Licenziamento ritorsivo con le “tutele crescenti”: tutela reintegratoria

23 Settembre 2016

In caso di licenziamento ritorsivo intimato a prestatore di lavoro sottoposto al regime cd. a tutele crescenti, il Giudice dichiara la nullità del licenziamento ed applica la tutela reintegratoria di cui all'art. 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
Massima

In caso di licenziamento ritorsivo intimato a prestatore di lavoro sottoposto al regime cd. a tutele crescenti, il Giudice dichiara la nullità del licenziamento ed applica la tutela reintegratoria di cui all'art. 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Il caso

Un lavoratore – assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in data successiva al 7 marzo 2015 (e, dunque, nell'ambito di un rapporto di lavoro assistito dal nuovo regime cd. a tutele crescenti, ai sensi del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23) – impugna avanti al Tribunale di Roma il licenziamento irrogatogli per asserite ragioni disciplinari da una società esercente servizi di bar ristorante, presso cui aveva disimpegnato mansioni di responsabile banco cocktail.

Fra le argomentazioni articolate a sostegno delle proprie pretese, la difesa del ricorrente coltiva la tesi della natura ritorsiva del provvedimento espulsivo, le cui effettive motivazioni (solo apparentemente e formalmente collegate a condotte inadempimenti, in realtà) risiederebbero nell'intento di rappresaglia del datore di lavoro, per avere il lavoratore impugnato in sede amministrativa precedenti sanzioni disciplinari.

Il Tribunale di Roma accoglie il ricorso e, per l'effetto, dichiara la nullità del licenziamento, condannando la società datrice di lavoro alla tutela reintegratoria ex art. 2, D.Lgs. n. 23/2015.

La questione

Il caso esaminato dal Tribunale di Roma affronta il tema del licenziamento ritorsivo, con riferimento sia alla identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie, sia al regime dell'onere della prova (integralmente a carico del lavoratore).

La sentenza assume indubbia rilevanza, in quanto il lavoratore ricorrente era stato assunto in data successiva al 7 marzo 2015 e, dunque, il decisum si colloca nel panorama normativo del post Jobs Act.

Le soluzioni giuridiche

Il magistrato di Roma scioglie un duplice quesito:

a. il primo, relativo alla identificazione degli elementi che, su un piano fattuale, contraddistinguono la natura ritorsiva del licenziamento;

b. il secondo, attinente alla qualificazione giuridica della fattispecie e, dunque, alla individuazione del più appropriato apparato rimediale applicabile. In tale contesto, a seconda delle opzioni prescelte, l'onere probatorio in capo al lavoratore assume differenti intensità.

Quanto al profilo sub A.), attinente all'accertamento dei fatti oggetto della situazione rappresentata dalle parti, il Giudice matura il convincimento in merito alla natura ritorsiva del licenziamento concentrandosi sulla concatenazione temporale degli eventi, nel cui ambito era emerso come la decisione datoriale di procedere al licenziamento fosse collegata esclusivamente (sul piano fattuale) ad un intento “vendicativo” (appunto, “ritorsivo” oppure, secondo un terminologia talvolta utilizzata in giurisprudenza, di “rappresaglia”) del datore di lavoro avverso il legittimo esercizio, da parte del lavoratore, di una sua prerogativa.

In particolare, in sede di istruttoria, emerge la seguente macro-sequenza di fatti:

(i) esercizio del potere disciplinare nei confronti del lavoratore sfociato nell'applicazione di sanzione conservativa (sospensione);

(ii) impugnazione della sanzione conservativa da parte del lavoratore;

(iii) intimazione del licenziamento disciplinare.

Nel contesto di tale successione di eventi, il Giudice evidenzia come il datore di lavoro non abbia allegato alcuna condotta inadempiente ascrivibile al lavoratore nell'intervallo di tempo compreso tra l'evento (ii) e l'evento (iii) (considerata, peraltro, l'assenza del lavoratore dal servizio in quanto sottoposto alla sanzione sospensiva), derivandone inevitabilmente la conclusione che l'unico “movente” alla base della decisione datoriale di procedere al licenziamento dovesse ravvisarsi, appunto, nella reazione del datore di lavoro avverso l'impugnazione del licenziamento disciplinare.

