Risarcimento del danno nel precariato pubblico scolastico
21 Aprile 2016
Premessa
Sul tema leggi anche: - "Risarcimento del “danno comunitario” da abuso di contratti a termine nel pubblico al vaglio delle S.U." di Stefano Giubboni (nella Sezione Giurisprudenza Commentata)
L'annosa vicenda della legittimità dei contratti a termine nella P.A. - avendo riguardo, in particolare, al settore scolastico - ha catturato, cattura tuttora e continuerà verosimilmente a catturare ancora a lungo l'attenzione degli operatori del diritto. I recenti interventi delle supreme Corti nazionali, così come della Corte di Giustizia UE, hanno infatti provocato un acceso dibattito su tematiche di notevole interesse scientifico – ed, al contempo, di enorme impatto economico – come la connotazione stessa del rapporto di lavoro a termine nel pubblico impiego; l'esatta portata del divieto di reiterazione dello stesso ex art.36 co.5 D.Lgs. 165/2001; il concreto perimetro applicativo della disciplina comunitaria: il tutto, a non voler poi considerare la questione relativa ai rapporti – di forza? – tra giudici nazionali e giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Come diretta conseguenza delle questioni di interpretazione normativa di cui si è appena detto è venuto poi a determinarsi un ulteriore dibattito, con implicazioni pratiche di immediata ed enorme rilevanza: quello relativo all'esatta determinazione del danno risarcibile nel caso di illegittima reiterazione di contratti a termine da parte della P.A. nel settore scolastico. Sul punto, è quanto mai agevole riscontrare una vera e propria "babele applicativa" – solo apparentemente, per certi versi, superata dalla recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.4914/2016 - che vede fronteggiarsi ben tre diverse opzioni giurisprudenziali. La prima, tendenzialmente prevalente nella giurisprudenza di merito, individua nell'art. 18 L. 300/1970 la norma di riferimento per individuare la concreta entità del risarcimento in questione. Un secondo filone interpretativo ravvisa, al contrario, nell'art. 32 L.183/2010 il corretto parametro legale per la quantificazione del danno in esame, facendo espresso riferimento alla nozione di “danno comunitario”. Su un piano diverso si pongono poi quelle pronunce che a tale scopo operano, al contrario, un diretto richiamo all'art. 8 L.604/1966. Occorre considerare poi quelle - sempre più numerose - pronunce di merito che, sulla scorta della recente sentenza Mascolo della Corte di Giustizia UE, dichiarano il diritto dei “precari storici” alla costituzione del rapporto di lavoro pubblico nel settore scolastico come unica sanzione realmente efficace secondo i parametri comunitari per l'illegittimo operato dell'Amministrazione. Considerazioni introduttive: il quadro normativo di riferimento
A dispetto della notevole quantità di saggi, commenti ed articoli che hanno analizzato la tematica in esame – o forse, proprio per questo motivo – appare opportuno prendere le mosse da alcune brevi considerazioni riepilogative del quadro normativo di riferimento.
Una volta esaustivamente ma sinteticamente delineato quest'ultimo, infatti, sarà più agevole comprendere la più recente evoluzione della duplice questione: a) della legittimità del ricorso al contratto a termine nel pubblico impiego e, in modo più specifico, nel settore scolastico; b) dell'individuazione e quantificazione del danno risarcibile nell'ipotesi di abusiva reiterazione di tali contratti da parte delle P.A. Una premessa in punto di ricostruzione delle fonti normative appare infatti quanto mai indispensabile, se si pensa che il contratto di lavoro a tempo determinato è istituto giuridico costantemente oggetto di modifiche legislative, influenzate dal mutare degli orientamenti politici dominanti.
Se a tale considerazione si aggiunge il rilievo per cui trattasi di tipologia contrattuale che si è sempre storicamente prestata a forme di utilizzo abusivo, e quindi fonte di un correlato notevole contenzioso giudiziario, appare ancor più evidente la necessità di un approccio organico alla tematica in questione.
La disciplina di fonte comunitaria del contratto a termine è costituita, come noto, dalla Direttiva 1999/70/CE del 18 marzo 1999 , che ha recepito l'Accordo quadro tra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale – Unione delle Confederazioni delle Industrie della Comunità europea (UNICE), Centro Europeo dell'Impresa a Partecipazione Pubblica (CEEP) e Confederazione Europea dei Sindacati (CES) – del 18 marzo 1999 sul lavoro a tempo determinato.
Tale direttiva rappresenta espressione di una ben precisa scelta da parte del legislatore comunitario: quella di vincolare gli Stati membri al raggiungimento degli specifici risultati ivi individuati, senza però dar luogo ad analoga vincolatività per quanto riguarda la forma ed i mezzi da impiegarsi nel singolo ordinamento giuridico nazionale per il concreto raggiungimento degli stessi.
La disposizione normativa presente nell'Accordo in questione che più interessa in tale ultima ottica è costituita dalla clausola n. 5.
Essa può considerarsi quale diretta e fattiva applicazione di uno dei tre obiettivi fondamentali della disciplina comunitaria: creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti a tempo determinato.
A tale scopo, essa statuisce principalmente al punto 1 che “per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a specificare: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”.
Si tratta, è bene subito sottolinearlo, di una norma priva di efficacia diretta che quindi, in caso di contrasto con una disposizione di diritto interno, non può condurre alla diretta disapplicazione di quest'ultima da parte dell'interprete nazionale.
Essa, infatti, come del resto riconosciuto dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (cfr.Corte di Giustizia UE , sent. 4.7.06, C- 212/04 , Adeneler ; CGUE, sent. 7.9.06, C-53/03, Marrosu e Sardino ;Corte di Giustizia UE , sent. 10.3.11, C-109/09 , Deutsche Lufthansa ) non è incondizionata, nel senso che non detta regole sufficientemente precise per il ricorso ai contratti a tempo determinato e non vincola gli Stati membri ad adottare una specifica misura preventiva tra quelle ivi previste.
