Presupposti di applicabilità del Rito Fornero ed onere della prova del necessario requisito dimensionale
20 Gennaio 2016
Massima
L'individuazione dei presupposti per l'applicabilità del rito di cui all'art. 1, commi 47 e seg., l. n. 92 del 2012 rientra nei poteri-doveri del giudice, in quanto detto rito integra una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi per la decisione definitiva, ogni qual volta la domanda abbia ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento rientrante nelle ipotesi di cui all'art. 18 della l. n. 300 del 1970, non potendo il lavoratore licenziato rinunciare al rito speciale, non essendo la specialità prevista nel suo esclusivo interesse. Il caso
La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento per giusta causa di un lavoratore assegnato a mansioni di cassa, cui era stato contestata l'emissione di un numero elevatissimo di scontrini non fiscali non seguita dall'incasso delle relative somme. La controversia veniva introdotta con ricorso proposto ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 48, sia perché il licenziamento era stato intimato successivamente all'entrata in vigore della c.d. legge “Fornero”, sia perché veniva richiesta la tutela reale ex art. 18 comma 4 L. 300/1970. L'applicabilità del rito speciale veniva tuttavia contestata dalla parte convenuta, secondo cui il ricorrente non aveva dedotto la sussistenza del requisito dimensionale, costituente un presupposto indefettibile per l'applicabilità del cosiddetto rito "Fornero".La questione
La questione da esaminare è, in primo luogo, se l'applicabilità del rito previsto dall'art. 1, comma 47 e segg. legge 92/2012 (di recente oggetto di modifiche a seguito dell'entrata in vigore dei D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, di riforma del mercato del lavoro, cd. Jobs Act) debba considerarsi obbligatoria (e quindi indefettibile) ovvero facoltativa (e pertanto rinunciabile) e, in secondo luogo, se i relativi presupposti applicativi (in primis, il requisito dimensionale per la sussumibilità nel regime di c.d. tutela reale) debbano essere specificamente allegati e provati dal lavoratore ovvero se l'individuazione del rito concretamente applicabile rientri tra i poteri ufficiosi del giudice.Le soluzioni giuridiche
Come evidenziato dalla Suprema Corte, il punto nodale della questione in disamina è rappresentato dalla necessità di individuare la ratio del c.d. “rito Fornero”, e, in particolare, di verificare se la specialità del rito sia stata posta a tutela di un interesse esclusivo del lavoratore (che potrà quindi anche rinunziarvi) ovvero se risponda ad esigenze acceleratorie di natura pubblicistica, come tali sottratte alla libera disponibilità delle parti private.
In tale contesto, la Cassazione sgombra subito il campo da ogni possibile ipotesi di configurabilità di un regime di facoltatività del rito speciale, evidenziando come quest'ultimo non integri “uno strumento finalizzato alla tutela delle ragioni del dipendente - con la possibilità che questo scelga il rito da seguire - bensì una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi necessari per ottenere una decisione definitiva ogni qual volta la domanda abbia ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento ascrivibile ad una delle ipotesi regolate dall'art. 18 citato”.
In realtà, la tesi della facoltatività del rito era stata autorevolmente sostenuta da parte della dottrina (G. Verde, Note sul processo nelle controversie in seguito ai licenziamenti regolati dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, RDP, 2013, 301 ss.) e da qualche giudice di merito (v. Decisioni prese dalla Sezione lavoro del Tribunale di Firenze in ordine al c.d. rito Fornero, RIDL, 2012, II, 1110), che hanno argomentato tale interpretazione sia attraverso il richiamo alla evidente similarità strutturale con il procedimento di cui all'art. 28 St. lav. (in cui si ammette che il sindacato possa impugnare il comportamento antisindacale sia con l'azione ex art. 28, sia con azione ordinaria davanti al giudice del lavoro – v. Cassazione civile, sez. lav., 26/01/1982, n. 515), sia in base al rilievo secondo cui, non essendo possibile proporre con il rito speciale domande diverse da quelle di impugnativa del licenziamento, si correrebbe il rischio di una moltiplicazione dei processi, dovuto alla esclusività dell'oggetto del nuovo procedimento, obbligando così la parte che abbia più ragioni di tutela giudiziale ad instaurare una pluralità di contenziosi, con buona pace delle ragioni di economia processuale che la riforma tende a salvaguardare.
