La tempestività nel licenziamento disciplinare e nel licenziamento per superamento del periodo di comporto: differenze
17 Settembre 2014
Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza, tendenzialmente incondizionata, della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa dell'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, invece, il requisito dell'immediatezza deve essere valutato caso per caso. In quest'ultima ipotesi, è onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia, da un lato, e la comunicazione del recesso, dall'altro lato, abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la pronunzia del 15 settembre 2014, n. 19400.
La fattispecie La vicenda, piuttosto articolata, trae origine dal ricorso di una lavoratrice la quale, impugnato il licenziamento intimatole nel periodo compreso tra l'inizio della gestazione ed il compimento di un anno di età del bambino, aveva ottenuto, nel novembre 2006, una declaratoria di nullità del licenziamento (tale decisione veniva poi confermata in sede di appello e, poi, passava in giudicato).
A distanza di tre giorni dalla pronuncia della sentenza di primo grado dichiarativa della nullità del recesso, la società intimava un secondo licenziamento, espressamente riferendosi, nelle relative motivazioni, all'avvenuto superamento del periodo di comporto, risalente al 2002.
All'esito dell'impugnazione di tale (secondo) licenziamento, il Tribunale accoglieva il ricorso della lavoratrice, sull'assunto che la Società, nell'avere atteso l'emanazione della sentenza di primo grado dichiarativa della nullità del primo licenziamento, aveva determinato la non tempestività del secondo, non potendosi ritenere la lavoratrice, ad avviso del Giudice di primo grado, assoggettata ad uno stato di perenne risolubilità del rapporto (avendo l'inerzia datoriale assunto, piuttosto, il carattere di una implicita rinunzia, per fatti concludenti, alla volontà di porre fine al rapporto).
La Corte di Appello di Cagliari riformava la sentenza di primo grado, argomentando, in sintesi, che:
Le motivazioni in base alle quali la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello, confermando la logicità e completezza delle motivazioni, offrono lo spunto per un breve excursus in relazione al cd. requisito di tempestività del recesso che, nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, si atteggia molto differentemente rispetto al diverso caso del licenziamento disciplinare (per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo).
I principi di diritto Come noto, la giusta causa di licenziamento (senza preavviso) ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. sussiste in presenza di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il Giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, e, dall'altro lato, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (fra le tante, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 5 agosto 2014, n. 17625).
A sua volta, il giustificato motivo soggettivo (con preavviso), sussiste in presenza di «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» (art. 3, L. 15 luglio 1966, n. 604), che, a differenza della giusta causa, non abbia il grado di gravità tale da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro.
Con riferimento alle predette ipotesi di licenziamento (cd. licenziamento disciplinare), la giurisprudenza ha da tempo affermato il principio di tempestività e, quindi, del massimo contenimento dell'intervallo temporale tra la data dei fatti che fondano il motivo disciplinare, da un lato, e licenziamento, dall'altro lato.
La ratio del principio è nota: la non immediatezza della contestazione disciplinare o del provvedimento espulsivo potrebbe indurre il lavoratore a ragionevolmente ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al provvedimento disciplinare, ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore (in questi termini, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 10 settembre 2013, n. 20719).
Peraltro, è consolidato il principio giurisprudenziale per cui, nel licenziamento disciplinare, il requisito dell'immediatezza della contestazione dell'addebito debba essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 11 settembre 2013, n. 20823).
In questo contesto, da un punto di vista di riparto dell'onere probatorio, va altresì rilevato che, secondo la giurisprudenza, il requisito della immediatezza della reazione è elemento costitutivo del recesso per giusta causa di cui all'art. 2119 cod. civ. e, come tale, deve essere verificato d'ufficio dal giudice; costituisce, invece, un'eccezione in senso stretto, soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 414, 416, 437 cod. proc. civ. rispetto all'esercizio del potere datoriale di recedere per giusta causa, la deduzione da parte del lavoratore del difetto di immediatezza della contestazione dell'addebito disciplinare quale vizio procedimentale lesivo del diritto di difesa garantito dall'art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 28 novembre 2013, n. 26655).
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto, invece, è disciplinato dall'art. 2110 cod. civ. a mente del quale, in caso di malattia, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal rapporto di lavoro a norma dell'art. 2118 cod. civ. (vale a dire con preavviso ovvero pagando al lavoratore la relativa indennità sostitutiva), decorso il periodo di conservazione del posto fissato dalla legge oppure dalla applicabile contrattazione collettiva (cd. periodo di comporto).
Anche nel licenziamento per superamento del periodo di comporto vige il principio di tempestività, ma con importanti differenze rispetto al caso di licenziamento disciplinare, rimarcate dalla giurisprudenza.
Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente, nel complesso, la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali.
Con l'importante conseguenza che, nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative del caso di specie (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 28 marzo 2011, n. 7037 aveva ritenuto il decorso del termine di circa dieci mesi dal superamento del periodo di comporto non ostativo al recesso del datore di lavoro, avvenuto quando gli eccessivi episodi di malattia del lavoratore erano divenuti tali da rendere quest'ultimo non più utilmente e convenientemente reinseribile nell'apparato produttivo).
Nella sentenza in commento, inoltre, la Corte di Cassazione ha giudicato che, pur non essendo possibile, in caso di superamento del periodo di comporto, che il rapporto rimanga in uno stato di risolubilità, costituisce onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere, in concorso con altre circostanze di fatto significative, la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.
Le conclusioni Applicando tali principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta della società non poteva costituire espressione di una volontà tacita di rinunciare alla facoltà di risolvere il rapporto, dovendosi quindi escludere, con riferimento all'intera vicenda, la dedotta intempestività e, quindi, invalidità, del secondo licenziamento, nonostante l'intervallo di tempo trascorso dalla scadenza del periodo di comporto (lo si ripete, quattro anni).
Fonti giurisprudenziali Precedenti giurisprudenziali in tema di tempestività in ipotesi di licenziamento disciplinare:
Corte di Cassazione, Sez. Lav., 28 novembre 2013, n. 26655; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 11 settembre 2013, n. 20823; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 13 dicembre 2010, n. 25136; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 8 marzo 2010, n. 5546; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 5 ottobre 2009, n. 21221.
Precedenti giurisprudenziali in tema di tempestività in ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto:
Corte di Cassazione, Sez. Lav., 21 settembre 2011, n. 19234; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 28 marzo 2011, n. 7037; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 25 novembre 2010, n. 23920; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 11 maggio 2010, n. 11342; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 23 gennaio 2008, n. 1438. |