Inidoneità di affermazioni rese dalla parte nel processo a costituire giusta causa di licenziamento. scriminante ex art. 51 c.p.

Marco Giardetti
13 Febbraio 2015

Non costituisce illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598 comma 1 c.p., avente valenza generale nell'ordinamento - attribuire al proprio datore di lavoro in uno scritto difensivo atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive, soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c. (nella specie, un dipendente, difendendosi in un giudizio contro un terzo, riferiva espressioni offensive al proprio datore di lavoro, il quale non era parte in causa; la Corte ha escluso la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore)
Massima

Non costituisce illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598 comma 1 c.p., avente valenza generale nell'ordinamento - attribuire al proprio datore di lavoro in uno scritto difensivo atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive, soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c. (nella specie, un dipendente, difendendosi in un giudizio contro un terzo, riferiva espressioni offensive al proprio datore di lavoro, il quale non era parte in causa; la Corte ha escluso la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore)

Il caso

Il lavoratore veniva licenziato per aver emesso un assegno bancario su un conto corrente chiuso e per aver espresso opinioni offensive sul proprio datore in un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione nei confronti di un terzo soggetto.

Il datore di lavoro, venuto a conoscenza delle espressioni offensive rivoltegli, licenziava per giusta causa il lavoratore aggressivo, adducendo che quelle stesse espressioni avevano danneggiato la reputazione aziendale, ledendo irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra il datore di lavoro ed il lavoratore.

Sia in primo che in secondo grado venivano accolte le ragioni dell'azienda e quindi ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato dal datore.

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, articolando quattro motivi, sulla scorta dei quali ha chiesto la cassazione dell'impugnato provvedimento.

La società resisteva con controricorso proponendo controricorso incidentale condizionato ed articolando al riguardo un unico motivo.

Arrivati in Cassazione, la Suprema Corte in parziale accoglimento del terzo e del quarto motivo di ricorso, riformava la sentenza della Corte di Appello, affermando il principio di diritto che segue: " "Non costituisce illecito disciplinare nè fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598 c.p., comma 1, avente valenza generale nell'ordinamento - attribuire

al proprio datore di lavoro in uno scritto difensivo atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorchè tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c.)".

Pertanto la Corte di Cassazione non ha ritenuto che la condotta del lavoratore costituisca un illecito disciplinare né una causa di danno ingiusto e, di conseguenza, non ha ritenuto sussistere la giusta causa di licenziamento

La questione

La questione in esame è la seguente: può configurarsi una giusta causa di licenziamento nell'utilizzo da parte di un lavoratore in un atto giudiziario di affermazioni offensive e sconvenienti nei confronti del proprio datore di lavoro?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza della Suprema Corte qui in commento si pone nel solco del prevalente orientamento di legittimità in virtù del quale non configurano giusta causa di licenziamento le affermazioni offensive per l'azienda contenute in una memoria depositata dal difensore del lavoratore in una causa avente ad oggetto il rapporto di lavoro.

Ed infatti, secondo la Cassazione la memoria difensiva è atto riferibile alla difesa tecnica e quindi innanzi tutto al difensore, ancorché risulti sottoscritta anche dalla stessa parte personalmente. L'eventuale presenza in essa di frasi sconvenienti o offensive trova la sua disciplina nell'art. 89 c.p.c., che prevede che il giudice, in ogni stato dell'istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardino l'oggetto della causa.

È rilevante altresì nella fattispecie l'art. 598 c.p. che prevede che non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'Autorità amministrativa. L'esimente di cui all'art. 598 c.p., costituisce applicazione estensiva del più generale principio posto dall'art. 51 c.p. (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) ed è applicabile anche alle offese contenute nell'atto di citazione, sempre che le stesse riguardino l'oggetto della causa in modo diretto ed immediato.

Nel caso di specie il particolare è nel fatto che le espressioni ritenute offensive erano contenute in un atto giudiziario che non vedeva come controparte il datore di lavoro. Tuttavia la Cassazione è rimasta "fedele" al proprio orientamento ed ha precisato alcuni elementi fondamentali.

Anzitutto il vero fulcro della scriminante di cui all'art. 51 c.p. (secondo cui, come noto, l'esercizio di un diritto esclude la punibilità del fatto) è che le espressioni offensive contenute nell'atto giudiziario siano strettamente pertinenti all'oggetto della causa, non rilevando il fatto che questa sia o non sia contro il datore di lavoro.

