Ancora sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento: il prius, il posterius ed il nesso causale

Arturo Maresca
23 Marzo 2017

Partendo dalla qualificazione del GMO come clausola generale o concetto elastico, l'Autore si sofferma sul compito dell'interprete ovvero l'accertamento dell'effettività della ragione produttiva o organizzativa specificata nell'atto di licenziamento, nonché la sua oggettiva attuazione, senza alcuno scrutinio in ordine all'opportunità o convenienza nel bilanciamento con la tutela della posizione del lavoratore. La verifica dovrà, piuttosto, riguardare il nesso di causalità che lega l'esecuzione delle scelte imprenditoriali alla soppressione del posto di lavoro e, quindi, al licenziamento. Tali segmenti possono essere accorpati in tre nuclei essenziali: a) quello centrale delle causali organizzative, cioè delle decisioni imprenditoriali relative “all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”; b) quello che ne costituisce l'antecedente logico, cioè le motivazioni che inducono il datore di lavoro ad esercitare il potere organizzativo; c) l'ultimo, relativo al nesso che raccorda, secondo un rapporto di causa-effetto, l'attuazione della decisione organizzativa con il licenziamento del lavoratore, all'interno del quale sembra possibile collocare anche il c.d. repêchage. Questo secondo contributo, che segue l'approfondimento pubblicato la scorsa settimana, analizzerà il punto di cui alla lettera c).
Decisioni organizzative come fatto costitutivo del GMO

Le considerazioni accennate nel primo contributo portano a confermare che ai fini del GMO rilevano - banalmente, ma univocamente - soltanto le “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa” e non anche le motivazioni o le finalità ad esse sottese che non sono in alcun modo, neppure indirettamente, richiamate dal legislatore.

A questo punto la prima questione che si pone in ordine logico-giuridico riguarda la legittimità costituzionale della norma nell'interpretazione ora prospettata.

Legittimità che, a ben vedere, non viene posta in dubbio neppure da chi aderisce ad interpretazioni estensive del GMO, in quanto, come si è detto, l'ancoraggio del GMO alle ragioni organizzative costituisce una scelta del legislatore sufficiente per garantire il principio costituzionale ed europeo che si sostanzia nella causalità del recesso.

Tale conclusione, però, non impedisce che una nozione di causalità del recesso di così ampia portata solleciti una riflessione in due direzioni alternative: la prima interna all'art. 3, l'altra che si ingegna per integrare la fattispecie legale del GMO rigettando a priori il principio che ogni ragione organizzativa - idonea a determinare la soppressione del posto di lavoro - possa essere anche sufficiente a legittimare il licenziamento del dipendente, prescindendo dalle motivazioni delle decisioni organizzative del datore di lavoro.

La prima riflessione si incentra sul contenuto delle ragioni organizzative del datore di lavoro e sul nesso causale che deve legarle al licenziamento, escludendo non solo (ed ovviamente) quelle pretestuose, ma precisandone anche il carattere strutturale e di causa efficiente rispetto alla soppressione del posto di lavoro. Soppressione dovuta, seguendo questa prospettiva, al venir meno della proficua utilità della prestazione resa dal dipendente che, perciò, viene licenziato.

Infatti l'attuazione della modifica organizzativa decisa dal datore di lavoro evidenzia che l'apporto lavorativo di quel dipendente non risulta più necessario per il regolare funzionamento dell'attività produttiva o per l'operatività dell'organizzazione del lavoro.

Questa impostazione ha trovato una conferma recente nella sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201, con la quale la Cassazione, a fronte di una meditata rivisitazione dei contrapposti orientamenti (la sentenza della Sezione Lavoro ha la struttura tipica delle decisioni delle Sezioni Unite quando sono chiamate a comporre un contrasto interpretativo), ripercorre le argomentazioni a sostegno della tesi oggettiva e di quella valutativa, giungendo ad affermare il principio che "ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.

Indagine (e limiti) sulla pretestuosità delle ragioni organizzative

Gli esiti dell'analisi fin qui svolta possono essere ulteriormente precisati chiarendo il concetto, a cui si è fatto riferimento, della pretestuosità delle ragioni organizzative che, laddove riscontrata, esclude la configurabilità di un GMO.

