La responsabilità civile del datore di lavoro nella giurisprudenza di legittimità

24 Agosto 2017

La responsabilità del datore di lavoro per rischio professionale non è sufficiente per ottenere anche la tutela risarcitoria, che presuppone l'accertamento della responsabilità per colpa datoriale. Neanche l'art. 2087 c.c., infatti, che contiene un obbligo generico di prevenzione, contempla un'ipotesi di responsabilità oggettiva, cosicché per ottenere il risarcimento la vittima deve dimostrare che il comportamento del datore di lavoro sia qualificato da uno specifico disvalore.
La responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali

Ogni volta che un infortunio sul lavoro o una malattia professionale siano la conseguenza di un fatto illecito, la vittima ha diritto di ricevere sia l'indennizzo dall'INAIL, qualora si considerino realizzati i presupposti selettivi di ammissione alla tutela assicurativa, sia il risarcimento del danno alla persona dal responsabile civile.

Se, in principio, la nozione di rischio professionale ha consentito il superamento del principio di diritto comune della responsabilità per colpa, obbligando il datore di lavoro a rispondere, tramite l'assicurazione obbligatoria da lui finanziata (L. n. 80/1898), anche dei danni derivati da caso fortuito, per cause di forza maggiore o anche per colpa dello stesso lavoratore, con il solo limite del rischio elettivo, il diritto al risarcimento integrale, in assenza di tutela sociale, ovvero nei limiti del danno differenziale, se il lavoratore ha ricevuto l'indennizzo assicurativo, è rimasto da sempre ancorato alla dimostrazione della responsabilità colposa del datore di lavoro, “dal momento che, neppure nell'ordinamento del lavoro, è, comunque, penetrata, sino alle sue estreme conseguenze, l'idea della responsabilità civile (oggettiva) per rischio professionale” (Cass. sez. lav., 27 marzo 2012, n. 6002).

Neanche l'art. 2087 c.c., in base al quale “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, definito norma a contenuto atipico e residuale perché stabilisce un generale “dovere di sicurezza” (Cass. civ., sez. VI, 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. sez. lav., 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. sez. lav., 21 febbraio 2004, n. 3498; Cass. sez. lav., 25 agosto 2003, n. 12467; Cass. sez. lav., 30 luglio 2003, n. 11704), ha consentito di annullare la previsione della responsabilità civile per colpa, certamente ampliatasi nel corso del tempo, stante l'obbligo assoluto di protezione dell'incolumità fisica e morale del lavoratore, imposto dalla Carta costituzionale (artt. 32 e 41, Cost.) e poi interpretato in termini severi dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Trattandosi di responsabilità colposa di natura contrattuale, poiché l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. diviene per legge (art. 1374 c.c.) parte integrante del contratto individuale di lavoro, trova applicazione il riparto degli oneri probatori di cui all'art. 1218 c.c., in base al quale il creditore che agisce per il risarcimento del danno deve provare la fonte del suo diritto, il danno e la sua riconducibilità al titolo dell'obbligazione (Cass. S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533).

Al momento dell'applicazione del riparto degli oneri probatori, tuttavia, la Suprema Corte si è divisa sulla necessità o meno di provare da parte della vittima il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro.

In particolare, secondo un orientamento giurisprudenziale di legittimità, rivelatosi minoritario, il lavoratore infortunato deve allegare e provare “l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno e del nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione di lavoro”, spettando, invece, al datore di lavoro la prova di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza (Cass. sez. lav., 28 ottobre 2016, n. 21882; Cass. sez. lav., 3 giugno 2014, n. 12358; Cass. sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17585; Cass. sez. lav., 22 dicembre 2011, n. 28205; Cass. sez. lav., 26 giugno 2009, n. 15078; Cass. sez. lav., 13 agosto 2008, n. 21590; Cass. sez. lav., 23 aprile 2008, n. 10529; Cass. sz. lav., 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. sez. lav., 24 febbraio 2006, n. 4184; Cass. sez. lav., 21 dicembre 1998, n. 12763).

