L’obbligo di repechage dopo il nuovo art. 2103 c.c.
25 Novembre 2016
Massima
In ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro – anche in virtù della nuova formulazione data all'art. 2103 c.c. – deve dimostrare di non aver potuto impiegare il lavoratore in mansioni diverse, anche di livello inferiore. Il caso
Il ricorrente aveva lavorato alle dipendenze della società convenuta per quasi 5 anni con mansioni di “responsabile della manutenzione” ed era poi stato licenziato in data 14 settembre 2015 per giustificato motivo oggettivo consistito nell'accorpamento delle due aree in cui si strutturava l'Ufficio Gestione Immobiliare al quale era assegnato; nel ricorso, promosso ai sensi della L. n. 92/2012 quindi con il c.d. “Rito Fornero”, il lavoratore ha dedotto non solo l'illegittimità del licenziamento per difetto del giustificato motivo oggettivo ma – e qui è la parte più rilevante della questione – il mancato assolvimento dell'obbligo di repechage considerata non solo tutta la struttura aziendale ma anche la possibilità di mansioni inferiori. L'azienda convenuta si è costituita rilevando lo stato di crisi aziendale e la necessità di riorganizzazione, con conseguente accorpamento di due distinte aree di lavoro e soppressione del posto del ricorrente; a sostengo della propria posizione, l'azienda ha prodotto i bilanci da cui è risultato (per il solo anno 2014) una perdita di esercizio superiore a 2 milioni di euro ed una proiezione in flessione del fatturato per l'anno 2015.
Il Giudice del lavoro ha tenuto conto della complessiva situazione azienda, la contrazione del fatturato e la chiusura di alcune filiali che il datore ha ritenuto improduttive, ed ha chiaramente rilevato l'impossibilità a sindacare sulle scelte datoriali in virtù del principio costituzione della libertà di iniziativa economica privata e di assunzione del rischio di impresa; tuttavia, se insindacabile è la scelta datoriale di accorpare le due distinte aree “A” e “B” del medesimo Ufficio Gestione Immobiliare, il Giudice ha dovuto comunque effettuare una comparazione tra le posizioni di lavoro esistenti in azienda al fine di verificare la fungibilità (o meno) della posizione del ricorrente con altre disponibili. In tale direzione, il Giudice ha escluso l'interscambiabilità delle posizioni del ricorrente con il suo omologo responsabile dell'altra area “B” (ovvero quella non soppressa) in quanto la prova testimoniale ha poi dimostrato che quest'ultimo avesse una serie di mansioni aggiuntive, e perfino superiori, rispetto a quelle occupate dal ricorrente: dunque, le due posizioni non erano per l'appunto fungibili.
Fino a questo punto la sentenza appare confermare la posizione dell'azienda, ma si capovolge completamente nell'analisi dell'obbligo di ripescaggio. Infatti, il Giudice ha considerato insufficienti le prove fornite dall'azienda in merito all'impossibilità di adibire diversamente il lavoratore quando, invece, è emerso che lo stesso potesse essere assegnato alle mansioni inferiori di “specialista certificazione prodotto” risultate poi ancora vacanti, come da annuncio sul sito web dell'azienda. Il mancato assolvimento dell'obbligo di repechage non comporta comunque obbligo di reintegra, conseguentemente l'azienda è stata condannata al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata in 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Le questioni
Le questioni giuridiche sottoposte al vaglio del giudice sono state essenzialmente tre:
I primi due punti sono stati scartati dal Giudice. Il terzo punto è stato oggetto di una più approfondita analisi – tale da consentire l'accoglimento del ricorso, in quanto il nuovo assetto dell'art. 2103 c.c. consente molto più agevolmente dei cambi “orizzontali” del personale ma anche la possibilità di demansionamento a fronte di crisi aziendale; in estrema sintesi, il nuovo art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro di demansionare unilateralmente il lavoratore in caso di un mutamento organizzativo aziendale reale (o gli altri casi previsti dal CCNL applicato) al fine di scongiurare il licenziamento del dipendente, divenuto inevitabile a seguito della soppressione del posto di lavoro. Essendo consentito il demansionamento unilaterale, in tali situazioni, il datore di lavoro (come già affermato da una parte della giurisprudenza) deve svolgere un'indagine ricognitiva non solo sulle posizioni di lavoro equivalenti ma anche, ed è qui la peculiarità, su quelle inferiori. Le soluzioni giuridiche
Dunque, il nuovo art. 2103 c.c. stabilisce che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, la novità, come visto, consiste nell'eliminazione di ogni riferimento al concetto di “equivalenza delle mansioni”, in quanto al suo posto viene inserito soltanto il limite del “livello e categoria legale di inquadramento”, (evidente è il riferimento all'art. 2095 c.c.).
