Il nuovo art. 2103 c.c. al vaglio della giurisprudenza di merito

05 Gennaio 2016

La questione esaminata attiene alla corretta individuazione della disciplina applicabile nelle fattispecie in cui, come nei casi affrontati dalle sentenze in commento, l'avvenuta dequalificazione sia avvenuta in data antecedente al 25 giugno 2015, ma sia proseguita anche in data successiva.
Massime

Tribunale Roma, sez. lav., 30 settembre 2015, vai alla Sezione Casi e sentenze di merito

La valutazione della liceità della unilaterale assegnazione datoriale a mansioni differenti rispetto a quelle precedentemente svolte deve essere effettuata alla luce del nuovo art. 2103 c.c., come riformulato dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, anche laddove il contestato demansionamento abbia cominciato a manifestarsi anteriormente rispetto alla data di entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 81/2015 (25 giugno 2015). Conseguentemente, la situazione sostanziale manifestatasi in data successiva alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015 deve valutarsi alla luce del nuovo dato normativo, mentre il “vecchio” art. 2103 c.c. costituisce il referente normativo per l'accertamento delle situazioni di asserito demansionamento prodottesi sino al 25 giugno 2015.

Tribunale Ravenna, sez. lav., 30 settembre 2015, vai alla Sezione Casi e sentenze di merito

Il discrimen per l'applicazione del nuovo “testo” dell'art. 2103 c.c., nella formulazione risultante dalle modifiche operate dal D.Lgs. n. 81/2015, in luogo del “vecchio” testo della norma civilistica nella sua versione anteriore alla predetta riformulazione, risiede nella data di verificazione del fatto storico generatore del contestato demansionamento, dimodoché trova esclusiva applicazione la previgente disciplina laddove esso sia iniziato in data anteriore al 25 giugno 2015, a nulla rilevando che la situazione illecita continui a prodursi oltre tale data.

I casi

Le fattispecie esaminate dalle due sentenze oggetto di commento concernono, ambedue, l'asserita invalidità di un atto di variazione delle mansioni unilateralmente disposta dal datore di lavoro, sul presupposto, invocato dal lavoratore ricorrente, di avere subito una dequalificazione professionale.

Il punto cruciale sta nel fatto che, nell'una così come nell'altra fattispecie, il contestato demansionamento è insorto in data precedente al 25 giugno 2015, data in cui è entrato in vigore il nuovo testo dell'art. 2103 c.c., così come riformulato dall'art. 3, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (recante, come noto, la Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni), ma si è protratto anche in una data successiva.

Le questioni

La questione esaminata dai due magistrati attiene alla corretta individuazione della disciplina applicabile nelle fattispecie in cui, come nei casi affrontati dalle sentenze in commento, l'avvenuta dequalificazione sia avvenuta in data antecedente al 25 giugno 2015, ma sia proseguita anche in data successiva.

La domanda è se il nuovo disposto dell'art. 2103 c.c. sia applicabile solo agli atti di assegnazione di nuove mansioni intervenute dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015 o, se, viceversa, si estenda alle situazioni già prodottesi, ma ancora in essere.

In relazione a tale interrogativo vengono a contrapporsi due orientamenti:

  • il primo, al quale aderisce la sentenza del Tribunale di Roma, secondo cui il nuovo testo dell'art. 2103 c.c. esplica i propri effetti anche in relazione a situazioni di demansionamento manifestatesi in data antecedente al 25 giugno 2015. A tale stregua, il nuovo dettato normativo viene a costituire il referente normativo per la valutazione di legittimità delle situazioni di dedotto demansionamento continuate in data successiva al 25 giugno 2015, mentre il “vecchio” testo dell'art. 2103 c.c. deve essere utilizzato per la valutazione di legittimità della situazione pregressa;
  • la sentenza del Tribunale di Ravenna, invece, aderisce al secondo orientamento, il quale, proprio sul presupposto che il D.Lgs. n. 81/2015 difetta di una specifica normativa transitoria, sottolinea l'impossibilità di poter applicare retroattivamente una norma (il nuovo art. 2103, c.c.) in relazione ad una situazione sostanziale manifestatasi in data anteriore all'entrata in vigore del medesimo D.Lgs. n. 81/2015.
Le soluzioni giuridiche

Prima di esaminare nel dettaglio le argomentazioni articolate, rispettivamente, dal Tribunale di Roma e dal Tribunale di Ravenna, sono indispensabili alcuni cenni di preliminare inquadramento della riforma dello scorso mese di giugno, la quale ha profondamente inciso sul perimetro dell'art. 2103 c.c. in tema di unilaterale modifica delle mansioni.

L'art. 2103 c.c. rappresenta e rappresentava, anche nel testo previgente alla modifica intervenuta ad opera del D.Lgs. n. 81/2015, una norma di carattere eccezionale nell'ambito del panorama del diritto delle obbligazioni e dei contratti.

Uno dei principi cardine del diritto civile sta nella irrinunciabile necessità del consenso di ambedue le parti del contratto quale presupposto indefettibile per addivenire ad una modifica del suo oggetto. Così come la conclusione di un contratto implica, affinché la stessa possa dirsi effettiva, l'incontro di proposta ed accettazione, allo stesso modo anche la modifica di un contratto già in essere, in linea generale, non può essere unilateralmente disposta da una parte nei confronti dell'altra, ma, al contrario, presuppone che l'una e l'altra acconsentano alla ipotizzata modifica.