Una volta delineato il quadro normativo comunitario di riferimento, analoga sintetica ma esaustiva rappresentazione deve effettuarsi per quanto riguarda la disciplina nazionale.
Quest'ultima, seppure già caratterizzata da una serie di misure dirette ad evitare l'utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato “per finalità elusive degli obblighi nascenti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in particolare circondando di garanzie l'ipotesi della proroga o del rinnovo del contratto e precisando i casi in cui il contratto prorogato o rinnovato si debba considerare a tempo indeterminato” ( Corte Cost., 41/2000 , con riferimento alla L.230/1962 ), si è come noto conformata agli obblighi comunitari derivanti dalla Direttiva 1999/70/CEE regolando ex novo con il D.Lgs. 368/2001 la materia, previa abrogazione – appunto - della normativa del 1962 e dell'art. 23 co.1 L.56/1987 .
Non è certo questa la sede per ripercorrere le successive – ed anche recenti ( L.92/2012 ; D.L. 76/2013 ), se non recentissime ( L.78/2014 ) – modifiche legislative che hanno progressivamente mutato le connotazioni strutturali stesse del contratto di lavoro a tempo determinato, caducandone la necessaria riferibilità a ben precise esigenze oggettive (cd. a-causalità del contratto a termine).
Dovendo la presente analisi rimanere infatti correlata alla tematica dell'individuazione del danno ad oggi concretamente risarcibile nel caso di illegittima reiterazione di contratti a termine nel settore scolastico, basterà richiamare alcuni specifici passaggi dell'impianto generale del D.Lgs. 368/2001 con riferimento: a) all'indicazione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro; b) al limite massimo di reiterazione di trentasei mesi, previsto dal comma 4-bis dell' articolo 5, come inserito dall'art. 1 co. 40 lett. b) L.247/ 2007 e ss.mm.
In particolare, tale ultima disposizione prevede come noto che, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, “qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2”.
La piena applicabilità della disciplina comunitaria di cui alla Direttiva 1999/70/CE ed all'annesso Accordo quadro anche ai contratti ed ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le Amministrazioni e con altri enti del settore pubblico è stata da subito espressamente affermata già in sede comunitaria, tanto in via interpretativa quanto in sede giudiziaria.
Sotto tale profilo, la Corte di Giustizia UE nella sentenza 8.9.11, C- 177/10 , Rosado Santana, ha infatti avuto modo di affermare al riguardo che se un giudice nazionale, compresa una Corte costituzionale, avesse permesso una disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici temporanei e i dipendenti pubblici di ruolo in mancanza di ragioni oggettive nell'accezione di cui alla clausola 4, punto 1, “si dovrebbe concludere che una giurisprudenza siffatta sarebbe contraria alle disposizioni di tali atti del diritto dell'Unione e violerebbe gli obblighi che, nell'ambito delle loro competenze, incombono alle autorità giurisdizionali degli Stati membri di assicurare la tutela giuridica attribuita ai singoli dalle disposizioni di detto diritto e di garantirne la piena efficacia”).
È tuttavia evidente che le peculiarità del rapporto di pubblico impiego hanno imposto - ed impongono fortemente tuttora - alcuni adattamenti normativi ed interpretativi anche all'indomani dell'entrata in vigore del D.Lgs. 368/2001 .
In tale ottica, l'applicabilità in questione è stata così espressamente affermata e disciplinata dallo stesso legislatore nazionale.
Quest'ultimo, come noto, con l'aggiunta del comma 5-ter all' art. 36 D.Lgs. 165 / 2001 – cd. Testo Unico sul pubblico impiego – T.U.P.I., ad opera dell' art. 4 D.L. 101/ 2013 , conv. in L.125/ 2013 , ha operato tale espressa equiparazione statuendo che “le disposizioni previste dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando per tutti i settori l'obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere ai contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente per rispondere alle esigenze di cui al comma 2 e il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato” .
Il divieto di conversione ex art.36 co.5 D.Lgs. 165/2001 riguarda tutte le "amministrazioni pubbliche" ai sensi dell' art. 1 c o . 2 del medesimo D.Lgs. 165/2001 , e quindi le “amministrazioni dello Stato (...), le Regioni, le Province, i Comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni (...), tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali..", con la sola esclusione degli enti pubblici economici ( Cass., Sez. Lav ., 4062/20 11 ) e delle società di capitale controllate dagli enti pubblici cui è demandato lo svolgimento di servizi a favore della collettività ( Cass., Sez. Lav., 23702/2013 ).
Tanto premesso, è finalmente possibile completare l'analisi del quadro normativo di riferimento individuando la disciplina speciale propria del settore scolastico: ambito di riferimento, come già evidenziato, di alcune delle più rilevanti ed attuali questioni interpretative in materia di ricorso abusivo al contratto a termine. La normativa nazionale. Disciplina del settore scolastico
Il problema dell'individuazione della giusta - anche e soprattutto nell'ottica dei principi comunitari - forma di ristoro riconoscibile in materia di contratto di lavoro a termine nel pubblico impiego si è infatti intrecciato, nel nostro ordinamento, con il fenomeno del cd. precariato storico nella scuola, relativo sia al corpo insegnanti che al personale ATA.
I lavoratori interessati da tali vicende, come noto, chiedono infatti sempre più frequentemente la conversione in contratti a tempo indeterminato dei numerosi contratti a termine stipulati continuativamente per anni, e spesso presso lo stesso istituto scolastico: il tutto, in aggiunta - ed in alcuni casi in subordine - alla declaratoria del loro diritto al correlato risarcimento del danno patrimoniale ed extrapatrimoniale.
Ancora una volta, va evidenziato come non sia possibile, alla luce delle finalità della corrente analisi, dar luogo di tutte le implicazioni giuridiche - e non solo - di tale tematica.
Ai fini dello studio che interessa basterà fissare alcuni punti fondamentali.