Non è mancata neanche una impostazione, per così dire, “intermedia”, tesa a limitare l'obbligatorietà del ricorso al rito speciale alle sole controversie che abbiano ad oggetto esclusivamente l'impugnazione del licenziamento, escludendola invece ogni qualvolta l'impugnativa del licenziamento venga proposta unitamente ad altre domande.
In realtà, tali tentativi appaiono destinati a naufragare ove si osservi che il rito sommario previsto dall'art. 28 St. lav. è posto nell'esclusivo interesse del sindacato ricorrente, mentre il rito sommario ex art. 1 comma 48 legge 92/2012 è dettato a tutela dell'interesse di entrambe le parti in causa ad una sollecita definizione del processo (e non già nell'interesse dell'uno o dell'altro soggetto), al fine di elidere i c.d. “costi indiretti” scaturenti da una decisione di reintegra presa a distanza di mesi o anni. L'intento del legislatore, in altri termini, è quello di assegnare a questa tipologia di controversie un canale differenziato e “preferenziale” rispetto a tutte le altre cause in materia di lavoro, poiché solo per esse si pone un'esigenza più pressante di celerità del giudizio e di certezza in ordine alle sorti del rapporto di lavoro, il che rappresenta un solido argomento interpretativo a favore della obbligatorietà e della indisponibilità del rito speciale.
Di tale avviso è la sentenza in commento, laddove si chiarisce, in linea con l'orientamento maggioritario della giurisprudenza,che “ il lavoratore licenziato non può rinunciare al procedimento speciale, perché la specialità non è prevista nel suo esclusivo interesse” e che tale conclusione “oltre ad essere fedele alla lettera della legge - che non discorre di facoltatività disponendo "la domanda... si propone con ricorso al tribunale... " - risponde alla sua ratio, che è quella di "accelerare le relative controversie", come esplicitamente si esprime il legislatore nello stesso art. 1, e quindi (anche) di ridurre i "costi indiretti" derivanti dalla durata del processo”.
La scelta del rito non può dunque esser rimessa alla parte ricorrente, né può consentirsi a quest'ultima di rinunciarvi, come del resto si desume dal tenore letterale della norma di cui all'art. 1, comma 48 legge 92/2012, laddove si prevede espressamente che l'impugnativa di licenziamento “si propone” (non già che la domanda “possa” essere proposta) nelle forme del rito speciale, considerando quindi come ineludibile l'applicazione delle “disposizioni dei commi da 48 a 68” a tale categoria di controversie.
Corollario di tale regime di “indisponibilità del tipo processuale” è, secondo la Suprema Corte, che “il lavoratore licenziato non può rinunciare al procedimento specifico, perché la specialità non è prevista nel suo esclusivo interesse ma risponde (anche) a finalità di carattere pubblicistico”, con correlata “attribuzione, in via esclusiva, all'autorità giudiziaria, secondo il principio iura novit curia, del potere di qualificare la domanda in base al petitum sostanziale e di individuare così il rito concretamente applicabile” e con l'ulteriore conseguenza che “ai fini dell'adozione del rito speciale, il ricorrente non ha l'onere della specifica allegazione della sussistenza del requisito dimensionale, ove si consideri per un verso che il ricorso, per la natura sommaria della prima fase, non soggiace al rigore assertivo e istruttorio previsto per la (eventuale) fase successiva di opposizione, come si evince dal richiamo per la sua redazione al solo art. 125 c.p.c. e per altro verso che l'allegazione può essere desunta dal tipo di tutela richiesto, salva la necessità della prova del requisito dimensionale anche in ragione della condotta processuale dell'altra parte”. Osservazioni
La Corte di Cassazione, in linea con l'orientamento della stragrande maggioranza dei giudici di merito (con la sola eccezione del Tribunale di Firenze), ha dunque optato per l'obbligatorietà del rito Fornero, precisando altresì che il lavoratore è esonerato dall'onere di specifica allegazione e dalla prova del requisito dimensionale, potendo la sussistenza di tale presupposto di applicabilità del rito speciale essere indirettamente desunta dal giudice sulla base del tipo di tutela richiesto.
