Licenziamento intimato oltre il termine stabilito dalla contrattazione collettiva: quale sanzione?
17 Ottobre 2016
Massima
La violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 8, comma 4, del ccnl Metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla l. n. 92 del 2012. Il caso
Ad un lavoratore viene intimato il licenziamento per giusta causa oltre il termine stabilito dalla contrattazione collettiva. Il giudice di appello ritiene irrilevante la tardività dell'iniziativa datoriale in ragione della affermata natura ordinatoria del termine stesso. La Suprema corte, invece, è di diverso avviso, sull'implicito presupposto, evidentemente, della perentorietà del predetto termine. A fronte dell'illegittimità del licenziamento, la sanzione applicabile - nell'area di operatività della l. n. 92 del 2012 (c.d. “legge Fornero”) - è rinvenuta dalla S.C. nella disposizione di cui all'art. 18, comma sesto, St. lav., che prevede, in presenza di violazioni procedurali, la tutela indennitaria c.d. “debole”. La questione
La questione in esame è la seguente: l'intimazione del licenziamento avvenuta oltre il termine (perentorio) previsto dalla fonte negoziale rientra (per come sostenuto, nel caso, dalla S.C., che si è espressa per la prima volta al riguardo), o meno, tra le violazioni procedurali per le quali l'art. 18, comma sesto, St. lav., come innovato dalla “legge Fornero”, prevede la c.d. tutela indennitaria “debole” (limitata al riconoscimento, in favore del lavoratore, di una indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto)? Qualora si opti per la negativa, quale sarebbe, invece, in presenza del vizio, la sanzione applicabile? Le soluzioni giuridiche
La S.C. perviene alla conclusione che il licenziamento intimato successivamente alla scadenza del termine fissato dalla contrattazione collettiva sia espressione di violazione procedurale, sanzionata con la tutela indennitaria “debole” (la statuizione si riferisce ai vecchi assunti, cui è applicabile l'art. 18, comma sesto, St. lav., come innovato dalla legge “Fornero”; ma può valere anche in relazione ai nuovi assunti, avuto riguardo alla analoga disposizione prevista nell'art. 4 d. lgs. n. 23 del 2015). Ciò in quanto la previsione negoziale integrerebbe sul punto la procedura disciplinare di cui all'art. 7 St. lav.
La Cassazione muove, in primo luogo, dal rilievo che la contrattazione collettiva, fissando inequivocabilmente un termine per l'adozione dell'atto conclusivo del procedimento, persegua la finalità di rendere maggiormente tangibile il principio di “tempestività” (la cui violazione determina, in senso lato, l'illegittimità del licenziamento, in quanto espressione di tolleranza del datore, incompatibile con la gravità che deve connotare la giusta causa e, seppur in misura minore, il giustificato motivo soggettivo). Il che è condivisibile, con la precisazione che la “ratio” della norma collettiva, in tal caso, è piuttosto quella di contenere al minimo, onde pervenire in tempi stretti alla definizione del procedimento, la pausa di riflessione del datore.
Il passaggio successivo sembra incentrarsi sul rilevo che la tempestività del licenziamento faccia parte della procedura disciplinare stabilita dall'art. 7 St. lav.; onde è giocoforza riconoscere l'omogeneità delle conseguenze (ossia, risarcimento da sei a dodici mensilità) derivanti dalla violazione di norma procedurale stabilita pattiziamente, analoga per natura a quella di fonte legale.
Sullo sfondo vi è l'idea che il richiamo all'art. 7 St. lav. ad opera dell'art. 18, comma sesto, St. lav., non debba considerarsi limitato al solo procedimento disciplinare di concezione legale, bensì vada interpretato in maniera più ampia, sì da ricomprendere - in ossequio ai canoni di logica e ragionevolezza - anche quello di creazione negoziale nonché i profili che vanno semplicemente ad innestarsi sul procedimento di matrice statutaria.