Il primo è co stituito dalla ratio della specialità della normativa del settore scolastico, correlata alla necessità di dare attuazione agli artt. 33 Cost . , art. 34 Cost . e, con essi, al diritto fondamentale allo studio.
In applicazione di tali precetti costituzionali lo Stato è infatti tenuto ad organizzare il servizio scolastico in modo continuativo, diffuso ed adeguato ai costanti cambiamenti numerici e qualitativi della popolazione scolastica.
Ciò spiega, tra i diversi aspetti, la peculiarità del sistema del reclutamento, regolato da un insieme di norme ( artt. 399 D.Lgs. n. 297/1994 , art. 551 D . L gs. n. 297 / 1994 - T.U. Istruzione , come modificati dalla L.124/ 1999 , sull' accesso ai ruoli per il 50 % dei posti tramite concorso e per il 50 % tramite le graduatorie permanenti, nelle quali è inserito il personale assunto a tempo determinato e abilitato all'insegnamento; art.1 co.605 L.296/2006 , che ha trasformato le graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento “in un'ottica di contenimento della spesa pubblica e di assorbimento del precariato”, così precludendo l'inserimento di nuovi aspiranti prima che sia completata l'immissione in ruolo dei lavoratori già inseriti nelle graduatorie medesime; l' art. 4 L. 124 / 1999 , come integrato dall' art. 1 D.M. 131/ 2007 , sulla disciplina del conferimento delle supplenze per la copertura dei posti vacanti dei docenti e del personale ATA) non sempre di facile interpretazione e di agevole coordinamento.
Nell'ottica dell'analisi che ci occupa, di particolare interesse appaiono due specifiche disposizioni in materia di contratto a termine.
La prima è costituita d all' art. 1 D.L. 134 / 2009 , conv. in L. 167 / 2009 , il quale ha aggiunto il comma 14-bis all' art. 4 L. 124/ 19 99 , statuendo che “i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi 1, 2 e 3, in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo, possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo, ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie previste dalla presente legge e dall'articolo 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n.296, e successive modificazioni”.
La seconda è costituita dall' art. 9 co . 18 D.L. 70/ 2011 , conv. in L . 106/ 2011 , il quale ha aggiunto il comma 4 bis all' art. 10 D . L gs. 368 / 2001 , escludendo l'applicazione della disciplina generale del contratto a termine ai “contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l'articolo 5, comma 4-bis, del presente decreto”.
Ciò premesso, è agevole osservare come proprio la necessaria ciclicità del ricorso allo strumento del contratto di lavoro a tempo determinato nel settore scolastico abbia determinato, a lungo, una sostanziale “acquiescenza” circa la sostanziale disapplicazione della normativa in materia di limiti al contratto a termine in tale ambito.
Disapplicazione, per l'appunto, ritenuta inevitabile alla luce delle peculiarità organizzative della macchina amministrativa scolastica di cui si è appena detto.
Tale stato di fatto è però - per certi versi clamorosamente, per altri non del tutto inaspettatamente - venuto meno a seguito della recente ed ormai notissima sentenza Mascolo della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sent. 26.11.14 – C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo, Napolitano + altri ).
Tale vicenda processuale, avendo di fatto modificato il complessivo panorama interpretativo di riferimento con riferimento al settore scolastico, richiede una separata trattazione. La sentenza Mascolo e la reiterazione abusiva dei contratti a termine dei cd. precari storici della scuola
La sentenza in questione ha infatti, senza dubbio alcuno, determinato un notevole stravolgimento dei termini della tematica relativa alla reiterazione dei contratti a termine nel settore scolastico, almeno per come si erano venuti stratificando tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza.
In un primo momento si era in effetti registrata in subjecta materia una sostanziale concordanza di vedute circa la sussistenza di una “ragione obiettiva”, nel senso attribuito a tale espressione dalla normativa comunitaria, idonea a giustificare il massivo ricorso al contratto a termine nel mondo della scuola.
Tale “ragione obiettiva”, nell'ottica della già citata clausola 5 punto 1 lett.a) dell'Accordo quadro sulla prevenzione degli abusi deve come noto – per costante giurisprudenza della CGUE - essere intesa nel senso di risultare riferibile a circostanze precise e concrete che contraddistinguano una determinata attività e, pertanto, siano tali da giustificare, in quel peculiare contesto, l'utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato oggetto di rinnovi successivi tra loro.
Tali circostanze possono risultare dalla particolare natura delle funzioni per l'espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro.
La sussistenza di tali circostanze nel settore scolastico è stata a lungo pacificamente riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla stessa Corte di Cassazione.
Quest'ultima, nel 2012, aveva infatti in proposito ricostruito la disciplina in materia di reclutamento del personale – docente e non docente - della scuola come un corpus speciale autonomo, sottratto alla disciplina generale di cui al D. Lgs. 368/2001 ( Cass. , 10127/2012 ).
La Corte, in particolar modo, ha concluso per la conformità di questo corpus speciale autonomo alla Direttiva 1999/70/CE in riferimento alla clausola 5 punto 1) lett. a) ritenendo che tale disciplina avesse tutte le caratteristiche per essere ritenuta “norma equivalente”, preesistente per la prevenzione degli abusi e quindi già idonea a configurare una “ragione obiettiva per la giustificazione” della reiterazione degli incarichi.
Tale disciplina, a giudizio della Cassazione, avrebbe infatti avuto il merito di consentire “la stipula di contratti a tempo determinato in relazione alla oggettiva necessità di far fronte con riferimento al singolo istituto scolastico - e, quindi, al caso specifico - alla copertura di posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili (…)”( Cass., 10127/2012 , cit.), e quindi con riferimento a circostanze precise e concrete che caratterizzano la particolarità dell'attività scolastica, anche alla luce di un fondamentale fattore oggettivo costituito dal necessario stretto collegamento tra ricorso alla cd. supplenza e ciclica variazione in aumento o in difetto della popolazione scolastica e della sua collocazione geografica.