La pretestuosità deve essere indagata con riferimento agli elementi costitutivi della fattispecie del GMO, senza, però, che questa verifica funga da sponda per sindacare i motivi delle modifiche organizzative attuate dal datore di lavoro.

Ciò significa che la pretestuosità può riguardare sostanzialmente due ipotesi:

  1. la prima diretta, quando si palesano di fatto insussistenti le decisioni organizzative rappresentate nella lettera di licenziamento o il loro carattere strutturale, trattandosi di decisioni destinate ad avere un effetto temporalmente limitato;
  2. la seconda indiretta, derivante dall'interruzione del nesso di causalità che, come si è detto, va verificato nel collegamento tra la decisione organizzativa e la soppressione del posto di lavoro. Precisando, con riferimento a quest'ultimo caso, che, pur a fronte della (reale) soppressione del posto di lavoro, l'interruzione del nesso potrebbe derivare dal ripescaggio fisiologico del lavoratore nell'accezione che sarà delineata nell'ultimo paragrafo.

A ciò deve aggiungersi la lungimirante indicazione della Cassazione (nella citata sentenza Cass. sez. lav., n. 25201/2016) che, dopo aver affermato la sufficienza per la legittimità del GMO delle ragioni “che determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”, precisa “ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore”.

In questo caso la pretestuosità è indotta dalla falsità dei motivi indicati dal datore (pur non essendovi tenuto) nella lettera di licenziamento a supporto delle ragioni organizzative.

A questa conclusione è possibile pervenire applicando una sorta di proprietà transitiva: fino a prova contraria (perché una simile prova sembra, comunque, ammissibile), se i motivi esplicitati sono insussistenti non potranno non esserlo anche le ragioni organizzative del licenziamento che su di essi si sarebbero dovute fondare.

Ad esempio, se nella lettera di licenziamento il datore di lavoro invoca un calo delle vendite derivante da una contrazione strutturale del mercato per giustificare la riorganizzazione dell'ufficio commerciale, da attuare sopprimendo il posto di lavoro di uno degli addetti, e poi emerge che non c'è alcun calo delle vendite, non c'è dubbio che la pretestuosità del motivo (ancorché irrilevante) mina alla base la credibilità della ragione organizzativa legittimante il licenziamento.

Superamento del licenziamento per GMO come extrema ratio. Mutazioni delle tutele del lavoro subordinato: dal posto di lavoro alla ricollocazione

Le critiche di chi non condivide la ricostruzione del GMO nei termini fin qui esposti - disconoscendo che la ragione organizzativa, determinante la soppressione del posto di lavoro, sia sufficiente a legittimare il licenziamento - si incentrano nella valutazione delle motivazioni imprenditoriali in base al parametro dell'adeguatezza e congruità.

Parametro elaborato creativamente dall'interprete per comparare la scelta dell'imprenditore – la cui legittimità non viene (né potrebbe esserlo) messa in discussione neppure nella sua relazione con la soppressione del posto di lavoro – con l'interesse del dipendente alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Con la conseguenza che la prevalenza di quest'ultimo interesse consentirebbe di addossare sul datore di lavoro il costo dell'improduttività del lavoro del dipendente, il cui posto è stato oggettivamente soppresso, ma per motivazioni ritenute dall'interprete non sufficienti per legittimare un GMO di licenziamento.

Una tesi quest'ultima che, per il tipo di argomenti utilizzati, mostra un approccio evocativo del metodo non di rado praticato nella nostra materia, quando l'interprete, non appagato dal bilanciamento di interessi operato dal legislatore e pur non contestandone la legittimità costituzionale, si adopera per forzare il precetto legale non già per l'ambiguità della sua formulazione, ma per la ritenuta insufficienza degli esiti di tale bilanciamento.

Uno degli esempi più risalenti e significativi di come questa tecnica possa essere di volta in volta messa al servizio di valutazioni ideologiche di segno opposto (un altro esempio di un simile approccio interpretativo è quello offerto dalla giurisprudenza che creò la nozione legale ed inderogabile di retribuzione omnicomprensiva), riguarda la giurisprudenza che, nella metà degli anni '60, fondava l'illegittimità degli scioperi articolati sul c.d. danno ingiusto da essi provocato; danno ritenuto tale in quanto sproporzionato rispetto alla perdita della retribuzione subita dai lavoratori scioperanti.

