Offerta di conciliazione - Semplificazione e disintermediazione
21 Luglio 2015
Inquadramento
Già nelle premesse al D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, quello sul contratto a tutele crescenti, che richiamano la legge delega (L. 10 dicembre 2014, n. 183) in materia di riordino degli ammortizzatori, delle politiche attive e della disciplina dei rapporti di lavoro, vi è un esplicito riferimento all'esclusione della reintegrazione per i licenziamenti economici. L'istituto della reintegrazione, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, aveva trovato, già con la legge n. 92/2012, delle limitazioni nei casi di mancanza o insufficienza della motivazione nell'ambito dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (i cosiddetti licenziamenti economici) stabilendo unicamente un'indennità risarcitoria che andava da un minimo di 6 mensilità in caso di violazione dell'obbligo di motivazione fino a un massimo di 24 mensilità. Rimaneva però sempre una forcella ampia entro cui il Giudice poteva individuare la misura dell'indennizzo e ciò ha alimentato il contenzioso sui licenziamenti economici i quali, oltretutto, scontavano, per le aziende sottoposte alla tutela reale (quelle con più di 15 dipendenti) anche la procedura conciliativa avanti la Direzione Territoriale del Lavoro ove veniva esperito un tentativo di conciliazione, solo all'esito del quale era possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo. Se l'intento della procedura amministrativa era deflattivo, nella realtà dei fatti, si ritiene, non sia stato così perché, al di là di conciliazioni con indennizzi determinati in misura vicina al massimo previsto dalla legge, il lavoratore aveva, nella maggior parte dei casi, comunque interesse a percorrere la via giudiziaria per vedersi riconoscere la misura più alta possibile dell'indennizzo. Le disposizioni del D.Lgs. n. 23/2015 superando quello che, nella legislazione vigente, era un indennizzo per così dire “flessibile” la cui entità veniva demandata alla discrezionalità giudiziaria, hanno introdotto un'indennità proporzionale all'anzianità di servizio ma la cui quantificazione è predeterminata ed automatica (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio con un minimo di 4 e un massimo di 24). Inoltre, per i licenziamenti riferiti a rapporti di lavoro sottoposti al regime delle cosiddette tutele crescenti, viene esclusa la fase amministrativa prodromica al licenziamento. In concreto, il datore di lavoro, ma anche il lavoratore, conosce preventivamente quale sarà l'effetto - puramente economico - di un'eventuale declaratoria di illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per i lavoratori assunti a tutele crescenti. Ciò avrà, ad avviso di chi scrive, un concreto effetto deflattivo sul contenzioso in materia di licenziamenti poiché, soprattutto nelle ipotesi in cui si tratti di lavoratori con anzianità non elevate, anche il riconoscimento pieno dell'indennizzo previsto in caso di illegittimità del licenziamento, avrà una consistenza economica nella maggior parte dei casi inferiore a quello che sarebbe il costo anche della sola vertenza giudiziaria in termini di assistenza legale, gestione della fase processuale, ecc. La procedura
Ma il D.Lgs. n. 23/2015 ha introdotto anche un ulteriore meccanismo che agevolerà la composizione delle vertenze in materia di licenziamenti attraverso una procedura snella e informale. L'articolo 6, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 così recita: “In caso di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1, al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, del codice civile, e all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.” La norma esordisce esplicitando il suo scopo di evitare il giudizio anche se poi prevede comunque la necessità di formalizzare l'offerta di conciliazione in una delle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, codice civile (sede giudiziaria, sede sindacale, collegio di conciliazione e arbitrato, ecc) ovvero di cui all'articolo 76 D.Lgs. n. 276/2003 (le commissioni di certificazione istituite presso enti bilaterali, direzione provinciale del lavoro e università). Ma al di là del fatto che anche l'offerta di conciliazione sconti un passaggio, per così dire, formale, la sua valenza in termini di accelerazione delle procedure e superamento del contenzioso amministrativo e giudiziario è palese. Infatti il datore di lavoro, nei 60 giorni dalla data di decorrenza del licenziamento (da interpretarsi come data di formale comunicazione del provvedimento e non di sua effettiva decorrenza, ad esempio in caso di espletamento del preavviso), può offrire un importo di ammontare pari ad una mensilità di retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L'offerta deve essere formalizzata con la consegna al lavoratore di un assegno circolare la cui accettazione comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all'impugnazione dello stesso anche qualora il lavoratore l'avesse già proposta. In pratica l'offerta di conciliazione si concretizza nel riconoscimento al lavoratore di un indennizzo pari alla metà di quanto gli spetterebbe in caso di riconoscimento giudiziario dell'illegittimità del licenziamento. L'aspetto determinante dell'istituto dell'offerta di conciliazione, che probabilmente troverà ampio consenso e applicazione, risiede nel fatto che l'importo oggetto dell'offerta “non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale”. L'esonero fiscale e contributivo comporta che l'importo offerto ai fini conciliativi, da un lato, non ha ricarichi previdenziali per il datore di lavoro (ma ciò era già anche per gli indennizzi previsti dai precedenti diversi regimi) ma soprattutto non è sottoposto ad alcun tipo di tassazione per cui il lavoratore riceve un importo, corrispondente alla sua retribuzione mensile lorda, che però incassa come netto. È di tutta evidenza che, soprattutto per quei lavoratori che hanno un'aliquota fiscale marginale elevata, avendo retribuzioni consistenti, una mensilità lorda della loro retribuzione, incassata come netta, potrebbe non discostarsi molto, come importo, dalle due mensilità che il D.Lgs. n. 23/2015 prevede come indennizzo in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, sottoposte