Il quadro interpretativo sin qui descritto è d'improvviso mutato nel momento in cui la Corte Costituzionale (che, per inciso, con precedente ordinanza aveva dichiarato l'inammissibilità della stessa questione), a mezzo della nota ordinanza n. 207/13, ha per la prima volta disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE nell'ambito di una questione di legittimità costituzionale: sollevata, quest'ultima, relativamente all' art. 4 co.1,11 L.124/1999 , in riferimento all' art. 117 co.1 Cost . nonché alla già citata clausola 5 punto 1 Accordo quadro allegato alla Direttiva n. 1999/70/CE .
Precisamente la Corte Costituzionale ha concentrato la propria attenzione sull'ultima proposizione dell' art. 4 co.1 L.124/1999 , secondo cui il conferimento delle supplenze annuali su posti effettivamente vacanti e disponibili ha luogo “in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale docente di ruolo”.
Al riguardo l a Corte ha osservato che: a) poiché tale disposizione ha storicamente consentito più rinnovi dei contratti a tempo determinato, anche senza previsione di tempi certi per lo svolgimento dei concorsi ivi menzionati; b) poiché non vi sono norme che riconoscano, per i lavoratori della scuola, il diritto al risarcimento del danno in favore di chi è stato assoggettato ad un'indebita ripetizione di contratti di lavoro a tempo determinato, si sarebbe in effetti potuto porre un problema di conflitto con la clausola 5, punto 1, Direttiva n. 1999/70/CE.
Con la Corte di Giustizia dell'Unione Europea sentenza del 26 novembre 2014 C22/13, da C61/13 a C63/13 e C418/13, Mascolo, Napolitano + altri la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato il principio secondo cui “la clausola 5, punto 1, dell'Accordo quadro […] deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l'espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall'altro, non prevede nessun'altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
Va subito osservato, così come sottolineato dalla totalità dei commentatori della pronuncia in esame, che la statuizione della CGUE deve considerarsi limitata all'ambito del rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale.
Essa, pertanto, deve considerarsi riferibile esclusivamente ai “contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili”.
Se, come ad oggi appare probabile, il giudizio sarà di illegittimità costituzionale - risultando ad oggi programmata la decisione della Corte Costituzionale per il 17 maggio p.v. - verrà quindi meno per tali supplenze il corpus normativo speciale, con possibilità di ricorrere alla normativa generale, quanto meno per i contratti a termine conclusi prima del 14 maggio 2011, data di entrata in vigore del comma 4 bis dell' art. 10 D.Lgs. 368/2001 .
Secondo l'opinione prevalente in dottrina, infatti, quest'ultima rappresenta pur sempre una nuova norma speciale, rispetto alla quale sarà eventualmente necessario proporre un nuovo giudizio di legittimità costituzionale.
Per i docenti che vengono invece ripetutamente assunti per supplenze su posti vacanti rispetto all'organico di fatto, di cui al diverso comma 2 dell' art. 4 L.124/1999 , la situazione si appaleserebbe quindi del tutto invariata rispetto all'epoca precedente la sentenza Mascolo.
Tale norma, infatti, attualmente non è oggetto del sindacato della Corte Costituzionale, né è stata presa in considerazione dalla CGUE.
In relazione a tale aspetto andrà quindi valutato se la reiterazione di questi contratti di lavoro a tempo determinato, in assenza di altre misure applicabili, sia a sua volta giustificata da una «ragione obiettiva» ai sensi del già citato punto 1, lettera a) della clausola 5 della Direttiva n. 1999/70/CE .
Non mancano tuttavia già ad oggi ricostruzioni del tutto diverse sul punto, come sostenuto dal Tribunale di Napoli sent. 21.1.15, est. Coppola , secondo cui “se pure la C.g.u.e. ha ritenuto in contrasto con il diritto eurounitario solo la assunzione di lavoratori a termine su posti vacanti e disponibili, in assenza di concorso pubblico da espletarsi entro termini certi, il diritto interno non consente di differenziare le conseguenze sanzionatorie per le assunzioni su posti vacanti ma non disponibili. La interpretazione conforme del diritto interno impone dunque di interpretare conformemente disposizioni che si applicano alle assunzioni su posti vacanti e disponibili, ma la medesima interpretazione, visto l'identico dato testuale, deve valere anche per precari assunti su posti vacanti ma non disponibili”.
Una volta completata la descrizione del – quanto mai frastagliato – dato normativo di riferimento appare finalmente possibile procedere, in modo compiuto, all'individuazione delle diverse forme di risarcimento del danno ritenute applicabili nel caso di illegittima reiterazione di contratti di lavoro a termine, con specifico riferimento al settore scolastico.
In proposito appare del tutto incontestabile un chiaro dato di fatto di partenza: per dirla con la recente pronuncia del Tribunale di Napoli appena sopra citata, un'“assoluta incertezza del piano delle conseguenze della violazione del disposto di cui alla direttiva 1999/70/CE, che rende, a distanza di circa 14 anni dalla scadenza dei termini di trasposizione della stessa, indeterminato e confuso il piano della effettività delle conseguenze sanzionatorie e la efficacia dissuasiva della sanzione prevista dall'art. 36 verso la P.A.” (Trib. Napoli, sent. 21.1.15, cit.).
Di tale vera e propria babele applicativa, prima ancora che interpretativa, appare necessario fornire i dati essenziali di riferimento.
L'area della non risarcibilità in concreto
Una prima, risalente serie di arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione ha ricondotto la tematica in esame alle ordinarie categorie del danno risarcibile civile ( Cass., 392/2012 ), in tal modo riducendo fin quasi ad annullarla la possibilità di un concreto risarcimento del danno da abusiva reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego.