Secondo la Cassazione (Cass. sez. lav., 3 marzo 1967, n. 512) il danno si doveva considerare ingiusto in quanto “diverso e più grave di quello necessariamente inerente ai mancati utili dovuti alla momentanea sospensione dell'attività lavorativa dei suoi dipendenti, perdita compensata o limitata dal mancato pagamento della retribuzione agli scioperanti”.

Ma l'insussistenza di una norma dalla quale fosse possibile desumere un limite al diritto di sciopero collegato alla corrispettività dei sacrifici - che, peraltro, avrebbe reso l'interprete arbitro della misura del danno legittimo -, portò ben presto la dottrina e la giurisprudenza a liquidare tale impostazione con la lapidaria affermazione che “l'entità del danno, in mancanza di una legge che le attribuisca questo ruolo, non è elemento idoneo ad assumere la funzione di criterio formale di qualificazione dello sciopero come legittimo o meno” (così G. Giugni. Per lo stesso concetto in giurisprudenza il richiamo deve essere fatto alla storica sentenza Cass. sez. lav., 30 gennaio 1980, n. 711)

In questa prospettiva i limiti al licenziamento per GMO sono enucleati in presa diretta con l'art. 41, comma 2, Cost., avocando all'interprete l'arbitraggio tra utilità sociale, tutela del lavoratore e ragioni dell'impresa oppure indagando all'interno dell'ordinamento giuridico del lavoro subordinato alla ricerca di dati normativi capaci di curvare la disciplina del GMO piegandola ad una maggior garanzia del posto di lavoro.

È questa la proposta da ultimo formulata ed argomentata da M.V. Ballestrero che, con riferimento alla verifica della sussistenza di un GMO di licenziamento afferma “che la concretizzazione del principio del diritto al lavoro effettuata dal legislatore non consiste in un precostituito bilanciamento tra principi, ma nella definizione delle regole (giustificazione del licenziamento) che consentono ai giudici di effettuare il bilanciamento in concreto, valutando caso per caso quale dei due principi in conflitto (libertà economica e diritto al lavoro appunto) debba prevalere”.

In entrambi i casi la comune matrice del ragionamento ermeneutico si fonda sulla tesi del GMO come extrema ratio, al quale sarebbe possibile ricorrere soltanto quando non vi siano alternative al licenziamento.

Ma anche chi intende coltivare questo tipo di indagine – e prescindendo, quindi, dalla condivisione di una siffatta impostazione – dovrebbe aggiornare e sottoporre a revisione i dati normativi di contesto per dare atto delle profonde modifiche intervenute nella disciplina del lavoro subordinato (e non solo in materia di licenziamento) e della loro incidenza sull'identificazione del GMO, affinché non accada che tutto cambi lasciando tutto come prima.

Infatti l'evoluzione (condivisibile o meno) del sistema può essere sintetizzata, per quanto rileva in questa sede, nel passaggio dalla tutela statica del posto di lavoro al sostegno dinamico alla ricollocazione del lavoratore che abbia perso il suo posto.

Una formula che può essere rappresentata, in termini descrittivi e senza la benché minima pretesa di completezza, identificando una tendenza ad abbandonare la tutela dell'occupazione quale che sia – anche quella ristagnante ed improduttiva – per favorire il reimpiego del lavoratore che ha perso il posto in una nuova occupazione attraverso le politiche attive del lavoro, la cui effettività e concretezza dovranno essere verificate nei risultati, ma che già caratterizzano il dato normativo del nuovo assetto regolatorio.

Tale dato non si esaurisce nel ruolo primario riconosciuto alle politiche attive, ma si può cogliere anche nella nuova disciplina degli ammortizzatori sociali ed, in particolare, nella limitazione temporale all'utilizzo della CIG e nel contrasto agli interventi riguardanti un'occupazione che non c'è più (in passato difesa ad oltranza), alla generalizzazione dei trattamenti di sostegno alla ricollocazione ed al reddito nel caso di disoccupazione, ma anche nelle procedure di definizione dei licenziamenti per GMO con la conciliazione preventiva prevista dall'art. 7, L. n. 604/1966, nell'ambito della quale si incentiva la risoluzione consensuale, anche stimolando la proposta da parte del datore di lavoro di “eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato”.

