Mobbing e intento persecutorio quale elemento aggregante di tutti gli episodi vessatori

Antonio Dibitonto
22 Febbraio 2016

Il rigetto della domanda di mobbing per difetto di prova non preclude la condanna del datore di lavoro a risarcire il danno da dequalificazione professionale poiché quest'ultima, essendo ricompresa nella prima, non costituisce domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico.
Massima

Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato costituisce condotta “mobbizzante” il complesso di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere dai componenti di un gruppo di lavoro o dal datore di lavoro nei riguardi di un lavoratore, caratterizzati da un intento persecutorio e di emarginazione dello stesso, al fine primario di escluderlo dal gruppo. Sono elementi costitutivi del mobbing, dunque, i comportamenti persecutori, illeciti o anche leciti, singolarmente considerati, che con finalità vessatorie siano posti in essere contro la vittima in maniera sistematica e prolungata nel tempo, l'evento lesivo della salute della personalità o della dignità del lavoratore, il nesso eziologico tra le condotte ed il pregiudizio subito dalla vittima e l'intento persecutorio.

Il caso

Un lavoratore subordinato promuoveva azione per mobbing contro la società datrice di lavoro sostenendo di aver patito un danno causato da un preteso demansionamento.

Il Tribunale adito rigettava la domanda.

La Corte territoriale, invece, sull'appello del lavoratore, in riforma della sentenza di primo grado, condannava la società datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità dopo aver ritenuto provato sia il demansionamento, individuato nell'essere stato il lavoratore tenuto inattivo per un periodo di tempo non trascurabile, sia il danno da perdita di professionalità, sia il nesso eziologico tra la mancata assegnazione di mansioni al lavoratore e la lesione alla sua integrità psicofisica. Escludeva, però, che tale condotta integrasse gli estremi del mobbing.

Le questioni

La società datrice di lavoro, con il ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, ha imbastito la propria difesa sulla questione della qualificazione della domanda, affidando ai temi più strettamente giuslavoristici una posizione di sostegno in relazione alla dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. allorché la Corte d'Appello adita aveva disposto il risarcimento del danno biologico nonostante avesse rigettato, per difetto di prova, la domanda di mobbing.

In altre parole, parte ricorrente ha posto la questione di come il Giudice di secondo grado, in presenza di una domanda di mobbing e di risarcimento dei danni da esso causati, dopo aver escluso il mobbing, avesse potuto condannarla a risarcire il danno biologico ed alla professionalità sulla base di un asserito demansionamento, richiamato unicamente nella narrativa del ricorso senza che la domanda fosse stata, poi, postulata in via di subordine.

Le soluzioni giuridiche

I Giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo qui in esame ritenendo che la Corte territoriale non sia incorsa in alcun errore nel momento in cui ha ritenuto che nella domanda risarcitoria per danni da mobbing fosse compresa anche quella “di portata e contenuto meno ampio, di risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, conseguente allo stato di inattività o di scarsa utilizzazione del lavoratore”.

Tanto i Giudici di Cassazione hanno affermato all'esito dell'esegesi dell'intera domanda giudiziale e delle conclusioni rassegnate laddove il lavoratore, oltre al danno derivante dalla lesione psicofisica che assumeva aver subito, aveva chiesto pure il danno prodotto dalla lesione della sua professionalità generato dai comportamenti persecutori ed arbitrari posti in essere dalla società datrice di lavoro e da alcuni colleghi di lavoro.

Nessuna censura, perciò, alla Corte territoriale allorché, dopo aver escluso la natura mobbizzante della condotta, ha tuttavia ritenuto quest'ultima contraria ai precetti contenuti nell'art. 2103 c.c.

La Corte di Cassazione, infatti, al riguardo ha chiarito che affinché possa parlarsi di mobbing è necessario il concorso di più elementi ed in particolare:

  1. l'insieme dei comportamenti, protratti nel tempo, anche in sé leciti o giuridicamente insignificanti se considerati da soli ma rilevanti se valutati in una ottica complessiva, posti in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto o dal gruppo di lavoro in cui la vittima è inserita, di natura persecutoria e con fini vessatori e di emarginazione;
  2. l'evento di danno per la salute, la personalità o la dignità del lavoratore;
  3. il nesso di causalità tra le condotte de quibus e la lesione patita dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
  4. l'intento persecutorio inteso quale filo conduttore ed elemento aggregante di tutte le condotte lesive.

I Giudici della Suprema Corte, dunque, su tali postulati hanno concluso che in assenza di un intento vessatorio e persecutorio non può parlarsi di mobbing senza che ciò possa escludere che i comportamenti posti in essere possano essere giuridicamente valutati in altro modonell'ambito dei medesimi fatti allegati e delle conclusioni rassegnate” poiché, in una tale fattispecie, non è a parlarsi di domanda nuova ma solo di diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico.

L'esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni, infatti, può ben rappresentare “fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove legato eziologicamente all'inadempimento del datore di lavoro”.