Pertanto la scriminante varrà sempre in quanto, in buona sostanza, quando le offese rivolte sono contenute in uno scritto difensivo e concernano direttamente l'oggetto della causa, esse non sono punibili poiché rappresentano uno strumento per l'esercizio del diritto di difesa.

Secondo la Corte, invece, lo strumento sanzionatorio applicabile è di natura eminentemente processuale senza poter avere alcun riflesso sul rapporto di lavoro. In particolare si ammette la possibilità si sanzionare le espressioni offensive ai sensi dell'art. 89 c.p.c. che prevede la possibilità che il giudice ordini la cancellazione delle medesime, con diritto al risarcimento del danno per la parte offesa.

Altro punto e profilo toccato dalla sentenza è il danno reputazionale subito dalla Società. Ed infatti in linea teorica la sussistenza di una scriminante quale quella dell'art. 51 c.p. non esclude che l'azienda possa comunque subire un danno di immagine dalle parole proferite in un atto giudiziario, sebbene come visto nell'esercizio di un diritto.

Ebbene, secondo la Corte il danno all'immagine della società può sussistere solo quando l'atto lesivo, che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell'ente, sia immediatamente percepibile dalla collettività o dai terzi, cosa che non è avvenuta nel caso trattato dalla sentenza in commento.

Altro elemento non di poco conto sottolineato dalla Corte di Cassazione e che potrebbe avere riflessi nell'attualità degli ultimi mesi (si pensi al paventato licenziamento di una dipendente di un noto colosso industriale che aveva espresso frasi non positive sul datore tramite social networks), l'aver sottolineato come in linea di principio le condotte del lavoratore al di fuori della propria vita lavorativa non sono di per sé idonee potenzialmente a pregiudicare il datore di lavoro. Pertanto qualora dedotte dal datore di lavoro, andranno sempre corredate da elementi di fatto che dimostrino la potenzialità lesiva della condotta al fine di poter assurgere a valido motivo di licenziamento.

Osservazioni

Secondo la Suprema Corte di Cassazione quindi sarà pienamente ammissibile che, per il nostro ordinamento, non costituisca illecito disciplinare, né fattispecie che potrebbe giustificare un risarcimento per danno ingiusto, l'attribuire al proprio datore di lavoro – in uno scritto difensivo di carattere processuale – atti o fatti non corrispondenti al vero e/o con espressioni sconvenienti e offensive, purché concernenti in modo diretto l'oggetto della causa.

Da un punto di vista pratico ciò vorrà dire che il datore di lavoro non potrà adottare provvedimenti disciplinari (e, a maggior ragione, il licenziamento) nei confronti di un proprio dipendente solo perché questi, in una causa, abbia dichiarato delle falsità nei suoi confronti o si sia rivolto a questi in modo offensivo.

Tale condotta, infatti, è espressamente “giustificata” dalla legge e non può essere oggetto di contestazioni neanche sul piano disciplinare. Né può valere come presupposto per chiedere il risarcimento del danno nei confronti del lavoratore. E ciò vale anche se i fatti o i comportamenti attribuiti al datore di lavoro sono descritti con espressioni sconvenienti ed offensive.

Tuttavia si assiste ad un paradosso.

Ed infatti se da un lato la Corte sostiene l'irrilevanza ai fini disciplinari di una tale condotta, dall'altro la ritiene foriera di un danno reputazionale qualora lo stesso sia provato e sia comunque percepibile all'esterno. In buona sostanza il datore potrebbe chiedere il risarcimento del danno al proprio dipendente ma non licenziarlo essendo da tale ultimo punto di vista scriminato dall'art. 51 c.p.

Tale circostanza ad avviso dello scrivente permetterebbe di superare l'ostacolo della scriminante di cui all'art. 51 c.p. ogniqualvolta il datore di lavoro riesca a provare che dalle parole "offensive e sconvenienti" (non punibili o sanzionabili disciplinarmente in se) del lavoratore in un processo, sia derivato un danno all'azienda, ad esempio all'esito di una sentenza (che, come noto, è pubblica) nella quale siano contenute tali espressioni. In tal caso pertanto il datore potrà contestare disciplinarmente al dipendente non l'utilizzo di tali parole, ma il danno che dalle stesse è derivato all'azienda.

Sulla stessa pronuncia vedi anche

Franco R. Boccia, Licenziamento disciplinare del lavoratore per espressioni non vere contenute in uno scritto difensivo

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