Disposizione sostituita dall'offerta di conciliazione economica di cui all'art. 6, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nel caso del licenziamento sottoposto al regime delle tutele crescenti che viene fiscalmente incentivata in alternativa al contenzioso mirato al ripristino del rapporto di lavoro.

Last but not least, l'abbandono della reintegrazione come unica sanzione del licenziamento illegittimo e la sua progressiva marginalizzazione a dimostrazione non tanto della liberalizzazione del licenziamento (come, pure, diffusamente si sostiene), ma di una tecnica di tutela del lavoratore illegittimamente licenziato che previlegia il reimpiego in una nuova occupazione alla restituzione del posto di lavoro.

Insomma sembra possibile cogliere, nella trama ordita dal legislatore, un disegno nel quale la tutela del lavoratore viene concepita in raccordo con l'art. 4 Cost. non tanto con riferimento al posto già occupato, ma quanto al lavoro che lo può utilmente e proficuamente rioccupare. Opzione quest'ultima che, al pari della prima, realizza il principio costituzionale del diritto al lavoro.

GMO versus stabilità, durata temporale illimitata e primato del CTI: critiche e repliche

Così ragionando ci si deve far carico delle ulteriori critiche di chi (A. Perulli e F. Scarpelli) osserva che le ragioni del GMO sono uguali e contrarie a quelle per le quali il datore di lavoro assume un lavoratore a tempo indeterminato, aggiungendo che la maggiore stabilità di un contratto a termine (CTD) mal si concilia con il principio affermato nell'art. 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 per cui “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.

La critica coglie un punto non trascurabile, ma contiene al suo interno anche la replica più efficace, a prescindere da quella formale che distingue l'irrilevanza dei motivi che inducono le parti a stipulare un contratto e la ragione-limite legale che, invece, deve necessariamente sussistere per rendere valido il recesso unilaterale dal contratto.

Infatti, sul piano sostanziale non c'è dubbio che l'interesse del datore di lavoro ad assumere un dipendente è lo stesso che si riscontra nella prosecuzione del rapporto di lavoro, concretizzandosi nell'utilità che l'imprenditore ricava impiegando le energie del dipendente nella propria organizzazione produttiva.

Ma per legittimare il licenziamento per GMO non è sufficiente il venir meno di tale interesse, occorre invece la realizzazione di una scelta organizzativa la cui attuazione, da parte del datore di lavoro, comporta la soppressione del posto di lavoro.

Quindi, la discontinuità tra l'interesse ad assumere, da una parte, e, dall'altra, a proseguire il rapporto di lavoro e la facoltà di avvalersi del GMO licenziando il dipendente, è segnata dalla tutela accordata dal legislatore al datore di lavoro quanto all'esecuzione della decisione di modificare la propria organizzazione produttiva.

In ciò consiste il fatto” evocato dall'art. 18, comma 7, St. Lav., nella parte in cui ammette la reintegrazione nel posto di lavoro soltanto “nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Il fatto costitutivo del GMO, quindi, è tale proprio perché si concreta nell'attuazione della decisione del datore di lavoro che comporta una modifica organizzativa ed ha come effetto la soppressione del posto di lavoro.

Questi rilievi consentono di ribadire, anche in questa specifica prospettiva, la distinzione più sopra delineata in ordine alla rilevanza nel GMO del fatto (cioè della decisone organizzativa che comporta nella sua attuazione la soppressione del posto) e, per converso, dell'irrilevanza dei motivi o delle finalità che inducono il datore di lavoro ad adottare tale decisione.

Quanto poi alla minore stabilità contrattuale di un CTI rispetto ad un CTD, ciò avviene in generale per tutti contratti, essendo il termine finale un vincolo specifico assunto dalla parti in ordine alla durata contrattuale e ciò vale anche nel rapporto di lavoro subordinato; infatti, il licenziamento per GMO (diversamente da quello per giusta causa) è escluso nel CTD.

