Rilevabilità officiosa della nullità del licenziamento: la Cassazione ci ripensa
19 Maggio 2017
Massima
La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnare l'atto espulsivo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione in giudizio, che resta circoscritta all'atto e non è idonea a estendere l'oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all'azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati.
Ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione dell'articolo 18, comma 7, L. n. 300/1970, come modificato dalla L. n. 92/2012, e dell'art. 4, D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui fanno riferimento alla applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, quindi affetto da nullità, “sulla base della domanda formulata dal lavoratore". Il caso
Ad un dirigente della asl viene intimato un licenziamento nullo, in quanto proveniente da organo diverso dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari (nel caso non individuato).
La tardiva deduzione della nullità nelle note conclusive del giudizio di primo grado è ritenuta ininfluente dal giudice di Appello, sul presupposto della rilevabilità officiosa del vizio in conformità ad un orientamento affermatosi in ambito civilistico con riguardo alla nullità contrattuale (cfr. Cass. civ., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242).
La S.C. - discostandosi da un proprio precedente in materia di sanzioni disciplinari (sul quale v. infra) - si mostra di diverso avviso, pervenendo, all'esito di un percorso argomentativo articolato, ad un giudizio di incompatibilità, ex art. 1324 c.c., della disciplina della nullità contrattuale con quella del licenziamento nullo. La questione
La questione in esame è la seguente: la nullità del licenziamento (negozio giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale) è rilevabile di ufficio dal giudice al pari della nullità contrattuale o, attesa l'incompatibilità di cui all'art. 1324 c.c., richiede specifica deduzione da parte del lavoratore che agisce in giudizio? Le soluzioni giuridiche
La S.C. giunge alla conclusione che la nullità del licenziamento (qualunque ne sia la causa) debba essere, in adesione ad un tradizionale nonché consolidato orientamento (di cui è espressione, ad esempio, Cass. sez. lav., 3 luglio 2015, n. 13673), appositamente dedotta dal lavoratore, essendo precluso al giudice l'esercizio del potere di rilevazione officiosa - sancita in materia di nullità contrattuale dalla citata Cass. civ., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242 - del vizio risultante comunque dagli atti.
Ciò sul centrale rilievo che la disciplina della nullità del licenziamento è caratterizzata, per come emerge dall'esame di varie disposizioni, da specialità rispetto a quella generale, nel caso non sovrapponibile per incompatibilità ex art. 1324 c.c. (recante "Norme applicabili agli atti unilaterali", ove è previsto che "Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale").
La Cassazione muove dal rilievo che il regime “speciale” della nullità del licenziamento si rinviene principalmente nell'art. 6, L. 15 luglio 1966, n. 604, ove è previsto un termine di decadenza per l'impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso nonché un ulteriore termine perentorio per l'esercizio dell'azione in giudizio ad opera del lavoratore (onde il ricorso alla nullità di diritto comune non potrebbe costituire valido strumento per aggirare l'eventuale ostacolo determinato dalle decadenze già verificatesi).
Peraltro sarebbe tutto l'impianto normativo recente in tema di licenziamento a confermare la validità della tesi della non rilevabilità officiosa dei profili di nullità non dedotti dalla parte, giacché, in un sistema processuale fondato sul principio della domanda e sul conseguente divieto di ultrapetizione, non si giustificherebbe diversamente la disposizione di cui all'articolo 18, comma 7, L. n. 300/1970 (sulla cui falsariga è formulata quella, valevole per i nuovi assunti, di cui all'art. 4, D.Lgs. n. 23/2015), ove è previsto che "Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore", il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie (produttive di nullità), "trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo".
Il passaggio finale é incentrato sul rilievo che la rilevabilità officiosa della nullità è assoggettata alla condizione - enunciata dalla più volte menzionata sentenza delle Sezioni Unite - che l'azione incida sul rapporto ed abbia ad oggetto diritti autodeterminati. Mentre, nel caso della nullità del licenziamento, la condizione in questione farebbe difetto, poiché l'azione di impugnativa resta circoscritta all'atto e non può essere equiparata all'azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati, “attesa la molteplicità dei profili di nullità, annullabilità e inefficacia che possono incidere sulla validità in senso lato del recesso e che implicano la deduzione e la allegazione di circostanze di fatto che, per le peculiarità proprie del rito, devono entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo”.
L'orientamento contrapposto, superato consapevolmente dalla sentenza in commento, trova invece la sua unica espressione in Cass. sez. lav., 28 agosto 2015, n. 17286, ove è affermato che “la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione - sia quello generale di cui all'art. 7 St. lav., sia quello specifico previsto per gli autoferrotranvieri dall'art. 53, R.D. n. 148/1931, all. A (nella specie, l'omessa pronuncia da parte del Consiglio di disciplina) - rientra tra quelle cd. di protezione poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, sicché è rilevabile d'ufficio”.
In quest'ultima pronuncia, peraltro, non vi è evidenziazione del percorso argomentativo di sostegno al giudizio di compatibilità della nullità contrattuale con quella del licenziamento; sicché non è chiaro se il giudizio in questione sia stato dato per implicito (ove reputato necessario), oppure sia stato semplicemente omesso sul presupposto che solo quello di incompatibilità vada formulato per negare l'applicabilità della disciplina generale del contratto agli atti unilaterali. Osservazioni
La S.C., nel caso, ha opportunamente optato per la diretta revisione dell'orientamento scolpito in un unico precedente, senza investire le Sezioni Unite, al cui cospetto potrà, eventualmente, tornare la questione qualora decisa, in futuro, in senso conforme al predetto orientamento.