La soluzione cui è pervenuta la Suprema Corte, sicuramente apprezzabile in un'ottica di ragionevole configurazione degli oneri allegatori e probatori al fine di non frapporre ostacoli alla applicazione più ampia possibile del rito speciale, impone una serie di ulteriori riflessioni di ordine pratico, che è opportuno analizzare partitamente.
Va detto, in primo luogo, che il cd. ”rito Fornero”, oltre che obbligatorio, è anche esclusivo, nel senso che con esso possono essere fatte valere soltanto alcune domande, come si desume dalla possibilità, prevista ex lege, di estendere l'ambito della cognizione del giudice alle “questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” (art. 1, 47° comma), di cumulare alla impugnativa del licenziamento domande diverse fondate sugli “identici fatti costitutivi” (art. 1, 48° e 51° comma), nonché dalla proponibilità di domande riconvenzionali (anch'esse con il limite della identità dei fatti costitutivi) nel giudizio di opposizione a cognizione piena ovvero di domande da o contro terzi (art. 1, 52° comma ss.). La ratio della legge ed il tenore letterale della norma (“con il ricorso non possono essere proposte domande diverse, salvo …”; “Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale non è fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale il giudice ne dispone la separazione”) inducono comunque a ritenere che le ipotesi di cumulo di domande diverse dall'impugnativa del licenziamento siano da considerare strette eccezioni, nell'ambito di una regola che è e rimane quella della esclusività del rito.
Sotto altro profilo, ci si è chiesti se la indisponibilità del rito investa tutto il procedimento, nella sua struttura bifasica, ovvero se le parti possano consensualmente rinunciare alla fase sommaria. Si è osservato, a sostegno di tale possibilità, che sarebbe contrario allo scopo “acceleratorio” della riforma imporre alle parti che abbiano chiaramente espresso la volontà di accedere alla cognizione piena, di affrontare i costi e i tempi di una fase processuale destinata, in ogni caso, ad essere seguita da una fase successiva e, quindi, inidonea a definire la lite. L'opinione prevalente è tuttavia nel senso che il salto della fase sommaria sull'accordo delle parti non possa essere ammesso, stante il tenore letterale dell'art. 1, comma 51, della legge n. 92/2012 (“contro l'ordinanza”) ed in considerazione della previsione di un termine di decadenza per la proposizione dell'opposizione. Il che costituisce un solido argomento interpretativo in favore della obbligatorietà del procedimento in tutta la sua struttura bifasica.
Altro problema che si è posto è quello della fruibilità del rito da parte del datore di lavoro che voglia introdurre “in prevenzione” una domanda di accertamento della legittimità del licenziamento. Sul punto si registrano interpretazioni piuttosto discordanti. Da un parte si sostiene che sarebbe difficile riconoscere l'accesso al rito speciale al datore di lavoro, tenuto conto che la sua non può costituire una azione di “impugnativa di licenziamento” (a cui soltanto si applica il rito ai sensi dell'art. 1, comma 47) e che la previsione di un doppio termine di decadenza per l'impugnazione giudiziale del licenziamento da parte del lavoratore mira proprio a tutelare l'interesse datoriale ad una celere definizione della controversia, con la conseguenza che non sarebbe possibile apprezzare, in concreto, un reale interesse del datore ad anticipare l'impugnazione del lavoratore. La tesi favorevole muove invece dal tenore letterale della norma di cui all' art. 1, 47° co. l. n. 92 cit., (che, nel riferirsi alle controversie “aventi ad oggetto l' impugnativa dei licenziamenti”, ben comprende anche le azioni di mero accertamento della loro legittimità introdotte dal datore di lavoro) e dalla osservazione che, da un lato, la legge non esclude la possibilità per il datore di lavoro di fruire del rito speciale, e che, dall'altro, non può escludersi in radice la sussistenza di un interesse al rito “accelerato” anche in capo al datore di lavoro. In realtà, appare assai dubbio che il datore di lavoro possa avere un concreto interesse ad agire, in quanto, se entro centottanta giorni il dipendente non ha proposto la domanda, si produrrebbero gli stessi effetti di un licenziamento valido ed efficace, sicché una domanda “in prevenzione” del datore di lavoro non sembra avere molto senso. In ogni caso, non è dubitabile che l'obbligatorietà del rito vale per entrambe le parti e deve trovare applicazione per tutte le controversie nelle quali si discuta della legittimità di un licenziamento soggetto alla applicazione dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970: il rito speciale non è infatti funzionale alla reintegrazione, ma alla certezza dei rapporti cui deve pervenirsi per mezzo della celerità del procedimento. Ne consegue che, se si dovesse ritenere che il datore di lavoro ha comunque interesse a proporre una domanda volta ad accertare la validità ed efficacia del licenziamento, senza dubbio essa andrebbe proposta nelle forme del rito speciale.