Secondo la Corte, la delineata distinzione tra il regime sanzionatorio del settore pubblico e di quello privato - più volte rimarcata nella normativa comunitaria (per tutte CGUE, sent.1.10.2010 - causa C-3/10, Affatato ) porterebbe infatti ad escludere dall'area del lavoro pubblico l'applicazione delle disposizioni dell'art. 5 D.Lgs. 368/2001 , che, come visto, al fine di evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a termine, contempla una durata massima oltre la quale il contratto di lavoro deve ritenersi concluso a tempo indeterminato.
Sul versante del ricorso abusivo del contratto a termine si rileverebbe così una specifica caratterizzazione del rapporto lavorativo pubblico, “dal momento che le disposizioni dell' art. 36 D.Lgs. n. 165/2001 appresterebbero una normativa articolata capace - prima di ricorrere alla sanzione risarcitoria - di operare in via preventiva con una più accentuata responsabilizzazione dei pubblici dirigenti”.
Rimarrebbe quindi da verificare in concreto solo la sussistenza dei margini per riconoscere in favore del lavoratore un risarcimento del danno da prestazione lavorativa di fatto resa in violazione di norme imperative: danno, però, che deve essere specificamente allegato e provato dall'interessato, non essendo in alcun modo configurabile in re ipsa.
In tal senso, la Cassazione ha ritenuto condivisibili le argomentazioni del giudice di secondo grado il quale, nel respingere la domanda dell'interessato, aveva per l'appunto precisato che la prospettazione del danno da parte dello stesso non risultava supportata da elementi di riscontro probatorio.
Il ricorrente aveva al riguardo sostenuto che il danno in questione poteva considerarsi in re ipsa, dovendosi quindi egli ritenersi esentato dal relativo onere probatorio.
Tale assunto però, a giudizio della Corte, sarebbe risultato in realtà contrario ad un costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il risarcimento dei danni scaturenti dal rapporto lavorativo - quale ad esempio il danno biologico o quello di perdita di chance - va provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento e, quindi, anche attraverso la prova per presunzioni, sottoponendo alla valutazione del giudice precisi elementi in base ai quali sia possibile risalire attraverso un prudente apprezzamento alla esistenza dei danni denunziati (cfr. Cass., Sez. Un., 26972/ 2008 ; in precedenza, Cass., Sez. Un., 6572/ 2006 ).
Ancor più drastica, in tal senso, è una coeva pronuncia del 2012 a mezzo della quale la medesima Corte di Cassazione ha ritenuto che “la disciplina del reclutamento del personale a termine del settore scolastico, contenuta nel D.lgs. n. 297 del 1994, non è stata abrogata dal D.lgs. n. 368 del 2001, essendone disposta la salvezza dall'art. 70, comma 8, del D.lgs. n. 165 del 2001, che le attribuisce un connotato di specialità, ribadito dall'art. 9, comma 18, del d.l. n. 70 del 2011, conv. in legge n. 106 del 2011, tramite la conferma dell'esclusione della conversione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a termine stipulati per il conferimento delle supplenze. Lo speciale "corpus" normativo delle supplenze, integrato nel sistema di accesso ai ruoli ex art. 399 del D.lgs. n. 297 del 1994, modificato dall'art. 1 della legge n. 124 del 1999, consentendo la stipula dei contratti a termine solo per esigenze oggettive dell'attività scolastica, cui non fa riscontro alcun potere discrezionale dell'amministrazione, costituisce "norma equivalente" alle misure di cui alla direttiva 1999/70/CE e, quindi, non si pone in contrasto con la direttiva stessa, come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria. Ne consegue che la reiterazione dei contratti a termine non conferisce al docente il diritto alla conversione in contratto a tempo indeterminato, né il diritto al risarcimento del danno, ove non risulti perpetrato, ai suoi danni, uno specifico abuso del diritto nell'assegnazione degli incarichi di supplenza”.
Si tratta tuttavia di orientamenti ormai di fatto difficilmente sostenibili, ad opinione di chi scrive, alla luce delle argomentazioni poste dalla CGUE alla base della sentenza Mascolo, di cui però appare opportuno tenere conto per esigenze di completezza ricostruttiva-sistematica.
Quantificazione del danno e parametro indennitario (art. 32 co.5 l.183/2010)
Di segno opposto è la ricostruzione effettuata da Cass., 19371 /2013 , a mente della quale “in materia di pubblico impiego, un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla (Corte costituzionale sent. n. 98 del 2003) e non è stato modificato dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato. Ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela del diritti del lavoratore, precluso il diritto alla trasformazione del rapporto, residua a favore del lavoratore soltanto la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti, per la cui determinazione trova applicazione, d'ufficio ed anche nel giudizio di legittimità, l'art. 32, commi 5 e 7 della legge 4 ottobre 2010, n. 183, a prescindere dall'intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine”.
Anche in questo caso la Corte di Cassazione parte dal ritenere non contestabile l'assunto per cui il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze della P.A. è quello - estraneo alla disciplina del lavoro privato - dell'accesso mediante concorso, enunciato dall' art. 97 co.3 Cost .
Da ciò discende la piena legittimità, in nome delle esigenze del buon andamento e della imparzialità dell'azione amministrativa, della scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione dei lavoratori a termine conseguenze esclusivamente risarcitorie, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato (prevista, invece, per il lavoro alle dipendenze di privati).
In luogo di tale sanzione deve quindi darsi luogo al risarcimento del danno, nel senso che nel caso di specie “va applicata d'ufficio (anche riguardo a rapporto intercorso con una pubblica amministrazione) la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 che al comma 5 così dispone: "nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8"( Cass., 19371 /2013, cit .).
È tuttavia proprio questo passaggio interpretativo che ha suscitato le più intense critiche da parte della dottrina e, in alcuni passaggi, della successiva giurisprudenza specie di merito: concordi, entrambe, nell'evidenziare come in tal modo si finisse in definitiva per applicare un criterio normativo di liquidazione del danno risarcibile correlato ad uno specifico evento (l'avvenuta conversione del contratto a tempo determinato) che, al contrario, si era espressamente indicato come impossibile a verificarsi nelle fattispecie come quelle portate all'attenzione della Corte.
