Illegittimità del licenziamento irrogato al rientro dall’assenza per congedo di maternità
22 Settembre 2016
Massima
È illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente la quale – al termine del periodo di assenza obbligatoria per gravidanza previsto dall'art. 56, comma 1 e 3, D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 – si rifiuti di prendere servizio presso una sede di lavoro diversa da quella occupata al momento dell'inizio della gravidanza in quanto, stante la normativa sulla tutela della maternità e della paternità, la lavoratrice ha diritto a conservare il posto di lavoro e la medesima sede (salvo rinuncia scritta) così che non possa configurarsi assenza ingiustificata – quindi giusta causa di recesso – il rifiuto al mutamento di sede. Il caso
La ricorrente era stata licenziata al rientro dal periodo di assenza obbligatoria per maternità – ovvero nel primo anno di vita del figlio – in quanto non aveva preso servizio presso la nuova sede di lavoro indicata dall'azienda e, pertanto, le era stata contestata la prolungata assenza ingiustificata; rigettato il ricorso da parte del Tribunale di Padova, sia nella fase sommaria (ex L. 92/2012) sia in quella “classica” ex art. 414 c.p.c., la lavoratrice aveva quindi promosso gravame innanzi alla Corte di Appello di Venezia la quale aveva confermato il giudizio di primo grado e rigettato la richiesta di accertamento e declaratoria circa la natura discriminatoria del licenziamento.
In particolare, la Corte d'Appello di Venezia aveva motivato ritenendo autonomo motivo di recesso dal rapporto di lavoro la prolungata assenza della dipendente (senza motivazione) dalla nuova sede indicata dall'azienda e che il provvedimento espulsivo – contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente – non era stato preceduto da alcun atto “preparatorio” o comunque prodromico al licenziamento, tale da indurre a ritenerlo discriminatorio o ritorsivo.
Invero, come poi osservato nel ricorso per Cassazione, la Corte d'Appello aveva omesso la valutazione su un punto essenziale della controversia ovvero quanto stabilito ex art. 56, commi 1 e 3, D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, per quel che riguarda la conservazione del posto e della sede di lavoro al rientro dal congedo di maternità. La questione
La ricorrente ha dunque promosso ricorso per Cassazione proponendo ben 6 motivi nei confronti della sentenza che aveva rigettato la propria richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, considerando anche che – a prescindere dalle ultime riforme in materia di licenziamenti – si è comunque nell'ambito della tutela reale del rapporto, trattandosi di recesso nel primo anno di vita del nascituro.
Con il primo motivo di impugnazione, la ricorrente ha denunciato la violazione dell'art. 111 Cost. per omessa motivazione su un punto essenziale della controversia, ovvero l'applicazione dell'art. 56, commi 1 e 3, D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 per quel che concerne la conservazione della sede di lavoro (oltre al posto, chiaramente) alla lavoratrice madre di rientro dal periodo di astensione obbligatoria; con il secondo e terzo motivo è stata sollevata la questione relativa all'assunzione di altra dipendente per svolgere le medesime mansioni della ricorrente ed alla natura del trasferimento, stante che l'azienda aveva contestato lo stesso considerandolo una trasferta con finalità formative. Con il quarto motivo, e quale logica conseguenza dei primi tre, la ricorrente ha sostenuto la natura discriminatoria o comunque ritorsiva del licenziamento in quanto lo stesso era stato proceduto da una serie di atti (tra cui, ad esempio, il trasferimento) inequivocabilmente finalizzati a fiaccare la resistenza psico-fisica della ricorrente e ad indurla in errore così da giustificare il recesso; con il quinto motivo, invece, si considera la violazione dell' art. 54, comma 3, lettera a), D.lgs. 151/2001 nonché dell' art. 2119 c.c. (licenziamento per giusta causa) per quanto attiene l'omessa, errata e contraddittoria motivazione sulla condotta tenuta nel rapporto di lavoro e la valutazione ai fini della legittimità del recesso intimato dal datore.
Infine, con il sesto motivo la ricorrente ha denunciato la violazione dell' art. 2697 c.c. per quel che riguarda l'onere della prova sulla giusta causa di licenziamento. La ricorrente, quindi, ha articolato il ricorso sollevando le questioni ritenute maggiormente critiche del proprio licenziamento: in primo luogo, e quale motivo assorbente, la mancata valutazione della disciplina sulla conservazione del posto di lavoro e la tutela della genitorialità. In secondo luogo, e quindi più nel merito della vicenda, la natura discriminatoria o comunque ritorsiva e da atto illecito del licenziamento, con conseguente errata o anche omessa valutazione della propria condotta; infine, ed a chiusura, il richiamo all'onere della prova sul licenziamento per giusta causa che – notoriamente – cade sul datore di lavoro. La Suprema Corte ha accolto il primo motivo. Le soluzioni giuridiche
La decisione della Suprema Corte, dunque, ruota attorno all'omessa valutazione – nel giudizio d'Appello – della violazione di quanto disposto dall' art. 56, commi 1 e 3, D.lgs. 151/2001 che di seguito si riportano: “1. Al termine dei periodi di divieto di lavoro previsti dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gravidanza, o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite a mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. […] 3. Negli altri casi di concedo, di permesso o di riposo disciplinati dal presente testo unico, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta, o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti”.
