Onere della prova della “insussistenza” del fatto materiale

24 Maggio 2017

L'onere della prova della legittimità del licenziamento disciplinare è integralmente in capo al datore di lavoro anche in regime di contratto di lavoro cd. a tutele crescenti.
Massime

L'onere della prova della legittimità del licenziamento disciplinare è integralmente in capo al datore di lavoro anche in regime di contratto di lavoro cd. a tutele crescenti.

La locuzione “direttamente dimostrata”, utilizzata dal Legislatore del 2015, non determina uno sdoppiamento dell'onere probatorio tale per cui spetterebbe al datore di lavoro la dimostrazione dell'esistenza del giustificato motivo o della giusta causa e a carico del lavoratore la dimostrazione dell'insussistenza del fatto contestato.

Il caso

Una società di spedizioni comminava un licenziamento disciplinare ad un corriere sulla base del seguente addebito: aver caricato sul furgone tre pacchi senza aver inserito il codice di presa in carico e non averli regolarmente consegnati ai clienti.

Il lavoratore agiva in giudizio per far accertare l'insussistenza del fatto contestato con conseguente dichiarazione di illegittimità del licenziamento ed applicazione del regime di reintegrazione cd. attenuato previsto dal D.Lgs. n. 23/2015 (contratto a tutele crescenti).

L'istruttoria orale espletata si era caratterizzata – per usare le parole del Giudice – per le “gravi lacune ed ingiustificate incongruenze nelle deposizioni testimoniali”.

Le questioni

L'art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 prevede, in generale, per il caso di licenziamento disciplinare illegittimo la tutela indennitaria.

Per il solo caso in cui ”sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, il comma successivo, prevede invece l'applicazione del regime reintegratorio a tutela indennitaria attenuata.

Posto che il datore di lavoro non ha alcun interesse a dimostrare l'insussitenza del fatto contestato, secondo alcuni commentatori tale onere della prova sarebbe posto in capo al lavoratore, in deroga all'art. 5, L. n. 604/1966, che pone a carico del datore di lavoro l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.

Le soluzioni giuridiche

Disattendendo l'opzione interpretativa menzionata al paragrafo precedente, il Giudice ha ricondotto le previsioni dell'art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 entro l'alveo del tradizionale riparto degli oneri probatori in materia di licenziamento disciplinare.

Il ragionamento prende le mosse dalla considerazione per cui lo sdoppiamento dell'onere probatorio, che taluno ha ritenuto discendere dalla criptica formulazione dell'art. 3, comma 2, si porrebbe in diretto contrasto con la previsione di cui all'art. 5, L. n. 604/1966, non modificata dalla nuova normativa in esame.

L'art. 5 prevede espressamente che l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo sia totalmente in capo al datore di lavoro.

Posto che la dimostrazione della giusta causa non può che implicare quella della sussistenza o meno del comportamento contestato al lavoratore, lo sdoppiamento dell'onere probatorio di cui si discute, non è nemmeno logicamente configurabile.

Da tale considerazione discende l'opzione interpretativa per cui il regime reintegratorio attenuato debba ritenersi applicabile tutte le volte in cui il datore di lavoro non riesca a dimostrare la giusta causa consistente nella sussistenza del fatto contestato. Ciò in quanto, qualora non vi riesca, deve dedursi a contrario che sia stata direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Ad abundantiam il Giudice rileva, poi, che tale interpretazione deve dirsi necessitata anche in virtù dell'art. 24 Cost. Il principio di vicinanza della prova posto dalla norma costituzionale implica infatti che la legge debba interpretarsi in modo da evitare che l'esercizio del diritto di difesa risulti eccessivamente gravoso, se non addirittura impossibile. E porre la prova dell' “insussistenza” del fatto materiale in capo al lavoratore violerebbe questo principio, anche sulla base della nota difficoltà che accompagna la dimostrazione di fatti negativi, che spesso si rivela essere una probatio diabolica.

Inoltre, qualora si interpretasse il disposto normativo ancor più rigidamente, sino a ritenere che non solo l'onere probatorio del fatto negativo sia in capo al lavoratore, ma l'espressione “direttamente dimostrata in giudizio” sia da intendersi in termini di impossibilità di ricorrere alla prova per presunzioni ex art. 2727 c.c., emergerebbe un ulteriore profilo di contrasti con l'art. 24 Cost., dal momento che la prova indiretta è normalmente usata per accertare fatti negativi.

Sulla scorta di tale ragionamento, il Giudice ha ritenuto non sussistente il fatto materiale contestato al lavoratore e applicabile, nel caso de quo, il regime reintegratorio.

Osservazioni

La sentenza in commento, a quanto consta, è la prima pronuncia pubblicata che affronta direttamente e compiutamente il delicato profilo processuale del tema dell'onere della prova del fatto posto alla base del licenziamento disciplinare, prendendo esplicita posizione sul punto.

La problematica sollevata dalla formulazione dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 trae origine dalla “battaglia” che da ormai quasi un quinquennio sembra svolgersi fra giurisprudenza e legislatore sulla estensione della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare illegittimo.