Va in proposito altresì evidenziato come l'art. 32 co.5 D.L. 183/2010 sia stato abrogato dall' art.55 co.1, lett.f) D.Lgs. 81/2015 , n. 81 , con la decorrenza prevista dal comma 3 del medesimo art.55 .
Tale opzione interpretativa è stata tuttavia fatta propria - sebbene, va sottolineato, con riferimento ad ipotesi di precariato extrascolastico - dalla recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.4914/2016 .
Queste ultime hanno infatti affermato il principio di diritto per cui nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, “fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art.36, comma 5, d.lgs 30 marzo 2001 n.165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all'art.32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n.183, e quindi nella misura pari ad un'indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art.8 legge 15 luglio 1966,n.604”.
E' interessante osservare come le Sezioni Unite abbiano fondato la dedotta applicabilità nel settore pubblico dell' art. 32 L.183/ 2010 proprio in virtù di quei principi comunitari - secondo i quali il rimedio deve essere effettivo ed equivalente a quello della conversione – richiamati da chi, al contrario, ritiene che in subjecta materia l'unica ipotesi di sanzione idonea in tal senso sarebbe la cd. stabilizzazione del rapporto di lavoro con la P.A.
La Cassazione, in altre parole, ha quindi sostenuto (invero, in modo forse tendenzialmente apodittico) che l'applicazione del criterio risarcitorio in questione costituisca – stante il divieto di trasformazione del contratto a tempo indeterminato – misura avente efficacia dissuasiva, non connotata da conseguenze di minor favore per il cd. precario pubblico di quelle previste per i privati e non idonea a rendere troppo difficile la tutela contro il ricorso eccessivo ai rinnovi: il tutto, quindi, in linea con i parametri ed i criteri interpretativi di matrice comunitaria. Il risarcimento del cd. danno comunitario
Un diverso criterio quantificativo del danno da abusiva reiterazione di contratti a termine nel pubblico impiego è stato poi postulato, sempre dalla Cassazione, nel 2014.
Il giudice di legittimità – chiamato a pronunciarsi, tuttavia, ancora una volta in materia di precariato extrascolastico – ha affermato infatti, al riguardo, che “in materia di pubblico impiego privatizzato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte della P.A., non determina la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 36, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, interpretato - con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico - nel senso di "danno comunitario", il cui risarcimento, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, è configurabile quale sanzione "ex lege" a carico del datore di lavoro, per la cui liquidazione è utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n.183, né il criterio previsto dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che non hanno alcuna attinenza con l'indicata fattispecie” ( Cass., 27481/2014 ).
La Corte perviene a tale risultato interpretativo partendo da una serrata critica alle precedenti impostazioni, pure emerse in sede di scrutinio di legittimità.
Si legge infatti in tale pronuncia che rappresenterebbe una vera e propria violazione del diritto UE come interpretato dalla CGUE qualificare la tutela avverso l'abuso di contratti a termine illegittimi esclusivamente in termini di risarcimento del danno in senso stretto, ponendo a carico del lavoratore l'onere di provare il danno effettivamente patito per effetto della illegittima apposizione del termine .
Occorrerebbe quindi inevitabilmente fare riferimento alla diversa ipotesi categoriale del danno-sanzione, da considerarsi nel caso in esame “non solo come una forma di rifusione dei danni effettivamente subiti dal lavoratore, ma come una vera e propria sanzione a carico della P.A. per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti”.
Solo in tal modo, quindi, il risarcimento del danno-sanzione rappresenterebbe a giudizio della Corte una "forma adeguata ed equivalente di tutela", come richiesto dalla giurisprudenza della CGUE.
La nozione di danno applicabile nella specie viene quindi individuata in quella di cd."danno comunitario", dovendo in tal modo intendersi un risarcimento “conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro - che può provare l'esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall'interessato che possono essere escluse - mentre l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze "falsamente indicate come straordinarie e temporanee" essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)” ( Cass., 27481/2014 , cit.).
A tal fine, pertanto, si dovrà, tra l'altro, tenere conto del numero dei contratti a termine, dell'intervallo di tempo intercorrente tra l'uno e l'altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui vi è stata la reiterazione.
In senso correttivo, si aggiunge, si dovrà tuttavia considerare anche il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (estensibile all'adempimento degli specifici obblighi di comportamento stabiliti dalla legge a carico della pubblica amministrazione, anche in ambito contrattuale), quale espressione del dovere di solidarietà fondato sull' art. 2 Cost. , che impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dalla esistenza di specifici obblighi contrattuali o di espresse previsioni di legge: con la conseguenza della risarcibilità del danno derivato dall'inadempimento dovuto ad una tale violazione ( Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618 ; Cass. 26 agosto 2008, n. 21250 ).
Alla luce di tali considerazioni viene considerato quindi come criterio tendenziale da utilizzare - da parte del giudice del merito - come parametro per la liquidazione del danno da perdita del lavoro, come conseguenza dell'indebita apposizione del termine da parte della P.A. quello indicato dall' art.8 L. 604/ 1966 , “apparendo, invece, da un lato, ingiustificato e riduttivo, il ricorso in via analogica al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 che riguarda la diversa ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato nel lavoro privato e dall'altro improprio il criterio previsto dall'art. 18 St.lav., anch'esso applicabile ad una fattispecie che non ha alcuna attinenza con il lavoro pubblico (arg. ex: Cass. 21 agosto 2013, n. 19371; Cass. 8 settembre 2014, n. 18855; Cass. 10 settembre 2014, n. 19112)” ( Cass., 27481/2014 , cit.).
