Raggiungimento dei requisiti pensionistici: recesso ad nutum o licenziamento?
19 Giugno 2015
Massima
La risoluzione datoriale del rapporto di lavoro a causa del raggiungimento dei limiti massimi d'anzianità lavorativa, effettuata prima del compimento dei sessantacinque anni del dipendente, ma destinata ad operare al momento di tale evento e non seguita da allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro, non costituisce licenziamento bensì un semplice atto risolutivo non sottoposto alla medesima normativa del licenziamento, sicché non si configura il diritto del lavoratore all'indennità di preavviso laddove il preavviso è lavorato. Il caso
La presente controversia trae origine dalla pronuncia della Corte d'Appello di Milano, con cui era stato affermato l'obbligo della Società di pagare l'indennità sostitutiva del preavviso in favore del lavoratore licenziato per raggiungimento dei requisiti pensionistici, in quanto, a detta della Corte di merito, risultava pacifico che la lettera di recesso inviata dalla Società, con la quale si dava atto della cessazione del rapporto per il raggiunto limite di età anagrafica, fosse stata comunicata all'interessato prima dell'effettivo compimento della richiamata età, e che pertanto non rilevasse in alcun modo la circostanza che, a seguito della predetta comunicazione, il lavoratore fosse stato posto in condizione di svolgere il “preavviso lavorato”, in quanto il recesso si sarebbe perfezionato ad ogni effetto – e quindi, anche ai fini del preavviso – solo dopo il compimento dell'età richiesta fissata dalla legge per la libera recedibilità.
Più nello specifico, la Corte d'Appello di Milano evidenziava di condividere la sentenza di primo grado laddove essa aveva escluso l'illegittimità del licenziamento per assenza di giusta causa e/o giustificato motivo, trattandosi nella specie di un recesso ad nutum. Tuttavia, sia il Tribunale che la Corte d'Appello erano concordi nel ritenere che la recedibilità ad nutum operasse solo al momento dell'effettivo compimento dell'età pensionabile o del sessantacinquesimo anno di età. A ciò conseguirebbe, secondo la Corte d'Appello, che solo allo scadere dell'età prevista dalla legge per l'esercizio del recesso ad nutum si possa far decorrere ogni effetto legato al medesimo e, quindi, anche al preavviso. Nel caso in esame, a fronte del mancato rispetto di tale principio da parte della Società, la stessa veniva condannata al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso in favore del lavoratore. La questione
La questione sottoposta all'attenzione della Suprema Corte trae origine dall'invocata violazione e falsa applicazione della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 4 e del D.L. 22 dicembre 1981, n. 791, art. 6 convertito dalla L. 26 febbraio 1982, n. 54.
Veniva sostenuto in atti come la Corte di Appello di Milano, “pur avendo correttamente affermato la legittimità della comunicazione del recesso con efficacia posticipata al raggiungimento dei requisiti anagrafici e contributivi per il pensionamento, tuttavia senza dare il dovuto rilievo alla ratio della disciplina dettata dalle disposizioni suindicate, non ha considerato che dalla anzidetta legittimità deriva che nulla osta alla fruizione del preavviso, da parte del lavoratore, nel periodo intercorrente tra la comunicazione e l'effettiva risoluzione del rapporto”. La Corte rilevava però come la risoluzione datoriale del rapporto di lavoro a causa del raggiungimento dei limiti massimi d'anzianità lavorativa, effettuata prima del compimento dei sessantacinque anni del dipendente, ma destinata ad operare al momento di tale evento e non seguita da allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro non costituisce licenziamento, difettandone il presupposto della volontà di interrompere un rapporto in corso, bensì un semplice atto risolutivo, che, se conforme alla contrattazione collettiva e se non contestato dal destinatario con riguardo alla sua legittimità, non è sottoposto alla medesima normativa del licenziamento, sicché non si configura il diritto del lavoratore all'indennità di preavviso, tanto più che, in tale ipotesi, il preavviso è lavorato (Cass. 29 novembre 2004, n. 22427; Cass. 20 febbraio 2013, n. 4187). Del resto, l'art. 2118, secondo comma, cod. civ. prevede l'obbligo del datore di corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva del preavviso in ogni caso di licenziamento individuale che non sia preceduto da periodo di preavviso lavorato (Cass. 21 gennaio 2014, n. 1148).
In altri termini, l'inizio del regime di recedibilità ad nutum del rapporto di lavoro, contemporaneo alla fine del regime di recedibilità causale, attribuisce al datore di lavoro il potere di far cessare immediatamente il rapporto, purché (e salva l'ipotesi di giusta causa ex art. 2119 cod. civ.) il lavoratore abbia avuto la possibilità di giovarsi del periodo di preavviso grazie ad una tempestiva intimazione del licenziamento, valida anche se resa già in regime di recedibilità causale, sicché è legittimo un c.d. licenziamento che, sebbene intimato in regime di recedibilità causale, sia destinato a produrre effetto solo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età del lavoratore e, quindi, in coincidenza del subentrare del regime di recedibilità ad nutum (così Cass. 16 maggio 1995, n. 5356; conf. Cass. 28 novembre 2007, n. 24722). In altre parole, la Società ricorrente sosteneva che la Corte d'Appello avrebbe dovuto correttamente applicare i principi enunciati dalla Suprema Corte con la decisione 16 maggio 1995, n. 5356 e, in ragione di quanto detto, avrebbe dovuto considerare che al fine di proteggere adeguatamente il lavoratore “ciò che conta è che la risoluzione del rapporto per raggiunti limiti di età divenga efficace dopo il godimento del periodo di preavviso, non il momento in cui il datore di lavoro comunica la più o meno prossima data di risoluzione del rapporto. Solo se il preavviso non viene goduto allora il datore di lavoro è tenuto a corrispondere la relativa indennità sostitutiva, mentre non ha alcun rilievo che la comunicazione sia stata fatta quando ancora era vigente il regime di recedibilità causale”. Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza commentata la Suprema Corte di Cassazione è stata in grado di rielaborare principi noti e conformati da precedenti pronunce, per giungere infine a conclusioni affatto scontate. Il tema sottoposto all'attenzione della Suprema Corte ha peraltro valenza sia sotto un profilo squisitamente giuslavoristico che sociale.