La metodologia è in linea con la condivisibile idea che la composizione più autorevole della Corte debba scendere in campo solo in presenza di contrasti significativi, e tale non può essere quello originato da due sole pronunzie (compresa quella che il contrasto crea), intervenute a ridosso di una novità introdotta per via giurisprudenziale (in realtà merita pure di essere segnalata una ulteriore pronuncia - Cass. sez. lav., 15 febbraio 1996, n. 1173 - ove è affermato che “quando è proposta una azione di nullità il giudice può rilevare di ufficio una causa di invalidità diversa da quella dedotta come causa petendi solo nelle azioni contrattuali”; tuttavia la statuizione, secca e priva di riferimenti argomentativi, non pare utilmente valutabile quale precedente).
Sul piano della elaborazione giuridica degli istituti, la sentenza è tra le pochissime, a far data dalla nascita del codice, ad aver affrontato, in concreto, il tema, di matrice strettamente civilistica, dell'applicabilità della disciplina dei contratti ai negozi unilaterali nei limiti della compatibilità (fin qui oggetto di verifiche vertenti, per come si apprende dai repertori, sulla disciplina dell'interpretazione del negozio).
Nel merito, le conclusioni cui la S.C. giunge recuperano un orientamento di lunga tradizione, imperniato sulla necessità della deduzione del vizio da parte del lavoratore licenziato, nel rispetto di note regole processuali del rito del lavoro, di accentuata rigidità onde favorire la speditezza del processo; la quale, per converso, verrebbe in buona parte compromessa ove la rilevazione della nullità da parte del giudice rimettesse in corsa le parti nella predisposizione di nuove deduzioni e richieste istruttorie (determinando la rilevazione, inevitabilmente, una sorta di riapertura del processo).
Le argomentazioni della Corte fanno perno su due principi portanti, in cui vengono simultaneamente in gioco entrambi i profili che mettono fuori gioco l'applicabilità della disciplina dettata in materia di contratti alla nullità del licenziamento, ossia la sussistenza di “diverse disposizioni” e l'incompatibilità dovuta alla natura dell'atto.
Il primo principio attiene alla specialità della disciplina della invalidità del licenziamento desumibile dall'esistenza di un doppio termine di decadenza per far valere ogni sorta di vizio dell'atto espulsivo. Tuttavia il profilo preclusivo determinato dalla decadenza potrebbe, nel caso, forse provare troppo, giacché esso è comune anche all'impugnativa della nullità del contratto a termine, rispetto al quale sembra possa operare, in difetto di un atto qualificabile come licenziamento, il rilievo officioso della nullità (a seguito del quale il convenuto potrà, nella prima difesa utile, eccepire la decadenza).
Anche il richiamo alle disposizioni contenute nell'articolo 18 St. lav. e nell'art. 4, D.Lgs. n. 23/2015, che fanno riferimento alla “domanda formulata dal lavoratore” potrebbe non essere decisivo ai fini del giudizio, giacché le disposizioni in questione contemplano solo il licenziamento discriminatorio, ma non le altre ipotesi di nullità; ed in ogni caso la “rilevazione officiosa” non è sostitutiva della domanda del lavoratore, ma ha una funzione propulsiva, in quanto, una volta evidenziata la questione, starà al lavoratore medesimo introdurre il nuovo motivo oppure no.
Il secondo principio concerne l'oggetto dell'azione di impugnativa, individuato nell'atto e non nel rapporto (di cui accertare la non persistenza); sicché la domanda non può essere equiparata, attesa la varietà dei profili di invalidità da cui il recesso può essere affetto, a quella di accertamento di diritti “autodeterminati”, solo rispetto ai quali si profilerebbe legittima la rilevazione officiosa della nullità.
Tale ultima argomentazione ha una indubbia forza persuasiva, giacché nello schema dell'azione di nullità contrattuale è implicito il richiamo ad un unico fatto costitutivo, facendosi valere la non esistenza del rapporto fondamentale, mentre in quella di impugnativa del licenziamento si verifica il fenomeno contrario, ossia si mira al riconoscimento della persistenza del rapporto quale effetto della nullità del licenziamento stesso.
La nullità in questione, per come evidenziato nella sentenza in commento, è suscettibile di essere originata da più fatti, da individuarsi necessariamente fin dall'origine da chi agisce in giudizio, anche in ragione dei vincoli stringenti posti dal rito (il rischio che, così opinando, il lavoratore, soccombente in giudizio in relazione ad un dedotto vizio di nullità, possa agire nuovamente per farne valere uno diverso, pare scongiurabile, in tempi attuali, per via del principio della non frazionabilità delle domande e del divieto di abuso dello strumento processuale).
Sullo sfondo rimane tuttavia l'obiezione della potenziale equiparabilità dell'azione di impugnativa del licenziamento nullo a quella di nullità - suscettibile di essere rilevata di ufficio - del negozio bilaterale risolutorio.
Si tratta pertanto di verificare, attesa la complessità del tema, come si consoliderà, in futuro, la giurisprudenza.
Per ulteriori riferimenti sulla problematica sopra esposta sia consentito il rinvio a L. Di Paola, Rilevanza dei motivi del licenziamento e sindacato giudiziale con riguardo ai vizi sostanziali, ne “Il licenziamento - Dalla Legge Fornero al Jobs Act”, a cura di L. Di Paola, Giuffré, 2016, 349 ss. |