Di contro, secondo un più consistente orientamento, il lavoratore infortunato deve allegare e dimostrare il danno patito, l'inadempimento, consistente nell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza da parte del datore di lavoro (dovuta, ad esempio, alla mancata predisposizione di misure di protezione individuali e/o alla mancata attenta sorveglianza perché le stesse venissero in concreto attuate), ed il nesso causale tra quest'ultimo ed il danno fisico (Cass. sez. lav., 9 giugno 2017, n. 14468; Cass. sez. lav., 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. sez. lav., 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. sez. lav., 28 agosto 2013, n. 19826; Cass. sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. sez. lav., 27 giugno 2011, n. 14107; Cass. sez. lav., 14 ottobre 2010, n. 21203; Cass. sez. lav., 19 luglio 2007, n. 16003), altrimenti, seguendo l'orientamento minoritario, si verrebbe ad affermare un principio di responsabilità oggettiva, quasi che possa bastare a provare l'inadempimento l'evento dannoso (Cass. sez. lav., 13 gennaio 2015, n. 340), la cui verificazione, in realtà, non è sufficiente per far scattare a carico dell'imprenditore l'onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea a evitare l'evento, “atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre la dimostrazione, da parte dell'attore, che vi sia stata omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie per evitare il danno” (Cass. sez. lav., 20 luglio 2012, n. 12699).

Ed ancora, sempre per rimarcare che la responsabilità del datore di lavoro è colposa e non oggettiva, la Suprema Corte ha imposto al lavoratore di dimostrare il danno, la nocività dell'ambiente o delle condizioni di lavoro, ed il nesso causale tra l'uno e l'altro (Cass. sez. lav., 9 giugno 2017, n. 14468; Cass. sez. lav., 8 giugno 2017, n. 14313; Cass. sez. lav., 1 giugno 2017, n. 13885; Cass. sez. lav., 19 maggio 2016, n. 10342; Cass. sez. lav., 26 aprile 2016, n. 8237; Cass. sez. lav., 4 febbraio 2016, n. 2209; Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. sez. lav., 7 maggio 2015, n. 9209; Cass. sez. lav., 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. sez. lav., 3 novembre 2008, n. 26378; Cass. sez. lav., 19 giugno 2006, n. 3650).

Dunque, in assenza di prova della violazione imputabile al datore di lavoro, gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali, seppur indennizzabili o già indennizzati dall'INAIL, non possono essere automaticamente risarciti (Cass. civ., sez. VI, 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. sez. lav., 13 aprile 2015, n. 7388; Cass. sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. sez. lav., 27 marzo 2012, n. 6002).

Al fine del riconoscimento della responsabilità civile, il lavoratore deve allegare e provare la mancata adozione di misure di sicurezza “nominate”, così definite perché espressamente e specificatamente indicate dalla legge o da altra fonte vincolante, oppure, in mancanza di esse, di quelle “innominate”, ricavabili dall'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico, che impone l'adozione delle misure suggerite da conoscenze sperimentali, tecniche o dagli standard di sicurezza normalmente praticati (Cass. sez. lav., 13 giugno 2017, n. 14665; Cass. sez. lav., 8 giugno 2017, n. 14313; Cass. sez. lav., 21 aprile 2017, n. 10145; Cass. sez. lav., 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. sez. lav., 30 giugno 2016, n. 13465; Cass. sez. lav., 5 gennaio 2016, n. 34; Cass. sez. lav., 6 novembre 2015, n. 22710; Cass. sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. sez. lav., 5 agosto 2013, n. 18626; Cass. sez. lav., 8 ottobre 2012, n.17092; Cass. sez. lav., 3 agosto 2012, n.13956; Cass. sez. lav., 27 luglio 2010, n. 17547; Cass. sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445; Cass. sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6377), tenuto conto “della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio” (Cass. sez. lav., 21 aprile 2017, n. 10145; Cass. sez. lav., 11 luglio 2011, n. 15156), non essendo, invece, sufficiente l'allegazione della generica violazione di ogni ipotetica misura di prevenzione (Cass. sez. lav., 23 aprile 2015, n. 8297), giacché non sussiste un obbligo assoluto in capo dal datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno (Cass. sez. lav., 3 aprile 2015, n. 6881).