Sul punto, il Tribunale afferma che «l'ordine temporale tra i provvedimenti ed i comportamenti del dipendente è tale che tra la sospensione del servizio ed il licenziamento alcun giorno di lavoro effettivo è stato svolto ed alcun comportamento può essersi quindi realizzato, neppure in ipotesi, da parte del dipendente (assente), se non la sola impugnativa delle sanzioni dinanzi all'Organo arbitrale.

[…]

La natura ritorsiva del recesso risulta quindi dimostrata dalle circostanze di fatto sopra evidenziate, congiunte all'assenza di ulteriori ragioni allegate dal datore di lavoro».

In relazione alla individuazione del regime rimediale applicabile in ragione della accertata natura ritorsiva del licenziamento (profilo sub B.), il Tribunale di Roma rileva come la giurisprudenza abbia sancito, compatta, la sanzione della nullità tout court dell'atto di recesso.

Emergono, peraltro, differenti “percorsi” attraverso i quali si è pervenuti alla predetta conclusione.

Ai sensi di un primo orientamento, la fattispecie del licenziamento ritorsivo deve essere riconducibile alla più ampia categoria del licenziamento discriminatorio, in virtù della affermata capacità attrattiva di questa fattispecie. Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato che «il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall'art. 4 della legge n. 604/1966, dall'art. 15 Stat. Lav. e dall'art. 3 della L. n. 108 del 1990, è suscettibile […] di interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia» (Cass. 3 dicembre 2015, n. 24648).

Un secondo orientamento, invece, riconduce la natura ritorsiva del licenziamento alla generale categoria della nullità ex art. 1418 c.c., laddove l'invalidità dell'atto viene riferita alla sussistenza di un motivo illecito determinante ai sensi del combinato disposto degli artt. 1324 cod. civ. e 1345 cod. civ. (in questo senso si è espressa, tra le altre, Cass. 8 agosto 2011, n. 17087).

La scelta tra le due opzioni interpretative produce rilevanti implicazioni sul piano del regime dell'onere probatorio in capo al lavoratore. Mentre nella prima un ruolo di primo piano è affidato alla prova per presunzioni, nel secondo caso, invece, il meccanismo presuntivo non è ritenuto sufficiente, dovendo il lavoratore provare la sussistenza di uno specifico motivo illecito determinante (Cass. 5 aprile 2016, n. 6575).

Definito questo quadro interpretativo, il Tribunale di Roma dichiara la nullità del licenziamento sulla base della accertata natura ritorsiva del licenziamento, applicando, per l'effetto, la tutela reintegratoria prevista dall' art. 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23. All'uopo, il Giudice afferma che «l'art. 2 dello stesso decreto dispone la nullità del recesso sia nel caso di natura discriminatoria che nel caso in cui esso sia riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge».

L'affermazione del Giudice capitolino offre l'occasione per evidenziare che l'art. 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (a differenza delle fattispecie di nullità del licenziamento nullo regolate dal comma 1 dell'art. 18, Stat. Lav., applicabili per i lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015), non contempla più l'espressa ipotesi di nullità del licenziamento «determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile».

A questo proposito, la Dottrina ha ritenuto possibile (nella stessa direzione in cui sembra essersi mosso il Tribunale di Roma) che a tale vuoto si possa supplire riconducendo la fattispecie del licenziamento ritorsivo al licenziamento nullo in quanto «riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», laddove l'espressa previsione legislativa di nullità, in tal caso, deriverebbe dal combinato disposto degli artt. 1418, 1324 e 1345 c.c.

Per approfondimenti, Russo, Licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act, ne Il Giuslavorista, Focus del 16 marzo 2015.

Osservazioni

La sentenza in commento offre lo spunto per operare un raffronto tra il testo dell' art. 2 del D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, da un lato, con la previsione di cui all' art. 18, comma 1, L. n. 1970/300, d'altro lato.

Art. 18, comma 1, L. n. 300/1970

Art. 2, D.Lgs. n. 23/2015

Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo

Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale

Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità' e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile. […]

Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perchè discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 2970, n. 300 e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, […].

Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perche' intimato in forma orale. […]

La disciplina di cui al presente articolo trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10 comma 3 della elgge 12 marzo 1999, n. 68.