Spetterebbe quindi all'interessato un importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La principale obiezione che viene mossa a questa soluzione interpretativa è rappresentata dal suo contrasto con i principi generali che regolano la materia del risarcimento del danno nel nostro ordinamento; principi secondo cui, come noto, per la configurabilità di un illecito contrattuale, e analogamente di quello extracontrattuale, occorre una condotta inadempiente colpevole, un danno-evento, cioè una lesione di un diritto del creditore o un fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno ingiusto, ed un nesso di causalità tra condotta e danno evento (cd. causalità materiale, cui si riferiscono tanto l' art. 2043 c.c. quanto gli art t . 40 e 41 c.p. ), mentre quanto alla configurabilità del risarcimento occorre un danno-conseguenza ed un nesso di causalità tra questo e l'illecito (cd. causalità giuridica, cui si riferiscono gli ar tt. 1223, 1225 c . c . : sul punto, cfr. Cass. n. 6572/200 6 , n. 576 /2008 , n. 581 /2008 , n. 582 /2008 , n. 584 del 2008 ).
Secondo i fautori di tale revisione critica del criterio quantificativo del danno proposto dalla Cassazione con la pronuncia in esame, quindi, ne deriva che se c'è illecito senza danno-conseguenza non c'è risarcimento.
È però evidente – si prosegue - che la figura del danno-sanzione contempla solo la presenza del danno-evento, e ne consente il risarcimento a prescindere dalla prova del danno-conseguenza.
Per come sostenuto dalla Corte con la sentenza 27481/2014 , infatti, sarebbe sufficiente accertare l'abuso nell'utilizzo della contrattazione a termine perché ne consegua il diritto al risarcimento del danno, anche senza la prova delle conseguenze dannose dell' abuso stesso.
Quantificazione e risarcimento del danno ex art. 18 l.300/1970. La giurisprudenza di merito
Non mancano, specie nella giurisprudenza di merito, pronunce che individuano la misura del danno concretamente risarcibile per l'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine da parte della P.A. facendo riferimento all' art.18 L.300/1970 nella formulazione ante cd. legge Fornero.
Il richiamo a tale ultima norma sarebbe conseguenza del fatto che il meccanismo sanzionatorio in questione sarebbe l'unico istituto mediante il quale il legislatore avrebbe a ben vedere monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla stabilità reale: come deve, con ogni evidenza, intendersi quello alle dipendenze della P.A. ( Trib. Genova, 14.11.2006.; Trib. Genova, 14.5.2007; Trib. Latina, 27.11.2007; Trib. Torino, 31.8.2011 ).
Si tratta tuttavia di un ricorso quanto mai variegato e non uniforme.
In alcune sentenze, infatti, vengono congiuntamente riconosciute al lavoratore le retribuzioni indicate nell' art. 18 L.300/1970 co. 4 (cinque mensilità) e co.5 (quindici mensilità) , condannando pertanto l'Amministrazione a corrispondere una somma pari a venti mensilità della retribuzione globale di fatto: e ciò, sulla base dell'assunto per cui i requisiti dell'adeguatezza e dell'effettività richiedono non solo l'idoneità dello strumento a riparare il danno sofferto, ma anche la forza dissuasiva che è propria dei meccanismi sanzionatori predeterminati (in tal senso, tra le tante, App. Roma, 9.3.2012; App. Genova, 9.1.2009; Trib. Foggia, 5.11.2009 ).
In altre pronunce, invece, detraendo l'aliunde perceptum si è di fatto ridotto tale risarcimento a dieci mensilità (Trib. Genova, 5.4.2007 ).
Altre volte, ancora, sono state riconosciute al lavoratore solo le 15 mensilità previste dal co. 5 dell'art. 18 (con esclusione delle 5 mensilità di risarcimento minimo) ( Trib. Napoli, 25.2. 2008 ; Trib. Genova, 25.3.2011 ).
Va al riguardo segnalata una recente ed interessante sentenza del Tribunale di Napoli, in cui, premesso che per essere equivalente a quella prevista nel settore privato la sanzione applicata nel rapporto di lavoro pubblico deve avere sia una componente relativa alla “conversione del contratto” che una componente risarcitoria, si è individuato il danno risarcibile nella somma delle 15 mensilità sostitutive della reintegra, di cui all' art. 18 L. 300/ 19 70 (commi tre e quattro del testo introdotto dalla legge 92/2012 ), con la indennità di cui all' art. 32 L. 183/2010 (Trib. Napoli, 16.1.2015 ).
Il ricorso all' art.18 L.300/1970 come criterio di quantificazione del danno concretamente risarcibile nell'ipotesi di indebito ricorso alla stipula di contratti a termine da parte della P.A. è stato, come appena in precedenza visto, fatto oggetto di critica da parte della Corte di Cassazione ( Cass., 27481/2014 , cit.).
Tale critica parte però da un assunto – quello della non applicabilità dell'istituto della reintegrazione nel pubblico impiego – contestato dai giudici di merito fautori di tale orientamento applicativo.
Si tratta invece, a giudizio di questi ultimo, di disposizione pacificamente applicabile al pubblico impiego addirittura a prescindere dal requisito dimensionale, in virtù del richiamo espresso di cui all' art 51 co.2 D.Lgs. 165/2001 , in virtù del quale “la legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle Pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
Vanno poi registrate sentenze della giurisprudenza di merito che hanno applicato criteri diversi.
Di particolare rilievo, in tal senso, è una pronuncia del tribunale di Trapani ( Trib. Trapani, 15.2.2013 ) che ha condannato il MIUR a risarcire il danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine come forma di lucro cessante, di importo pari alle retribuzioni "future", per il periodo compreso fra la cessazione del rapporto per effetto del termine illegittimo e la cessazione che lo stesso avrebbe avuto col raggiungimento dell'età pensionabile da parte del ricorrente. La costituzione del rapporto di lavoro come sanzione per l'abusiva reiterazione di contratti a termine da parte della p.a. scolastica
Da ultimo, una ancor più recente pronuncia della Cassazione ( Cass., 27363 / 2014 ) sembra aver aperto la strada alla tesi della costituibilità di un rapporto di lavoro pubblico come unica risposta sanzionatoria adeguata, nell'ottica del necessario rispetto dei principi comunitari di cui si è detto, all'abusiva reiterazione dei contratti a termine da parte della P.A.