La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro varia a seconda se la violazione riguardi una misura di sicurezza nominata o innominata: nel primo caso, il datore di lavoro deve negare i fatti provati dal lavoratore ovvero l'insussistenza dell'inadempimento o il nesso causale tra questo e il danno, nel secondo caso deve dimostrare di aver tenuto la diligenza esigibile nella predisposizione della misura di sicurezza (Cass. sez. lav., 13 giugno 2017, n. 14665; Cass. sez. lav., 27 febbraio 2017, n. 4970; Cass. sez. lav., 5 gennaio 2016, n. 34; Cass. sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. sez. lav., 27 luglio 2010, n. 17547; Cass. sez. lav., 24 luglio 2006, n. 16881; Cass. sez. lav., 24 luglio 2006, n. 12445; Cass. sez. lav., 24 febbraio 2006, n. 4148).

In ogni caso, l'allegazione e prova dell'inadempimento datoriale non comporta automaticamente il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale e non, subordinato alla dimostrazione del tipo di danno specificatamente sofferto e del nesso eziologico con l'inadempimento (Cass. sez. lav., 21 marzo 2016, n. 5538; Cass. sez. lav., 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. sez. lav., 10 febbraio 2014, n. 2886).

La responsabilità civile viene meno se l'infortunio era ragionevolmente impensabile, non potendosi accollare al datore di lavoro “l'onere di garantire un ambiente di lavoro a rischio zero quando di per sé il rischio di una lavorazione o di un'attrezzatura non sia eliminabile” (Cass. civ., sez. VI, 27 febbraio 2017, n. 4970) ovvero quando si è in presenza di cause di infortunio imprevedibili (Cass. sez. lav., 17 dicembre 2015, n. 25395; Cass. sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. sez. lav., 8 maggio 2007, n. 10441).

Una volta che abbia fornito al lavoratore tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, il datore di lavoro non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Il comportamento colposo del lavoratore

Poiché le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, essendo dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore (Cass. sez. lav., 18 maggio 2017, n. 12561; Cass. sez. lav., 26 aprile 2017, n. 10319; Cass. sez. lav., 19 aprile 2017, n. 9870; Cass. sez. lav., 18 luglio 2016, n. 14629; Cass. sez. lav., 3 novembre 2015, n. 22413; Cass. sez. lav., 8 aprile 2014, n. 896; Cass. sez. lav., 16 aprile 2013, n. 9167; Cass. sez. lav., 13 giugno 2012, n. 9661; Cass. sez. lav., 10 settembre 2009, n. 19494) o del compagno di lavoro che provoca l'incidente (Cass. sez. lav., 4 febbraio 2016, n. 2209), non idonei ad interrompere il nesso causale tra la violazione commessa dal datore di lavoro e l'infortunio verificatosi, considerato che “l'eventuale violazione, da parte del lavoratore, delle prescrizioni ricevute si configura nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno e va addebitata al datore di lavoro” (Cass. sez. lav., 16 aprile 2013, n. 9167).

Tale principio trova ancora consolidata applicazione, nonostante che il sistema della normativa antinfortunistica si sia lentamente trasformato da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante, era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (art. 20 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81; art. 5 D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626).

Il concorso di colpa del lavoratore, dunque, se accertato in termini di concausa dell'evento dannoso, determina soltanto che la misura del risarcimento sia proporzionalmente ridotta (Cass. sez. lav., 23 aprile 2012, n. 6337; Cass. sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. sez. lav., 17 aprile 2004, n. 7328).

L'interruzione del nesso causale in presenza di un comportamento del lavoratore estraneo all'area di rischio

Se il comportamento colposo del lavoratore non è idoneo ad interrompere il nesso causale tra inadempimento datoriale ed infortunio, lo stesso non può dirsi nel caso in cui il lavoratore abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile o anomalo oppure esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute, ponendosi come causa esclusiva dell'evento, idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva datoriale e l'evento (Cass. civ., sez. I 1 giugno 2017, n. 13885; Cass. sez. lav., 18 maggio 2017, n. 12561; Cass. sez. lav., 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20533; Cass. civ., sez. I, 14 ottobre 2014, n. 21647; Cass. sez. lav., 10 settembre 2009, n. 19494).

