Fondo pensione chiuso preesistente e modifiche statutarie introdotte con successivi accordi collettivi incidenti sul diritto pensionistico in via di maturazione

04 Gennaio 2017

Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma del regolamento (concorrente con la fonte individuale). Nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole - che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, secondo cui il divieto di deroga in pejus posto dall'art. 2077 c.c. è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo e non viceversa -, mentre i rapporti di successione temporale tra contratti sono regolati dal principio della libera volontà delle parti stipulanti. Cosicché, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche se in seguito sfavorevoli al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti (nel caso di specie la suprema Corte ha giudicato infondata la pretesa del lavoratore a non subire le modifiche apportate allo statuto del Fondo pensione da successivi accordi collettivi e a conservare il diritto pensionistico nella configurazione originaria, correlata alla organizzazione del fondo quale regime a prestazione definita).
Massima

Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma del regolamento (concorrente con la fonte individuale).

Nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole - che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, secondo cui il divieto di deroga in pejus posto dall'art. 2077 c.c. è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo e non viceversa -, mentre i rapporti di successione temporale tra contratti sono regolati dal principio della libera volontà delle parti stipulanti.

Cosicché, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche se in seguito sfavorevoli al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti (nel caso di specie la suprema Corte ha giudicato infondata la pretesa del lavoratore a non subire le modifiche apportate allo statuto del Fondo pensione da successivi accordi collettivi e a conservare il diritto pensionistico nella configurazione originaria, correlata alla organizzazione del fondo quale regime a prestazione definita).

Il caso

La controversia de quo, giunta all'esame di legittimità dopo contrastanti pronunce nei due gradi di merito, è stata promossa da un lavoratore entrato in servizio nel 1975 e da subito iscritto alla forma di previdenza aziendalmente in essere, la quale - attraverso successivi accordi aziendali - veniva sottoposta a una serie notevole di modificazioni, ritenute, dalle parti sindacali, meglio idonee a garantire l'operatività del fondo nell'innovato quadro legislativo di cui al D.Lgs. n. 124/1993 (c.d. T.U. della previdenza complementare, oggi sostituito dal D.Lgs. n. 252/2005, che però non si discosta dal precedente per i profili considerati).

Il Fondo pensione in questione si caratterizzava, in origine, quale regime a prestazioni definite, ma, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 124/1993, le parti sociali aziendali ritennero l'opportunità di passare, per tutti gli iscritti, allo “schema a contribuzione definita” a capitalizzazione individuale, cioè al modello principale (sebbene non esclusivo) di riferimento del nuovo sistema legale della previdenza complementare.

In pratica, l'azienda e le organizzazioni sindacali, con successivi accordi, hanno attuato il complessivo passaggio del regime pensionistico aziendale al modello a contribuzione definita, specificando e quantificando l'ammontare delle posizioni individuali degli iscritti (i c.d. “zainetti”), cioè dividendo fra essi la dotazione complessiva - atteso che il modello a prestazioni definite di solito non individua ex ante le posizioni dei singoli.

Determinata la consistenza dei conti individuali dei lavoratori nel fondo, questi poteva optare fra specifiche soluzioni alternative (o addirittura riscattare lo zainetto); era stato poi contrattualmente disposto l'automatico passaggio a fondo aperto a contribuzione definita per coloro, fra cui il ricorrente, non avessero esercitato l'opzione nel termine fissato.

In sintesi, la pretesa vantata e agita dal ricorrente è quella a conservare invece il diritto pensionistico nella sua configurazione originaria e ciò in quanto, a suo dire - per un articolato ordine di motivi, disattesi dalla Cassazione (secondo quanto si evidenzia nel seguito) - gli accordi collettivi succedutisi a modifica della struttura originaria del fondo pensione dovevano ritenersi non in grado di incidere sulla posizione pensionistica individuale in via di maturazione.