Si tratta tuttavia, a ben vedere, di un richiamo solo implicito – ed incidentale - alla già citata sentenza Mascolo della Corte di Giustizia Europea sulla scuola, effettuato sulla base di altri e diversi precedenti arresti della stessa CGUE ( Corte di Giustizia Europea ord., 12.12.13 - C-50/13 , Papalia; sent., 12.12.14 - C-361/12, Carratu ).
Il caso era quello d'una infermiera d'ospedale che negli anni '90 era stata assunta con contratti precari vari (a termine, collaborazioni continuative ed altro) per essere infine assunta a tempo indeterminato, venendo immessa “in ruolo” tramite concorso: a questo punto, e quando ormai era stata collocata a riposo, ha chiesto il risarcimento dei danni per quei vecchi contratti di precariato.
La domanda era stata respinta sia in primo grado che in appello, affermandosi al riguardo che, incontestata l'illegittimità dei contratti, mancava comunque la prova del danno patito dall'interessata.
La Cassazione ha approfittato del caso per affermare a mezzo di un vero e proprio obiter dictum, aderendo alla più recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che, se il precariato supera complessivamente trentasei mesi, si avrebbe diritto all'immissione in ruolo senza concorso specifico.
La Corte ha in tal modo postulato l'applicabilità dell' art. 5 co. 4-bis D.lgs. 368/2001 al precariato pubblico non scolastico.
I giudici di legittimità hanno infatti al riguardo affermato che “dovendo esaminarsi la questione anche sotto il profilo dell'abuso di contratti a termine legittimi (…) l'Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev'essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato (pur legittimi), preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento e' subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione. Spetta al giudice nazionale valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi”, rendendo effettiva la conversione dei contratti di lavoro da determinato ad indeterminato di tutti i rapporti a termine successivi con lo stesso datore di lavoro pubblico, dopo trentasei mesi anche non continuativi di servizio precario, in applicazione del Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 5, comma 4-bis”.
Non mancano, al riguardo, recenti ed articolate pronunce di merito che hanno espressamente richiamato e valorizzato il principio di diritto in questione ( Trib. Napoli, 21.1.2015, cit. ).
In tal senso, può dirsi ormai sempre più chiaramente registrabile la tendenza dei Tribunali del Lavoro italiani a valutare concretamente la possibilità di disporre la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a condizione però: a) che gli incarichi di supplenza siano stati stipulati per coprire posti vacanti e disponibili in organico (di fatto e di diritto), e non già per far fronte ad esigenze meramente temporanee (ccdd. supplenze brevi); b) che il requisito temporale, consistente nell'avvenuto superamento del già citato limite di 36 mesi posto dall' art. 5 D.Lgs. 368/2001 , sia maturato pienamente in epoca antecedente il 13 maggio 2011, data di entrata in vigore del D.L. 70/2011 , che come detto ha espressamente escluso, a partire appunto da tale data, l'applicabilità a tale comparto dell'art. 5 co. 4 bis.
Tale sensazione, avvertita dalla più recente dottrina, sarebbe in attesa della programmata decisione della Corte Costituzionale di cui si è detto per esplicarsi in modo compiuto. In conclusione
La ricostruzione della tematica della legittimità del ricorso alla reiterazione dei contratti a termine da parte della P.A., con specifico riferimento al settore scolastico, dimostra chiaramente come si tratti di vicenda ancora lungi dall'essere sul punto di trovare il proprio assestamento definitivo.
Anche l'imminente pronuncia della Corte Costituzionale – in nome della quale, va osservato, diversi giudici di merito stanno rinviando le proprie decisioni sui contenziosi in atto – non sembra infatti avere con certezza portata risolutiva e definitiva.
A prescindere dalla tipologia di pronuncia che la Corte intenderà assumere, essa rimarrà in primo luogo inevitabilmente limitata alla questione oggetto di rimessione, e quindi non rivolta a situazioni diverse da quelle relative ai posti vacanti e disponibili sull'organico di diritto.
In seconda battuta, non è detto che tale pronuncia possa avere portata dirimente per quel che concerne l'esatta individuazione del danno concretamente risarcibile (oppure, come diversamente sostenuto in dottrina, della tipologia di sanzione di stampo “comunitario” da adottare a carico della P.A. che abbia abusivamente reiterato il ricorso a contratti a termine).
Rischia quindi di rimanere tendenzialmente irrisolto il vero dubbio di fondo che caratterizza la questione: la possibilità di ritenere che, a fronte di una stipula dei contratti a termine nel settore scolastico avvenuta in aderenza al tessuto legislativo vigente, il modus operandi del Governo italiano integri una chiara e ingiustificata elusione dei principi sanciti dalla Direttiva 99/70/Ce, sicché, non essendo prevista la misura ostativa del risarcimento del danno, l'unico energico e dissuasivo strumento di prevenzione dell'abuso debba individuarsi nella costituzione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo indeterminato secondo i criteri indicati nella sentenza Mascolo.
L. Flore, La disciplina dei contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana: stato della giurisprudenza e prospettive future, in Foro Amministrativo (Il), fasc.7-8, 2015, pag. 1864
M.D'oriano, Il danno ed il suo risarcimento nel diritto del lavoro – Gruppo di lavoro sul tema : “Il risarcimento del danno da violazione della normativa comunitaria e il risarcimento del danno da illegittima stipulazione dei contratti a termine nel pubblico impiego – in www.scuolamagistratura.it
L. Menghini, Sistema delle supplenze e parziale contrasto con l'Accordo europeo: ora cosa succederà?in Riv.it.dir.lav., I, 2015, 343 |