però a tassazione. L'istituto dell'offerta di conciliazione produce innegabili vantaggi. Per il datore di lavoro perché offrendo una mensilità per ogni anno di servizio dimezza quello che potrebbe essere il costo di un indennizzo riconosciuto in sede giudiziaria. Per il lavoratore perché, accettando l'offerta, riceve un indennizzo di misura inferiore a quello che potrebbe ottenere in sede giudiziaria, ma essendo l'importo non tassato la differenza tra i due tipi di indennizzo (un mese netto invece di due lordi) potrebbe risultare non significativa, e incasserebbe immediatamente l'intero indennizzo tramite assegno circolare. In ogni caso la vertenza si chiuderebbe nell'arco di 60 giorni dal licenziamento. Non solo la rapidità e la relativa informalità della procedura ma anche l'immediato incasso dell'intero indennizzo da parte del lavoratore rendono l'istituto dell'offerta di conciliazione particolarmente interessante. Non risulta siano già state emanate circolari applicative ma si ritiene che le stesse commissioni di conciliazione previste per la procedura dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo nei rapporti non regolati dalle tutele crescenti potrebbero diventare la sede naturale per la formalizzazione delle offerte di conciliazione, unitamente agli enti bilaterali. Ed è solo parzialmente comprensibile la necessità che l'offerta di conciliazione venga formalizzata in una di quelle che vengono definite le “sedi protette” poiché la predeterminazione della misura dell'indennizzo non rende necessario sottrarre il lavoratore al timore che potrebbe condizionarlo ove non fosse adeguatamente assistito. La scelta del lavoratore di accettare o meno l'offerta datoriale avviene a monte della sua formalizzazione, per cui, forse, non era indispensabile coinvolgere sovrastrutture per certificare una disponibilità che non ha margini di trattativa. Vogliamo dire che un conto è una trattativa tra datore di lavoro e lavoratore per la determinazione di un indennizzo che può variare tra un minimo e un massimo, ove la posizione del lavoratore può meritare una tutela in termini di assistenza, ma quando non vi è alcuna discrezionalità, se non quella di accettare o meno l'offerta, l'affiancamento del lavoratore appare pleonastico. Tutt'al più vi potrebbero essere questioni attinenti le modalità di calcolo della mensilità da prendere a base per l'indennizzo, ma anche in questo caso i componenti della commissione di conciliazione non potrebbero essere di grande aiuto se non conoscendo i dati salariali complessivi del lavoratore, i trattamenti aziendali e personali da lui goduti ecc. In ogni caso il lavoratore potrà anche chiedere un aggiornamento della riunione della commissione per poter verificare la congruità dell'offerta ovvero la correttezza dei metodi di calcolo.
L'articolo 6 del D.Lgs. n. 23/2015 ha previsto però un ulteriore adempimento e, cioè quello di integrare la comunicazione telematica della cessazione del rapporto con un'ulteriore comunicazione, da effettuarsi entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, ove deve essere indicato se l'offerta di conciliazione ha avuto esito positivo o meno. E l'omissione di tale comunicazione integrativa è sanzionata allo stesso modo della mancata comunicazione della cessazione del rapporto (lo ricordiamo punita con un la sanzione amministrativa pecuniaria da € 100 a 500 per ogni lavoratore interessato). In questo senso si è espresso anche il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con una nota protocollo 2788 del 27 maggio 2015 con la quale viene resa operativa dal 1 giugno 2015, data di attivazione del sistema informatico dedicato, la comunicazione obbligatoria in caso di intervenuta o mancata conciliazione dopo un licenziamento comminato ad un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ovvero per lavoratori che hanno trasformato il rapporto di lavoro a termine o di apprendistato in rapporto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015. In conclusione
Un profilo di criticità lo si può intravedere nel fatto che la comunicazione integrativa deve essere effettuata entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto ma ben potrà avvenire che il lavoratore impugni il recesso nell'imminenza della scadenza dei 60 giorni, il datore di lavoro formuli l'offerta di conciliazione inoltrando la richiesta alla commissione competente e questa non riesca a convocare le parti nell'arco di cinque giorni ovvero il lavoratore chieda un differimento della riunione per effettuare le opportune valutazioni. In tutti questi casi potrà avvenire che la conciliazione, o la mancata conciliazione, vengano formalizzate oltre i 65 giorni dalla data del licenziamento comportando così, stando alla lettera della legge, la violazione dei termini di comunicazione e l'applicazione della relativa sanzione. Su tale aspetto sarà opportuna un'interpretazione chiarificatrice da parte del Ministero del Lavoro onde evitare, in ogni caso, sanzioni ingiustificate ma anche illogiche restrizioni delle tempistiche necessarie per addivenire, con adeguata ponderazione da parte del lavoratore, alla decisione se accettare o meno l'offerta datoriale. La giustificazione della comunicazione integrativa parrebbe trovare la sua ragion d'essere nella necessità di monitoraggio del mercato del lavoro ma avrebbe avuto più senso se, come in fattispecie analoghe, la mancata accettazione dell'offerta da parte del lavoratore potesse essere valutata ai fini delle spese legali dal giudice investito della vertenza conseguente all'impugnazione del licenziamento. Lo scrivente nell'esprimere una valutazione personale segnala che l'istituto dell'offerta di conciliazione rappresenta un considerevole passo avanti nella semplificazione del contenzioso sui licenziamenti ma uno degli aspetti che sarebbero stati fondamentali, e cioè l'eliminazione della presenza necessaria di sovrastrutture esterne (commissioni di conciliazione) non ha avuto adeguata attenzione mantenendo così quei meccanismi di intermediazione nei rapporti di lavoro che non sempre sono necessari, non solo per la snellezza delle procedure, ma anche perché rappresentano oneri e costi aggiuntivi non sempre giustificati.
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