Le questioni

Va detto che accordi sindacali di tal fatta hanno avuto - negli anni novanta e primi anni duemila - ampia diffusione in tutto il settore bancario, e, in particolare. in quello delle Casse di Risparmio (nel caso di specie proprio di un dipendente di Cassa di Risparmio si tratta), nel quale (ante legislazione del 1993) erano capillarmente diffusi Fondi pensione a prestazioni definite integrativi della prestazione dell'INPS, ai sensi dei cui statuti la pensione complementare era determinata con gli stessi parametri di quella dell'Ente previdenziale (che all'epoca era calcolata con il metodo c.d. retributivo), ma sulla base di aliquote di rendimento e retribuzione pensionabile più vantaggiose, tali da garantire una quota di integrazione del trattamento di base.

Nel rinnovato quadro legislativo della previdenza complementare, il passaggio dei fondi preesistenti a prestazioni definite, al modello a contribuzione definita risultava incoraggiato anche dal fatto che - a far tempo dal 28 aprile 1993 - detti regimi, in parte improntati al principio della ripartizione, non potevano più contare su apporti contributivi da parte di nuove classi di iscritti (attesa l'esclusione ex art. 18, comma 8, D.Lgs. n. 124/1993): nel nuovo contesto, i vecchi iscritti venivano a formare una collettività a gruppo chiuso, senza più il finanziamento delle nuove generazioni.

Detto ciò, la vicenda sottoposta al giudizio della Cassazione ha a che vedere, fondamentalmente, con i diritti pensionistici quali fattispecie giuridiche a formazione progressiva, che vengono a maturazione in un certo (prolungato) arco temporale, solo al compimento del quale raggiungono la “dignità” di diritti quesiti.

Nel caso di specie, poi, stante il radicamento nella autonomia intersindacale della fattispecie, il tema si innesta su quello – afferente alla successione dei contratti collettivi nel tempo – dei limiti che possano incontrare gli accordi sindacali volti a modificare situazioni giuridiche soggettive in via di maturazione, riconosciute da accordi precedenti.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza n. 23525/2016, rigettando il ricorso e confermando i contenuti del pronunciamento d'Appello, esclude il fondamento della pretesa attorea al mantenimento del diritto pensionistico complementare nella connotazione originaria; una tale pretesa, infatti, può essere legittimamente avanzata soltanto da chi, al riguardo, vanti un diritto quesito cioè perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi.

I diritti pensionistici sono, tipicamente, fattispecie a formazione progressiva e si perfezionano solo con il raggiungimento di tutti i requisiti previsti: anagrafici (età di vecchiaia), contributivi (numero/anni di contributi versati) e relativi alla cessazione del rapporto di lavoro.

Assumono altresì rilievo nella fattispecie le regole che disciplinano i rapporti e i poteri dei contratti collettivi nella loro successione temporale ed in rapporto con i contenuti dei contratti individuali di lavoro cui si riferiscono. Al riguardo, la sentenza in commento rammenta reiteratamente che i rapporti di successione temporale tra contratti collettivi sono regolati dal principio di libera volontà delle parti stipulanti, cosicché le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive, anche se sfavorevoli al lavoratore, con il solo limite dei diritti già maturati (Cass. sez. lav., n. 13960/2014; Cass. sez. lav., n. 21234/2007).

In aggiunta, con riguardo ai rapporti fra autonomia collettiva e individuale, viene negata validità ad argomentazioni facenti leva su un asserito inglobamento, nel contratto di lavoro individuale, di quanto (originariamente) riconosciuto - in termini di diritti pensionistici - dalla contrattazione collettiva.

È giurisprudenza costante quella che esclude la pretesa del lavoratore, al mantenimento - come definitivamente acquisito al suo patrimonio - di un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente o sostituita da altra successiva, in quanto “le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma del regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale, secondo cui il divieto di deroga in pejus posto dall'art. 2077 c.c., è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo, non viceversa” (cfr. anche Cass. sez. lav., n. 3982/2014).