La questione non è di poco conto poiché, in effetti, sia il giudice di primo grado (tanto per il rito Fornero che per il rito classico) sia il giudice d'Appello, non hanno considerato la violazione della normativa posta a tutela della genitorialità; in primo luogo, la norma richiamata stabilisce il noto principio della conservazione del posto di lavoro per la lavoratrice madre fino al compimento di un anno di vita del figlio, in quanto un eventuale licenziamento potrebbe la stessa in difficoltà di poter far fronte non solo alle proprie esigenze ma, soprattutto, a quelle dalla propria famiglia.
La legge stabilisce espressamente che al rientro dal periodo di congedo di maternità, la lavoratrice abbia diritto a rientrare nella medesima unità produttiva a cui era addetta prima di iniziare l'astensione obbligatoria e con l'adibizione alle medesime mansioni in precedenza svolte o comunque a mansioni equivalenti; la considerazione non è di poco conto, poiché si vuole proprio evitare che un utilizzo “distorto” del trasferimento dei dipendenti da una sede all'altra diventi poi uno strumento per “dissuadere” la lavoratrice alla prosecuzione del rapporto di lavoro, incentivandola alle dimissioni o giustificandone un licenziamento (come nel caso di specie) qualora vi sia un rifiuto. In realtà, chiarisce la sentenza di Cassazione in commento, contrariamente a quanto avverrebbe per un normale trasferimento – per il quale non è richiesto il consenso del lavorate che, per altro, in caso di rifiuto si troverebbe esposto ad un legittimo licenziamento per giusta causa – di fronte ad una lavoratrice madre e fino ai primi 12 mesi di vita del figlio, il rifiuto al trasferimento in altra sede rappresenta un legittimo impedimento tutelato dalla legge e coperto perfino da tutela Costituzionale.
Pertanto, la cassazione della sentenza è avvenuta non in quanto effettivamente vi sia stata una condotta discriminatoria da parte del datore di lavoro – per altro con onere a carico della lavoratrice, e ontologicamente complesso da dimostrare soprattutto in quanto sia il Tribunale che la Corte territoriale hanno escluso la presenza di atti precedenti e precostituivi al licenziamento – ma per il semplice motivo che l'aver imposto il trasferimento della lavoratrice neo-madre costituisce violazione di norma imperativa posta a tutela della genitorialità: nulla quaestio e in perfetta coerenza con l'assetto giurisprudenziale che si è definito negli ultimi 15 anni. Ogni altro motivo di cassazione è assorbito dal principale e non viene neppure valutato. Osservazioni
La posizione della Suprema Corte di Cassazione conferma il filone di giurisprudenza anche di merito che – a seguito dell'entrata in vigore della richiamata normativa – si è formato a tutela della lavoratrice madre; in particolare, proprio la Corte d'Appello di Torino aveva già avuto modo di esprimersi nel 2010 con due distinte pronunce per quel che riguarda la violazione della disciplina anti-discriminatoria posta a tutela della genitorialità.
Si legge così in Appello Torino 29 giugno 2010 (in Giur. merito, 2011, 2633, n. ENRICHENS, MANASSERO) che “il demansionamento e l'ingiustificato trasferimento ad altra sede più disagiata della lavoratrice rientrata dal periodo di congedo per maternità comportano la violazione della disciplina antidiscriminatoria” e ancora in Appello Torino 1 agosto 2010 (in Riv. Critica dir. Lav. privato e pubbl., 2011, 199, n. BALESTRO) che “qualora sia accertata la sussistenza di un discriminazione diretta nei confronti della lavoratrice madre, per violazione dell'art. 56 d.lgs. 26 marzo 2011 n. 151 e dell'art. 2013 c.c., la mancata presentazione al lavoro dopo un periodo di malattia conseguente all'illegittimo demansionamento si configura come legittima eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. e non può configurare una giusta causa di licenziamento”; le due sentenze richiamate sono esemplificative poiché da un alto si ribadisce l'illegittimità della condotta datoriale quando posta in essere in violazione della norma richiamata e, dall'altro, si arriva a considerare legittimo il comportamento della lavoratrice – ex art. 1460 c.c., ovvero eccezione di inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive che, per l'appunto, i contratti di lavoro – che si rifiuta non solo di accettare mansioni inferiori (in precedenza mai pattuite) ma anche di essere trasferita in altra sede di lavoro.
Interessante sullo stesso punto anche Appello Milano 6 agosto 2012 (in Riv. Critica dir. Lav. privato e pubbl., 2012, 735, n. CORRADO) ove si legge che “ai sensi dell'art. 56 d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, la lavoratrice madre, al termine del periodo di congedo per maternità, ha diritto di rientrare nella stessa unità produttiva ove era occupata all'inizio del periodo di gravidanza; la chiusura e il trasferimento in altra città dell'unità in cui la lavoratrice è adibita non ne giustifica la sospensione dalla retribuzione in applicazione analogica dell'art. 54, 4° comma, d.leg. 26 marzo 2001 n. 151, quando risulti che l'attività è continuata in altra città”; anche in questo caso la posizione della Corte territoriale non è diversa, necessita un unico appunto fino ad ora non considerato: ovvero che il trasferimento della dipendente è legittimo solo, ed è l'unico caso, vi sia un accordo scritto tra le parti.
In mancanza di accordo scritto il trasferimento (così come il mutamento delle mansioni, anche nella nuova formulazione dell' art. 2103 c.c.) è illegittimo, ed in caso di rifiuto la dipendente non può essere licenziata in quanto insussistente la giusta causa. |