Quanto alle conseguenze dell'eventuale “errore sul rito” in cui sia incorsa la parte attrice, sembra preferibile ritenere che, in presenza di un ricorso introdotto erroneamente secondo le forme ordinarie, il giudice non sia vincolato a seguire il rito del lavoro, dal momento che, tenuto conto del contenuto della domanda (impugnativa di licenziamento soggetto a tutela reale), l'errore dell'attore nella scelta del rito non comporta comunque una deroga al principio secondo cui, per le controversie alle quali esso è applicabile, il procedimento di cui all'art. 1 della legge n. 92 del 2012 costituisce l'unica modalità di esercizio dell'azione giudiziale. Ne consegue che il giudice, riscontrato l'errore sul rito, ben può disporre d'ufficio il mutamento del rito ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c. e dell'art. 4 del D.Lgs. 1 settembre 2011 n. 150, fermi restando gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta con il rito sbagliato. Non appare invece condivisibile la tesi secondo cui l'errore della parte dovrebbe condurre necessariamente ad una decisione di inammissibilità del ricorso, atteso che la diversificazione dei riti non può comportare mai il sacrificio del diritto delle parti ad ottenere una risposta dal giudice in ordine al bene della vita oggetto della lite, pena la violazione degli artt. 24 e 111 Cost. Ne consegue che una eventuale decisione di inammissibilità del ricorso, senza alcuna pronuncia sul merito della controversia, finirebbe con il disattendere la chiara intenzione del legislatore, che ha evidentemente inteso introdurre una “corsia preferenziale” in favore delle cause relative alle impugnative dei licenziamenti assistiti dalle tutele di cui all'art. 18 l. n. 300/1970, in tal modo favorendo chi introduca tali tipi cause rispetto a chi ne introduca di diverse. Né può sostenersi che il provvedimento di mutamento del rito sia suscettibile di condizionare i poteri e i diritti di difesa delle parti, considerato che, con specifico riferimento all'attività difensiva delle parti, la diversità tra i due riti (quello ex l. n. 92/2012 e quello codicistico del lavoro), si riduce a poco più che alla previsione, nel primo, della iniziale fase “urgente”, le differenze quasi annullandosi dalla fase di opposizione in poi. Onde si può tranquillamente escludere che possano darsi casi in cui l'adozione di un rito piuttosto che un altro giochi un ruolo determinante nella soccombenza di una delle parti. Del resto, se il ricorso possiede tutti i requisiti di forma e di sostanza per la trattazione con il rito previsto dalla l. n. 92/2012, può e deve trovare applicazione il principio di conservazione degli atti processuali, senza che ciò comporti alcun vulnus al diritto di difesa delle parti.
Da ultimo, la Cassazione evidenzia che, tenuto conto che le norme processuali contenute nella legge 92/2012 “sono assai scarne”, può presentarsi la necessità di integrazione della relativa disciplina attraverso il rinvio alle norme dell'ordinario rito lavoristico. Non pare invero dubitabile che, mancando nella legge n. 92/2012 una norma di chiusura, l'obbligatorietà del rito speciale non impedisce che, al fine di colmare le lacune della disciplina processuale della suddetta legge, possa farsi riferimento alle disposizioni in materia di controversie individuali di lavoro ed a quelle processual-civilistiche ordinarie, previa verifica di compatibilità. Del resto, l'ambito di applicazione del procedimento speciale ricade in toto nell'art. 409 c.p.c., per cui sarebbe del tutto illogico ritenere che la controversia che più di altre incide sulle vicende lavorative dei lavoratori (l'impugnativa di licenziamento) sia del tutto sottratta, in mancanza di una disciplina specifica, alle regole ordinariamente dettate per tale tipologia di contenzioso. |