La Corte di Cassazione conferma, infine, la coerenza della sentenza di appello nella parte in cui dichiara l'irrilevanza della non totale coincidenza fra le organizzazioni sindacali che hanno partecipato ai successivi accordi, stante la possibilità d'intervenire a modificare gli accordi aziendali mediante la “stipula di nuovi con le Organizzazioni sindacali maggioritarie, senza la necessità della formale adesione di tutte le sigle, in ragione della strutturale natura gestionale indivisibile di determinati accordi di riassetto delle relazioni in ambito aziendale”.

Parimenti, la Cassazione rileva che resta inconferente, nella valutazione della vertenza, la circostanza che la fattispecie considerata si sia svolta nel quadro di un processo di cessione d'azienda (ex art. 2112 c.c.), che ha visto la fusione per incorporazione dell'azienda originaria titolare del fondo pensione de quo agitur.

Osservazioni

Per una completa valutazione della questione, è bene rammentare che la distinzione fra regimi “a prestazioni definite” e “a contribuzione definita” – in evidenza nel caso in esame – ha a riguardo la distribuzione dell'alea contrattuale.

Nei primi, i contributi sono una variabile dipendente dalla prestazione, che, in quanto predeterminata, deve essere comunque garantita: ciò può tradursi in incrementi della contribuzione a carico delle parti obbligate, nel caso in cui si accerti l'insufficienza dell'aliquota iniziale ad integrare la prestazione promessa. Tali fondi attuano una capitalizzazione collettiva delle risorse (ispirata a criteri di solidarietà mutualistica, anche fra le varie coorti di iscritti, senza conti individuali) e adottano, nella definizione del bilancio tecnico, correttivi di ordine attuariale. Il rischio di maggiori costi della prestazione è in ogni caso a carico del fondo e delle fonti di finanziamento.

Nei regimi a contribuzione definita (e a capitalizzazione individuale) vale la regola inversa, è cioè la prestazione a essere variabile dipendente dei contributi versati e, soprattutto, della capacità del gestore finanziario di farli “fruttare” e produrre un reddito. L'alea dell'operazione si sposta dal fondo all'iscritto.

Proprio in virtù delle divergenti caratteristiche dei due modelli e del fatto che il primo può incidere, più dell'altro, sulla stabilità del fondo e quindi del sistema, il D.Lgs. n. 124/1993 ha escluso che le forme di previdenza complementare rivolte ai lavoratori dipendenti possano atteggiarsi quali regimi a prestazioni definite, con l'unica eccezione dei fondi preesistenti (cioè già operativi prima del 15 novembre 1992, data di entrata in vigore della Legge Delega n. 503/1992) i quali hanno potuto preservare l'originaria struttura (a prestazioni definite), ma solo con riguardo ai lavoratori ad essi già iscritti all'entrata in vigore della considerata normativa (art. 18, comma 8).

In ragione di tale aspetto, i fondi pensione preesistenti a prestazioni definite, per operare anche nei confronti dei restanti lavoratori hanno dovuto o dotarsi di apposita, distinta sezione a contribuzione definita per i “nuovi iscritti”, ovvero riorganizzarsi complessivamente, abbandonando il modello a prestazioni predeterminate e passando in toto all'altro.

Come visto, è proprio una riorganizzazione di tal fatta – attuata dalle fonti collettive – che ha avuto luogo nel caso di specie e la insussistenza di un legittima pretesa del lavoratore a non subirne gli effetti si correla alla non avvenuta maturazione, a suo vantaggio, di un diritto soggettivo pensionistico, posto che la modificabilità da parte di contratti collettivi di situazioni riconosciute da contratti pregressi incontra il solo limite dei diritti quesiti, i soli acquisiti definitivamente al patrimonio giuridico individuale, quindi formalmente intangibili.

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