Ma i concetti di stabilità del vincolo contrattuale e durata indeterminata del rapporto contrattuale sono diversi e non sovrapponibili. Del resto, se così non fosse, si dovrebbe dubitare che il dirigente possa essere parte di un CTI, così come un dipendente di una impresa con un organico di quindici unità.

Ciò che assume valore nel CTI è, appunto, la sua estensione temporale priva di un limite finale predeterminato, il che consente al lavoratore di fare affidamento sulla continuità del rapporto, non sulla sua illicenziabilità.

Sul piano degli effetti pratici non si tratta di cosa di poco conto, come sa bene chi conosce la realtà di quei lavoratori che vivono con comprensibile preoccupazione l'imminente scadenza del termine del rapporto di lavoro, confidando nell'eventualità di una proroga o di una reiterazione del contratto a cui restano inevitabilmente soggiogati.

Considerazione, questa, che fa il paio con quella che, guardando alla posizione del datore di lavoro, segna all'interno della collettività aziendale la distinzione sostanziale (ma anche la percezione sociale) tra l'estinzione (naturale) del rapporto di lavoro provocata dalla scadenza del termine e l'estinzione (traumatica) dovuta all'intimazione di un licenziamento, anche per GMO.

Ripescaggio fisiologico e nesso causale

Dalle considerazioni fin qui svolte è già emersa l'importanza nell'identificazione del GMO del nesso di causalità e se ne è anche indicato il contenuto essenziale; si deve ora prendere in esame il repêchage (anzi, il ripescaggio), limitando però il suo esame al profilo che lo connette alla fattispecie del GMO, collocandolo all'interno del nesso causale che lega le ragioni produttive o organizzative alla soppressione del posto di lavoro.

Se, infatti, si guarda a come la giurisprudenza ha utilizzato l'onere del ripescaggio si deve prendere atto che essa si fonda sulla tesi del GMO come extrema ratio; il licenziamento può considerarsi legittimo soltanto se il datore di lavoro prova di non avere nessun altra possibilità di occupazione del dipendente.

In questa prospettiva si spiega anche la crescente dilatazione del ripescaggio: prima circoscritto alle mansioni equivalenti, poi anche a quelle inferiori, quindi ad ogni posizione lavorativa dislocata in qualsiasi unità produttiva dell'azienda, anche in rapporti di lavoro ad orario ridotto o, addirittura, in altre società appartenenti allo stesso gruppo.

Ma nel momento in cui – per le motivazioni accennate – la tutela del posto di lavoro occupato dal dipendente evolve (o involve, ma il giudizio di merito non rileva per il ragionamento) verso un bene diverso che è quello della nuova occupazione nella quale può essere utilmente reimpiegato il lavoratore licenziato, il ripescaggio deve essere riconsiderato per quanto riguarda sia l'inquadramento sistematico sia l'ambito applicativo in cui può operare.

Di qui l'ipotesi da sottoporre a verifica per stabilire se – come appare possibile immaginare – il ripescaggio possa essere valutato alla stregua di una prova di resistenza a cui sottoporre il GMO, accertandone la legittimità con riferimento allo specifico punto del collegamento tra le ragioni produttive od organizzative e la soppressione del posto di lavoro da esse determinato, che abilita il datore di lavoro ad esercitare il potere di recesso.

In questa prospettiva il ripescaggio consente di verificare se la ragione organizzativa e la conseguente soppressione del posto di lavoro siano in concreto la causa efficiente, cioè effettiva e reale del licenziamento del dipendente.

Conclusione questa che può essere revocata, in dubbio, nel momento in cui, seppure a fronte del venir meno del posto di lavoro precedentemente occupato, l'utilizzazione del lavoratore in un'altra mansione sarebbe dovuta avvenire nel fisiologico ed ordinario esercizio dei poteri organizzativi e direttivi, così come in quel contesto aziendale sono di norma agiti dal datore di lavoro.

In questo caso, infatti, verrebbe meno il collegamento tra la scelta organizzativa ed il licenziamento, emergendo in modo trasparente che la soppressione del posto (realmente avvenuta) è stata presa a pretesto dal datore di lavoro per licenziate il dipendente.