Si riconosce, in tal modo, al datore un più ampio e flessibile potere di ius variandi essendo superata la tematica, di derivazione giurisprudenziale, relativa alle mansioni equivalenti: questo significa che il lavoratore – nell'ambito del medesimo livello di inquadramento – può esser liberamente collocato dal datore, secondo le insindacabili ragioni tecniche, organizzative e produttive dello stesso. Ma la decisione del Giudice del lavoro di Torino si basa essenzialmente sul co. 2 dell'art. 2103 c.c., che ha introdotto la possibilità per il datore, a determinate condizioni, di adibire il lavoratore, a mansioni inferiori, cioè a mansioni riferibili al livello d'inquadramento inferiore purché rientranti nella stessa categoria legale di inquadramento.
L'eventualità che può determinare una tale novità è esclusivamente quella che l'art. 3, D.Lgs n. 81/2015 ha definito come “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, nella misura in cui gli stessi incidano sulla posizione del lavoratore. Il datore può, quindi, liberamente decidere di modificare, anche senza la mediazione sindacale, la propria attività produttiva e/o la propria organizzazione del lavoro, assegnando al prestatore, sulla cui posizione lavorativa incida direttamente questa modifica aziendale, mansioni rientranti in un livello contrattuale più basso ma appartenenti alla medesima categoria legale (es: nel caso di soppressione del posto di lavoro a seguito dell'introduzione di procedure di razionalizzazione o di esternalizzazione di parte dell'attività). Osservazioni
L'analisi di fondo si racchiude, appunto, in questa possibilità del datore di lavoro di decidere – unilateralmente e in piena legittimità – di assegnare al lavoratore mansioni inferiori (pur mantenendo allo stesso il medesimo livello retributivo) e mantenere i livelli occupazionali raggiunti; a questa nuova facoltà del datore fa da contraltare un interpretazione estensiva dell'obbligo di repechage che – negli anni – parte della giurisprudenza aveva già iniziato a considerare fattibile ovvero la necessità di verificare non solo la presenza di mansioni equivalenti ma anche inferiori o un orario di lavoro ridotto.
Se l'interesse del datore di lavoro, infatti, è una riduzione dei costi, lo stesso può validamente proporre al lavoratore una riduzione dell'orario di lavoro oppure concordare – in una delle sedi protette – una riduzione dello stipendio, in deroga al concetto di irriducibilità della retribuzione; in alternativa, e quale unica soluzione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore può individuare mansioni inferiori: tuttavia, anche questa seconda scelta deve conciliarsi con le sue esigenze aziendali in quanto se tale strada è teoricamente percorribile, ma poi oggettivamente contraria all'interesse del datore (inidoneità alla mansione, costi eccessivi per una nuova formazione, distanza del luogo di lavoro, ecc.) lo stesso potrebbe ritenersi esonerato da tale ricerca verso il basso.
L'obbligo di repechage non si trasforma poi in un diritto del lavoratore ad essere assegnato a mansioni inferiori, ma è unicamente un criterio aggiuntivo di comparazione degli interessi datoriali al licenziamento rispetto a quelli del lavoratore di vedersi utilmente collocato in altra posizione di lavoro. |