c.d. prassi delle malattie diplomatiche (finalizzate allo svolgimento di altra attività lavorativa o al godimento di ferie non autorizzate) conferma che il datore di lavoro non incorre in alcuna violazione dello

Statuto dei L

avoratori

se viene casualmente a conoscenza di avvenimenti in grado di far dubitare dell'esistenza o della gravità della malattia denunciata e affida ad agenzie investigative l'incarico di accertare i fatti e di raccogliere le prove (si veda, ad esempio,

Cass. 3 maggio 2001, n. 6236

;

Cass. 14 aprile 1987, n. 3704

).

Analogamente, anche

Cass. 4984/2014

, cit., afferma la legittimità di tali controlli sulla base del fatto che “

l'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi

L. n. 104 del 1992,

ex

art. 33

,

(suscettibile di rilevanza anche penale) non ha riguardato l'adempimento della prestazione lavorativa, essendo stato effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa”.

In fondo, per la verifica dell'abuso dei permessi per l'assistenza dei disabili non sembrano sussistere valide alternative al pedinamento del lavoratore da parte di agenti investigativi: il controllo occulto si configura, pertanto, come l'extrema ratio, giustificata, a prescindere dall'entità patrimoniale del danno arrecato, da un fatto illecito talmente grave da incrinare inevitabilmente il vincolo fiduciario (sul punto, vd.

Cass. 22 novembre 2012, n. 20613

). E dalla legittimità dei controlli esercitati deriva l'utilizzabilità in giudizio delle prove in tal modo acquisite.

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