Nel tentativo di prevenire l'obiezione di estrema vaghezza del concetto ora espresso, appare opportuno precisare almeno due punti: il primo, più generale, riguarda la dinamica del nesso di causalità che, nell'ipotesi in esame, deve atteggiarsi alla stregua del criterio di regolarità causale, che può dirsi verificata quando in termini (di certezza o) di elevata probabilità si può ritenere che, in condizioni di normalità gestionale, il datore avrebbe proceduto ad assegnare la nuova posizione disponibile al dipendente il cui posto di lavoro è stato soppresso. In questo caso, infatti, si può considerare verificata un'interruzione del nesso di causalità tra ragioni organizzative e licenziamento.

Il secondo punto da precisare è conseguente ed attuativo del primo, concernendo l'ambito fisiologico del ripescaggio. Fisiologia che si può misurare assumendo come parametro l'art. 2103 c.c. e le possibilità previste da tale norma in ordine al mutamento di mansioni.

Non c'è dubbio, infatti, che mentre lo spostamento a mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento (art. 2103, comma 1) costituisce una modalità ordinaria di esercizio del potere direttivo, in quanto non richiede alcuna giustificazione causale, nessuna forma né il rispetto di specifiche condizioni, lo spostamento a mansioni inferiori, invece, rappresenta, in un caso, una modalità di esercizio di tale potere connotata da evidenti tratti di specialità (art. 2103, comma 2) e, nell'altro, l'oggetto di una pattuizione da concludere in forme tipiche che ne segnalano la singolarità (art. 2103, comma 6).

Del resto appare difficile immaginare che da una norma recentemente modificata dal legislatore (art. 3, D.Lgs. n. 81/2015) con la finalità di ampliare, seppure a fronte di specifiche condizioni, il potere direttivo il cui esercizio resta sempre rimesso all'apprezzamento del datore di lavoro, si possa estrarre un precetto che, integrando la disciplina del GMO, imporrebbe in questo caso l'esercizio coattivo di tale potere (incompatibile con la stessa struttura giuridica di un potere), limitando il licenziamento per GMO (in tal senso cfr., da ultimo, Cass. sez. lav., 9 novembre 2016, n. 22798 e Cass. sez. lav., 21 dicembre 2016, n. 26467).

Un ragionamento analogo, del resto, può essere fatto con riferimento al patto modificativo delle mansioni previsto dall'art. 2103, comma 6, c.c., che costituisce pur sempre un atto di esercizio dell'autonomia individuale validamente stipulato nell'interesse del lavoratore, ma concluso per volontà dalle parti nelle c.d. sedi protette (si tratta di uno dei pochissimi casi di derogabilità assistita).

Nella prospettiva del GMO, l'assegnazione consensuale a mansioni inferiori sarebbe imposta, negandone così la sua natura pattizia, in quanto al datore di lavoro - che intenda procedere ad un licenziamento per GMO - verrebbe addossato l'onere di proporre preventivamente al dipendente la stipula del patto (v. ancora le citate sentenze della Cassazione sez. lav., n. 22798/2016 e Cass. sez. lav., n. 26467/2016).

E di qui anche la domanda se tale stipula vada o meno perfezionata, come prevede il citato comma 6, art. 2103, nelle sedi indicate dall'art. 2113, ultimo comma, c.c., per evitare i problemi applicativi di cui si dirà tra breve.

Seguendo questa tesi, il GMO non solo dovrebbe essere preceduto dal tentativo preventivo di conciliazione ex art. 7, L. n. 604/1966, ma anche da una proposta contrattuale che, si badi bene, dovrebbe avere un contenuto opposto a quello richiesto dal legislatore per il predetto tentativo di conciliazione che, come già segnalato, sollecita lo stesso datore di lavoro a prospettare “misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato” in vista di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e del successivo reimpiego del lavoratore.

Non solo, ma la proposta di ricollocazione in mansioni inferiori prodromica al GMO di licenziamento – sempre secondo il citato orientamento della Cassazione – potrebbe legittimamente prevedere anche una riduzione della retribuzione da correlare alle mansioni offerte, compatibile con la previsione del patto di dequalificazione (art. 2103, comma 6), ma non con il potere di assegnazione a mansioni inferiori che il datore ha sì facoltà di affidare al dipendente, ma a retribuzione invariata (art. 2103, comma 5).