Qualora però si ritenga - con la dottrina maggioritaria e con Cass. 6 novembre 2014, n. 23669, ove è precisato che la tempestività del licenziamento è elemento costitutivo del recesso, a differenza del requisito della immediatezza della contestazione, che rientra tra le regole procedurali - che la tardività dell'intimazione del licenziamento non costituisca violazione procedurale, allora dovrà venire in considerazione, ex art. 18, comma quinto, St. lav., la tutela indennitaria “forte” (che si risolve in una posta risarcitoria determinata tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, tenuto conto di vari criteri), correlata ai casi di ingiustificatezza non qualificata del licenziamento (per i nuovi assunti nelle medie e grandi aziende opererebbe l'art. 3, comma primo, d. lgs. n. 23 del 2015). Osservazioni
La S.C., per come sopra visto, sembra dare per certa la riconducibilità della tempestività del licenziamento ad una regola procedurale posta dall'art. 7 St. lav., ovvero a quella di taglio negoziale, che fissa un termine massimo per l'irrogazione dell'atto espulsivo, ad essa equiparabile. Detto diversamente, la tardività di origine negoziale si traduce, nella disciplina legale, nella violazione del principio di tempestività. Sennonché nell'articolo citato non è dato reperire una regola di tal fatta. L'unica suscettibile di venire in rilievo, sul punto, è quella del comma quinto, ove è previsto che “In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”. Non sembra tuttavia agevole ricavare da tale disposizione l'enunciazione del principio di tempestività del licenziamento, evincendosene per converso la regola, posta a garanzia del lavoratore, che la sanzione debba costituire un atto possibilmente meditato del datore, all'esito di una breve pausa di riflessione. In buona sostanza, la norma prevede un termine prima del quale il licenziamento non possa essere irrogato, sicché il momento conclusivo – da identificarsi con l'intimazione del licenziamento stesso - del complessivo meccanismo disciplinare non sembra entri a far parte della procedura delineata nell'art. 7 St. lav., la quale dovrebbe chiudersi, appunto, con la (individuazione e) scadenza del termine di cinque giorni (o di quello più lungo stabilito eventualmente dai contratti collettivi) dalla contestazione.
In realtà la S.C., facendo proprio il percorso argomentativo di Cass. 30 marzo 2012, n. 5116 - imperniato sull'affermazione che il termine perentorio per l'esercizio del potere disciplinare pone uno spatium deliberandi massimo fissato in una misura ben precisa perché il datore di lavoro possa valutare le eventuali giustificazioni addotte dal lavoratore incolpato - pare sovrapporre due piani che invece andrebbero tenuti distinti, ossia quello della necessaria pausa di riflessione destinata anche alla valutazione delle eventuali difese del lavoratore (cui è preordinato il citato comma 5 dell'art. 7 St. Lav.), e quello della sussistenza di un termine perentorio entro il quale il licenziamento deve invece essere intimato, pena la sua tardività.
Potrebbe certamente battersi un'altra strada, sostenendosi che la norma collettiva di riferimento abbia integrato, nel caso, la procedura di taglio legale senza divenire marcata espressione del principio di tempestività del licenziamento. In altri termini potrebbe affermarsi (avuto riguardo alla statuizione di Cass. 21 marzo 1994, n. 2663) che la norma in questione determini, semplicemente, una consumazione del potere di licenziare (od una decadenza) per effetto dell'avvenuto accoglimento delle giustificazioni del lavoratore. Sarebbe, quindi, questa, un'ipotesi di regola procedurale convenzionale integratrice di quella legale, seppur non sovrapponibile direttamente a quest'ultima. Ma, in tal modo opinando, il discorso non muterebbe, giacché l'applicazione della tutela indennitaria “debole” postula che il precetto posto dalla norma negoziale debba muoversi all'interno del perimetro disegnato dalla procedura di cui all'art. 7 St. lav. od essere almeno affine a quello tratteggiato da una previsione contenuta nella disposizione statutaria, tenuto conto del richiamo esplicito, operato dall'art. 18, comma sesto, St. lav., alla procedura di cui all'art. 7 St. lav. e non, genericamente, alla “procedura disciplinare”. E non sembra essere questo il caso, giacché la consumazione del potere di licenziare (o la decadenza) costituisce aspetto sottratto all'ambito applicativo dell'art. 7 St. lav., in quanto cronologicamente successivo all'ultima fase della procedura regolata dal predetto articolo (del resto, il licenziamento intervenuto prima dei cinque giorni dalla contestazione può essere reiterato, onde non si verifica, neppure in tale occasione, un'ipotesi di consumazione del potere). |