Come è noto, la cd. Legge Fornero (L. n. 92/2012), fra i vari obiettivi che si prefiggeva, perseguiva l'intento di rendere la tutela reintegratoria una misura di carattere eccezionale. Per quanto attiene il licenziamento disciplinare, essa sarebbe dovuta intervenire solo in caso di “insussistenza del fatto contestato”. Senonché tale formula, di chiaro stampo penalistico e di difficile interpretazione in campo lavoristico, si è rivelata largamente insufficiente a circoscrivere la tutela reintegratoria entro gli stretti confini a lei riservati dal Legislatore.

E mentre in dottrina si affrontavano i più appassionati dibattiti sull'individuazione dei presupposti della tutela reintegratoria, la giurisprudenza si è ben presto orientata nel ritenere che l'insussistenza del “fatto” contestato al lavoratore non potesse che essere interpretato come insussistenza del “fatto giuridico”. In altri termini, la giurisprudenza ha ritenuto che il “fatto” non fosse da intendersi nella sua mera materialità ma nella sua dimensione giuridica, comprensiva, cioè, sia della sua antigiuridicità e sia dell'elemento soggettivo.

Il prevalere della teoria del “fatto giuridico” ha consentito di superare gli evidenti paradossi della teoria del fatto materiale, quali ad esempio l'operatività della sola tutela indennitaria pur in presenza di contestazioni di fatti non rilevanti disciplinarmente, o in caso di pretestuosità degli addebiti. Tuttavia essa, a ben vedere, finisce per far coincidere il giudizio di giustificatezza del licenziamento con quello della sussistenza del fatto e comporta, quale effetto pratico, la tendenziale operatività della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare illegittimo. Con ciò disattendendo completamente gli obiettivi perseguiti dal Legislatore del 2012.

In quest'ottica debbono essere interpretate le disposizioni del D.Lgs. n. 23/2015 (cd. contratto di lavoro a tutele crescenti). Il Legislatore, all'art. 3 effettua un secondo tentativo di circoscrivere l'operatività della tutela reintegratoria. Essa, nel contratto a tutele crescenti, è prevista nel caso in cui sia “direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

Tale disposizione ha posto (almeno) due grossi problemi interpretativi. Uno, quello ormai “classico” della razionalizzazione della locuzione “fatto materiale” (su cui si v. Cass. n. 20540/2016; Cass. sez. lav., n. 18412/2016). L'altro, quello affrontato dalla sentenza in commento, circa l'onere della prova della insussistenza di detto fatto.

Secondo alcuni dei primi commenti della norma, essa imporrebbe un anomalo sdoppiamento dell'onere probatorio relativo all'esistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento illegittimo. Essa, difatti, porrebbe in capo al datore di lavoro l'onere della prova “positiva” (ossia della esistenza del fatto) e in capo al lavoratore quella “negativa” (ossia della sua inesistenza).

Peraltro, dal mancato assolvimento dell'onere probatorio sussistente in capo alle parti, discenderebbero effetti profondamente diversi: in caso di mancato assolvimento dell'onere della prova “positiva” da parte del datore di lavoro vi sarebbe solo la tutela indennitaria; in caso di assolvimento del proprio onere probatorio da parte del lavoratore vi sarebbe la tutela reintegratoria. E ciò, nonostante in entrambe le ipotesi si sia dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto contestato al lavoratore.

La sentenza in commento rifiuta una simile interpretazione della norma sulla base di una serie di argomentazioni logico-sistematiche difficilmente controvertibili.

Innanzi tutto occorre prendere le mosse dalla osservazione per cui distinguere fra prova della insussistenza del fatto contestato e prova della giusta causa è (forse) possibile solo a livello teorico. Al livello pratico, invece, la prova della giusta causa, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, non può che consistere nella prova della sussistenza del fatto contestato.

Poiché la prova della giusta causa è posta in capo al datore di lavoro ex art. 5, L. n. 604/1966, la previsione per cui debba essere “direttamente provata in giudizio l'insussistenza del fatto” non può che essere interpretata nel senso che la tutela reintegratoria operi in tutti i casi in cui il datore di lavoro non dimostri in giudizio la sussistenza del fatto contestato.

In altri termini la previsione di cui si discute è da ricondurre al tentativo del legislatore di circoscrivere l'ambito della tutela reintegratoria ai casi più gravi, ma, per le ragioni esaminate, non può incidere sull'onere probatorio posto in capo alle parti.

Simile lettura, peraltro, non è solo necessitata dalla ragion pratica, essa è una lettura costituzionalmente necessitata laddove si consideri che la prova di un fatto negativo che si vorrebbe porre in capo al lavoratore, nella maggior parte dei casi si risolverebbe nell'essere una prova impossibile. In tali casi, l'onere della prova si porrebbe, come osservato dal Giudice, in insanabile contrasto con l'art. 24 Cost. cui si aggiungono, a parere di chi scrive, dei dubbi ex art. 3 Cost. discendenti dall'applicazione di due regimi sanzionatori profondamente diversi, laddove l'insussistenza del fatto contestata sia dimostrata “in positivo” o in “negativo”.

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