Con il rischio che l'ipotizzata (dalla Cassazione) proposta di assegnazione a mansioni inferiori in alternativa al licenziamento per GMO e, quindi, conseguente ad una ragione organizzativa ex art. 3, si accavalli, spiazzandola, con l'assegnazione unilaterale a mansioni inferiori disposta ex art. 2103, comma 2, dal datore di lavoro a fronte di una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”.

In altre parole e per ribadire i motivi che portano a tenere separata la disciplina del mutamento di mansioni da quella del ripescaggio nel GMO, ci si deve interrogare su cosa potrebbe accadere sul piano applicativo se, per evitare un licenziamento per GMO, il datore di lavoro assegni il dipendente ad una mansione inferiore, convenendo la proporzionale riduzione della retribuzione.

Tale pattuizione potrebbe essere ritenuta contraria alle previsione dei commi 6 oppure 2, art. 2103, perché, nel primo caso, a fronte della sussistenza di un “interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione”, il patto avrebbe dovuto essere stipulato nelle sedi previste dal legislatore; nel secondo caso, attesa la sussistenza di una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, non sarebbero state rispettate le tutele ad hoc, in particolare quella dell'invarianza retributiva.

Il ripescaggio è, quindi, un tertium genus non assoggettabile né influenzabile dalla disciplina legale né del patto modificativo delle mansioni né dello jus variandi a mansioni inferiori.

Peraltro, un riscontro alle osservazioni accennate si può rinvenire in tutte quelle norme che, a garanzia del dipendente divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni, subordinano il licenziamento alla prova dell'impossibilità di assegnare tale dipendente non più abile ad altre mansioni, anche inferiori. Si tratta delle disposizioni contenute negli art. 4, comma 4, L. 12 marzo 1999, n. 68; art. 42, comma 1, D.Lgs., 9 aprile 2008, n. 81, ma anche nell'art. 15, comma 1, D.Lgs., 8 aprile 2003, n. 66.

Orbene, il tratto distintivo di queste disposizioni – connaturato alla loro finalità di apprestare una tutela rafforzata a fronte di specifici interessi di lavoratori particolarmente meritevoli (come testimonia, tra l'altro, anche la sanzione applicabile nel caso del licenziamento illegittimo che è quella della reintegrazione anche nell'art. 2, ultimo comma, D.Lgs n. 23/2015)– verrebbe meno ed esse si omologherebbero sostanzialmente al GMO se, anche in questo caso, il ripescaggio dovesse riguardare le mansioni inferiori.

Da tale interpretazione deriverebbe, peraltro, un'ulteriore incongruenza ancor più rilevante per le differenze che si verrebbero a determinare tra licenziamento collettivo e GMO.

Infatti l'art. 4, comma 11, L. n. 223/1991, al fine di evitare in tutto o in parte la riduzione di personale, consente – previo accordo sindacale – di derogare all'art. 2103 (nella versione oggi vigente, trattandosi di rinvio dinamico), ma rimettendo al datore di lavoro la scelta tra il licenziamento o l'assegnazione a mansioni inferiori (previo accordo sindacale).

Diversamente, nel GMO l'alternativa è obbligata, nel senso che l'offerta di assegnazione a mansioni inferiori con riduzione della retribuzione costituirebbe (sempre secondo le citate sentenze della Cassazione) il presupposto necessario ed indefettibile per poter procedere al licenziamento.

Gli argomenti fin qui accennati in rapida sintesi, appaiono sufficienti a distinguere un ripescaggio fisiologico da uno illimitato e, per le ragioni più sopra esposte, solo il primo sembra riconducibile alla fattispecie del GMO.

Guida all'Approfondimento
  • G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 1984, 249 e ss.
  • M.V. BALLESTRERO, Principi e regole nella giurisprudenza del lavoro. Due esempi e una digressione, in Dialogando su principi e regole, di M.V. Ballestrero e R. Guastini, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2017, 1, 169 e, sul punto, 181 ss..
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