Rientrano nel concetto di "esorbitante" tutte quelle condotte che fuoriescono dall'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell'ambito del contesto lavorativo; si reputa “abnorme” la condotta posta in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla ha a che vedere con l'attività svolta.

Si deve trattare, dunque, di una condotta personalissima del lavoratore avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, riconducibili ad un “rischio elettivo” (Cass. sez. lav., 26 aprile 2017, n. 10319), “come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un'altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite in esclusiva ad altro lavoratore; ovvero nel caso in cui il lavoratore, pur nello svolgimento delle mansioni proprie, abbia assunto un atteggiamento radicalmente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenze comportamentali” (Cass. sez. lav., 18 maggio 2017, n. 12561).

In buona sostanza, quando il comportamento del lavoratore si pone al di fuori dell'area di rischio della lavorazione in corso, esso diviene eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Cass. pen. S.U., 24 aprile 2014, n. 38343; Cass. pen., sez. IV, 13 dicembre 2016, n. 15124), come nel caso di abusiva introduzione notturna da parte del lavoratore, poi infortunatosi, nel cantiere irregolare (Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2001, n. 44206) ovvero nel caso di infortunio accaduto ad un operaio addetto ad una pala meccanica che si era improvvisamente bloccata e che era sceso dal mezzo senza spegnere il motore e, sdraiatosi sotto di essa tra i cingoli, aveva sbloccato a mano la frizione difettosa sicché il veicolo, muovendosi, lo aveva travolto (Cass. pen., sez. III, 10 novembre 1999, n. 3519).

Non si reputa abnorme, invece, “il comportamento del lavoratore intervenuto, nell'esecuzione delle ordinarie mansioni assegnate, su un macchinario per effettuare una riparazione, che risultava una evenienza non solo possibile ma anzi probabile” (Cass. pen., sez. V, 13 ottobre 2015, n. 20533).

Conclusioni

La Carta costituzionale ha determinato un momento di rottura rispetto al sistema precedente con il definitivo “ripudio dell'ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato, in considerazione del fatto che l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41 Cost., co. 1) - è subordinata, ai sensi del co. 2 medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità” (Cass. sez. lav., 21 aprile 2017, n. 10145), anche nel luogo nel quale si svolge l'attività lavorativa.

La sicurezza del lavoratore costituisce, infatti, un bene di rilevanza costituzionale che impone, a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione, di anteporre al proprio interesse imprenditoriale la sicurezza di chi tale prestazione esegua.

Il datore di lavoro, pertanto, deve preservare l'integrità fisica e morale del prestatore di lavoro, adottando tutte le misure di sicurezza nominate ed innominate, individuate secondo gli standard di sicurezza generalmente praticati.

Si tratta di un obbligo assoluto e non derogabile, posto, come detto, a salvaguardia di valori apicali dell'ordinamento, tanto che il comportamento colposo del lavoratore non è idoneo ad interrompere il nesso causale tra inadempimento datoriale ed infortunio.

Pur tuttavia, il principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore", in base al quale la magistratura di merito e di legittimità ha giustificato la sussistenza di un obbligo di vigilanza assoluto in capo al datore di lavoro, è stato gradualmente sostituito facendo ricorso al concetto di "area di rischio", che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva (Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 2016, n. 8883; Cass. pen., sez. IV, 1 luglio 2014, n. 36257; Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2014, n. 43168), al fine di evitare che la responsabilità colposa si tramuti inconsapevolmente in oggettiva.

Pertanto, nell'area di rischio, in cui si trova ad operare, il lavoratore deve attenersi alle specifiche disposizioni cautelari dettate dal datore di lavoro ed agire, nell'ambito del nuovo modello collaborativo in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, tra cui anche il medesimo prestatore di lavoro, con diligenza, perizia e prudenza (c.d. principio di autoresponsabilità).

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