La Corte di Cassazione ha, come detto, precisato che la comunicazione di risoluzione del rapporto intimata a causa del raggiungimento dei limiti massimi di anzianità lavorativa, prima che il lavoratore abbia effettivamente compiuto i sessantacinque anni di età e destinata ad operare al verificarsi di tale evento, non è soggetta alla normativa applicabile ai licenziamenti. In simili casi quindi il dipendente non potrebbe vantare il diritto all'indennità di preavviso, tanto più se il relativo periodo sia stato in concreto lavorato. Tali conclusioni giungono sulla base dei seguenti presupposti.
In primo luogo, la Corte d'Appello di Milano aveva ribadito come nel rapporto di lavoro subordinato privato “la tipicità e tassatività delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici”. Tale principio risulterebbe indirettamente sancito dall'art. 4, comma 2 della legge 1 maggio 1990 n. 108, secondo cui il compimento dell'età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per la effettiva attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore determinano la recedibilità ad nutum dal rapporto di lavoro e la sottrazione del regime di stabilità, non certo l'automatica estinzione del rapporto di lavoro. Fermo quanto sopra, restando nell'alveo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro sarebbe imposto comunque l'obbligo di preavviso. Ne conseguirebbe che, allorché il lavoratore abbia esercitato il diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, “si è formato l'orientamento giurisprudenziale che la Corte milanese ha seguito - considerandolo maggioritario - al fine di condannare la società al pagamento, in favore del lavoratore, dell'indennità sostitutiva del preavviso”, essendo pacifico che la lettera di recesso, con la quale si è dato atto della cessazione del rapporto per il raggiunto limite di età anagrafica è stata comunicata all'interessato prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età, a nulla rileverebbe che il dipendente sarebbe stato messo in cognizione di svolgere il "preavviso lavorato", in quanto gli effetti del recesso si sarebbero comunque prodotti dopo il compimento dell'età richiesta per la libera recedibilità. Da ciò conseguirebbe che soltanto allo scadere dell'età prevista dalla legge per la libera recedibilità si sarebbe potuto far decorrere ogni effetto legato al recesso, ivi compreso il preavviso.
La Suprema Corte, in contrasto con quanto sostenuto dalla decisione della Corte d'Appello di Milano impugnata, ha invero ritenuto che la fattispecie sottoposta all'attenzione del Giudice fosse pacificamente diversa da quella richiamata dalla sentenza cassata, in quanto non ricorre nel caso concreto “la suindicata ipotesi dell'opzione […] mentre si deve fare applicazione di altri orientamenti di questa Corte, da tempo consolidati e condivisi dal Collegio, formatisi con riguardo a fattispecie analoghe a quella di cui si tratta”. In particolare la Suprema Corte richiama i seguenti principi a fondamento della decisione:
Su tali presupposti la Suprema Corte ha quindi cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha escluso nel caso di specie un diritto all'indennità di mancato preavviso in capo al lavoratore. Osservazioni
La Sentenza in commento ha indubbiamente il pregio di affrontare il tema del preavviso nell'ambito del recesso ad nutum con un taglio innovativo, seppur ereditando principi già elaborati dalla Giurisprudenza di legittimità.
La scelta intrapresa dagli Ermellini di distinguere nel caso in esame tra risoluzione datoriale del rapporto di lavoro a causa del raggiungimento dei limiti massimi d'anzianità lavorativa non seguita da allontanamento del lavoratore e semplice atto risolutivo non sottoposto alla normativa del licenziamento appare infatti corretta, anche alla luce dei precedenti richiamati nella medesima decisione. È stato peraltro più volte evidenziato in passato come la cessazione dal servizio per raggiunti limiti di età non è risoluzione dovuta al licenziamento, bensì conseguente all'esaurirsi del rapporto, pervenuto alla sua fine in forza di legge “in quanto il datore di lavoro si limita ad adeguare il suo comportamento alla ritenuta avvenuta estinzione automatica del rapporto al verificarsi dell'evento considerato” (così Cass. 6 febbraio 2003, n. 1786, oltre che Cass. 29 novembre 2004, n. 22427 richiamata dalla sentenza in commento).
In conformità con il suddetto principio, la Suprema Corte ha quindi ritenuto corretto disapplicare l'art. 2118 cod. civ. nel caso in esame, in quanto la predetta norma troverebbe applicazione nei soli casi di licenziamento e non anche nel caso di atti risolutivi come quello in esame. Da ciò, correttamente, la Corte fa discendere l'assenza nel caso di specie di un diritto del lavoratore all'indennità di preavviso. |