Osservazioni

I Giudici di Cassazione, con la sentenza in esame riprendono la linea di pensiero segnata della precedente sentenza n. 18927 emessa in data 5 novembre 2012, sempre dalla sezione lavoro, e ribadiscono il principio secondo cui il Giudice, in presenza di una pluralità di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o da chi per lui o da altri colleghi di lavoro della vittima, ancorché non possa configurarsi un'ipotesi di mobbing per difetto dell'intento persecutorio quale elemento aggregante tutti gli episodi vessatori e mortificanti per il lavoratore, è tenuto a valutare questi ultimi nella loro singolarità e “sequenza causale” al fine di verificare se il datore di lavoro “possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

A tale attività, hanno osservato i Giudici del 2012, non è d'ostacolo la circostanza secondo cui la domanda nel libello introduttivo è formulata in termini di mobbing poiché si versa in tema di interpretazione e determinazione della domanda e, cioè, della sua esatta qualificazione giuridica che rappresenta un potere-dovere del giudice e che può svolgersi anche in maniera differente rispetto a quanto prospettato dalla parte. Tanto in ossequio ai principi iura novit curia e di legalità contenuti nell'art. 113 c.p.c. Posizione, questa, condivisibile nei limiti in cui il Giudice non modifichi i fatti allegati dalle parti nell'ambito del processo o vi introduca fatti nuovi; cosa che non sembra sia avvenuta nel caso di specie poiché non pare sia stato varcato il limite sostanziale della impossibilità di modificare i fatti di causa.

Nel quadro così tratteggiato si innesta quella giurisprudenza di legittimità, ripresa dalla sentenza in commento, che afferma che il danno da dequalificazione e quello da mobbing soggiacciono a prove distinte poiché l'architettura probatoria legata alla dequalificazione non necessita che sia dimostrata la volontà oppressiva e vessatoria da parte del datore di lavoro e, qualora non vi sia prova dell'intento persecutorio, non si concretizza mobbing. Interessante al riguardo è Cass. sez. lav., 23 luglio 2012, n. 12770 che, nello stigmatizzare i principi de quibus,afferma in maniera condivisibile che “il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento” anche se non configura mobbing.

La sentenza scrutinata, poi, al fine di offrire adeguata motivazione, ha curato una breve annotazione sul mobbing sottolineando come affinché l'istituto de quo possa ritenersi sussistente è necessario che più comportamenti di per loro anche leciti se esaminati singolarmente, convergano, in maniera univoca, a concretizzare un intento vessatorio e persecutorio.

Punto di partenza di tale attività definitoria è la sentenza della Corte Costituzionale n. 359 del 19 dicembre 2003 che va apprezzata per sintesi, chiarezza e contenuti.

I Giudici delle leggi, infatti, dopo aver ben posto in evidenza che il mobbing è un istituto di derivazione dottrinale e giurisprudenziale e, dunque, svincolato da norme ad hoc che lo disciplinano, lo caratterizzano come un fenomeno appartenente ad un contesto “etologico e sociologico” da individuarsi in “una serie di atti e comportamenti vessatori, di tipo commissivo od omissivo - magari in sé leciti o da soli giuridicamente insignificanti, ma elementi rilevanti in una ottica complessiva - protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore, destinatario e vittima, da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui egli è inserito o del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione”.

Il mobbing, dunque, nella chiave di lettura data dai Giudici costituzionali, viene visto come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro” che sfocia, generalmente, in stati ansiosi e depressivi, attacchi di panico, ipertensione, disturbi del sonno e della sessualità, difficoltà nel relazionarsi nella vita sociale e familiare. Condizione, quest'ultima, che può anche sfociare in quello che è stato definito “doppio mobbing” laddove il mobbizzato se prima trova conforto e comprensione nella moglie e nei figli, poi, nel tempo, logora anche la famiglia che in una sorta di inconscia autotutela, si chiude in se stessa e finisce, suo malgrado, per marginalizzarlo (H. Ege, “Il fenomeno del mobbing: prevenzione, strategie, soluzioni”).

Apprezzabile, poi, è anche il richiamo che i Giudici costituzionali fanno all'art. 2087 c.c. che in assenza di specifiche norme regolatrici, quale norma di chiusura del sistema protettivo dell'integrità psicofisica del lavoratore, assume una posizione centrale nella salvaguardia della c.d. “personalità morale” del lavoratore ponendo in capo all'imprenditore il connesso dovere di cui il mobbing rappresenta, appunto, una violazione.

In conclusione, quindi, il demansionamento del lavoratore può integrare una fattispecie di mobbing a condizione, però, che sia stato posto in essere con dolo mediante una serie di comportamenti, finalisticamente convergenti, di carattere persecutorio e vessatorio protratti nel tempo. In difetto non potrà parlarsi di mobbing, ma il Giudice potrà comunque valutare i fatti sotto il diverso profilo del danno da dequalificazione professionale nei limiti e nel rispetto dei principi di cui agli artt. 112 e 113 c.p.c.