Accanto alla questione relativa al regime del licenziamento ritorsivo ed ai presupposti per la sua configurabilità alla stregua del primo e del secondo testo normativo (oggetto di trattazione nel precedente sezione “Le soluzioni giuridiche”), le differenze tra i testi legislativi hanno suscitato alcune riflessioni da parte della dottrina.

Sotto un primo profilo, è stata rilevata la diversa formulazione dei rinvii operati dalle norme in questione per definire la fattispecie di licenziamento “discriminatorio”

  • l'art. 18, comma 1, L. n. 300/1970 fa riferimento alla nozione di licenziamento discriminatorio prevista dall' art. 3, L. 11 maggio 1990, n. 108;
  • a sua volta, l'art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 si riferisce al «licenziamento […] discriminatorio a norma dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300».

A tale proposito è stato rilevato come il nuovo dettato legislativo abbia introdotto una notevole semplificazione, in quanto:

  • l'art. 3 della L. n. 108/1990 non contiene una espressa elencazione delle ipotesi riconducibili alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, ma opera un duplice rinvio, rispettivamente, (i) ai casi previsti dall'art. 4, L. n. 604/1966 («licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dell'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazioni ad attività sindacabili») e (ii) ai casi previsti dall'art. 15, L. n. 300/1970 (che prevede la nullità di qualsiasi «atto diretto a […] licenziare un lavoratore […] a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero», nonché di «atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convenzioni personali»);
  • l'art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 prevede direttamente il rinvio all'art. 15, L. n. 300/1970, il quale, come abbiamo appena visto, reca un ampio ventaglio di fattispecie di licenziamento discriminatorio (nel quale viene di fatto assorbita l'elencazione – più ristretta – di cui all'art. 4, L. n. 604/1966).

Sotto altro profilo, l'art. 18, comma 1, L. n. 300/1970, dopo avere contemplato le fattispecie di licenziamento discriminatorio (come uno dei casi che determina la nullità del licenziamento) annovera un elenco specifico di disposizioni legislative che sanciscono la nullità del licenziamento laddove intimato in circostanze sensibili:

  • licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (cd. Codice delle parti opportunità tra uomo e donna);
  • il licenziamento intimato in violazione dei divieti previsti dall'art. 54, D.Lgs. 2001, n. 151 (cd. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità' e della paternità).

La norma statutaria, poi, chiude l'elenco con una disposizione di carattere residuale, prevedendo la nullità del licenziamento laddove irrogato negli «altri casi di nullità previsti dalla legge».

Del tutto diverso è, invece, il tenore letterale dell'art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 il quale, da un lato, non annovera una elencazione nominativa delle fattispecie passibili di nullità, e, dall'altro lato, utilizza una formula generica, la quale, rispetto alla analoga disposizione di chiusura utilizzata dallo Statuto dei Lavoratori, aggiunge l'avverbio “espressamente” («ovvero perché riconducibile agli altri casi previsti dalla legge»).

La Dottrina ha ritenuto che tale accorgimento linguistico non sia casuale, ma abbia lo scopo ben preciso di arginare gli spazi di applicazione della tutela reintegratoria piena, impedendo che nel relativo ambito oggettivo ricadano fattispecie di licenziamento di cui la legge non preveda – appunto, “espressamente” – la sanzione di nullità.

Passando all'ultimo profilo, merita rilevare come nell'art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 contempla l'applicazione della tutela reintegratoria cd. piena nelle ipotesi di licenziamento per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4 e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.

Nel quadro sanzionatorio fissato dallo Statuto dei Lavoratori, invece, il regime è più mite, in quanto la fattispecie in questione (peraltro, delineata con una terminologia lievemente differente) viene sanzionata con la tutela reintegratoria cd. depotenziata.

Guida all'approfondimento

Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall'art. 18. Stat. Lav. all'art. 2, d.lgs. n. 23/2015 in Carinci-Cester (a cura di)

Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), in ADAPT Labour Studies e-Book series n. 46, 2015.

Biasi, Il licenziamento nullo: chiavistello o grimaldello del nuovo sistema “a tutele crescenti”?, in Zilio-Biasi (a cura di) Commentario breve alla riforma “Jobs Act”).

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