Sotto questo profilo, l'art. 2103 c.c. ha, da sempre, presentato evidenti profili di peculiarità in quanto, in presenza di determinati presupposti, la norma (nella sua vecchia e vigente formulazione) abilita il datore di lavoro a disporre unilateralmente - e, dunque, prescindendosi dal consenso del lavoratore - la modifica delle mansioni oggetto del contratto di lavoro.

Questo eccezionale potere attribuito alla parte datoriale si ascrive alla relativa primazia nel generale quadro del rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., nel cui ambito il lavoratore deve adempiere alle proprie obbligazioni “alle dipendenze” e “sotto la direzione” del datore di lavoro. Subendo anche, ove ne ricorrano i requisiti di legge, modifiche alle mansioni assegnate al momento dell'assunzione.

Le novità apportate dal D.Lgs. n. 81/2015 al testo dell'art. 2103 c.c. hanno ulteriormente esteso, rispetto alla previgente formulazione della norma civilistica, il perimetro delle fattispecie nelle quali al datore di lavoro è consentito adottare unilaterali modifiche alle mansioni assegnate al lavoratore.

Da un lato, la nuova norma (in senso dirompente rispetto al passato, che nulla disponeva sul punto), introduce l'espressa facoltà per il datore di lavoro di unilateralmente disporre modifiche in senso verticale, nell'ambito e nel rispetto di specifici limiti e presupposti esplicitamente previsti dalla norma.

Dall'altro lato – ed è questo il profilo della norma preso in considerazione dalle sentenze in commento – il nuovo articolo 2103 c.c. estende profondamente, rispetto alla previgente disciplina, l'area delle mansioni alle quali il lavoratore può essere validamente destinato, anche a prescindere dal suo consenso, in caso di unilaterali variazioni in senso orizzontale.

Alla stregua del vecchio art. 2103 c.c., modifiche in senso orizzontale erano consentite solamente se e nella misura in cui le mansioni di destinazione fossero “equivalenti” alle mansioni di origine. In questo senso, la norma affermava che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione».

La copiosissima giurisprudenza chiamata a pronunciarsi in materia ha precisamente individuato i confini della “equivalenza”, affermandone la sussistenza nei casi in cui venga comprovato in giudizio, in concreto, la conservazione del livello professionale delle mansioni assegnate, sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo, restando in linea di principio irrilevante, in tale analisi, l'identità del livello formale di inquadramento attribuito al prestatore di lavoro.

La stessa sentenza del Tribunale di Roma oggetto di commento richiama, a tale proposito, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui «il divieto per il datore di lavoro di variazione in peius ex art. 2103 c.c., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso» (Cass., sez. lav. 5 agosto 2014, n. 17624). In termini simili si era espressa la Suprema Corte qualche mese prima, affermando che «il divieto di variazione peggiorativa, di cui all'art. 2103 c.c., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali» (Cass., sez. lav., 4 marzo 2014, n. 4989, parimenti richiamata dalla Sentenza del Tribunale di Roma oggetto del presente commento).

La nuova formulazione dell'art. 2103 c.c. rovescia la precedente impostazione: da un lato, cancella la nozione sostanziale e concreta di “equivalenza” (la quale, sino al giugno di quest'anno aveva costituito il “limite invalicabile” delle operazioni di mobilità in orizzontale del lavoratore) e, dall'altro lato, espressamente introduce, quale inedito limite di validità dell'esercizio dello ius variandi in senso orizzontale, una nuova barriera di tipo formale e astratto, meramente costituita dall'inquadramento del lavoratore. In marcata contrapposizione rispetto al passato, afferma il novellato art. 2103 c.c. che «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento».

Proprio l'elemento formale, che nell'ambito dello scrutinio di equivalenza delle mansioni effettuato alla stregua del “vecchio” art. 2103 c.c., non era ritenuto dirimente, assurge, oggi, a discrimen della validità o invalidità dell'operato del datore di lavoro che unilateralmente disponga spostamenti in orizzontale del proprio prestatore di lavoro.

In questo contesto, è ragionevole attendersi che verrà ad assumere sempre maggiore rilievo il sistema di classificazione sancito dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro del dipendente interessato, posto che l'articolazione dei livelli prevista in quest'ultimo è idonea ad offrire all'interprete un punto univoco di riferimento, ancorato a parametri oggettivi, per valutare la validità dell'operato del datore di lavoro, rispetto all'esercizio dello ius variandi.

Sembrano proprio andare in questa direzione le argomentazioni espresse dal Giudice di Ravenna, quando afferma che «le classificazioni del personale integrano sistemi complessi perché rappresentano il risultato di valutazioni articolate e sono rivolte al perseguimento di plurimi interessi che hanno riguardo ad una varietà di questioni: dalla distribuzione del reddito, al mantenimento dei livelli occupazionali; dallo sviluppo della produttività alle progressioni professionali; a finalità sociali ed al costo del contratto. Pertanto se è vero che l'art. 2103 c.c. è norma di garanzia individuale, a tutela della professionalità di ogni singolo lavoratore, anche rispetto alla classificazione collettiva, secondo il meccanismo dell'inderogabilità in peius, è anche vero che le regole sull'inquadramento professionale sono scritte dalle parti collettive; sono loro che sanno cosa hanno voluto dire quanto hanno inserito una figura in un livello o in altro. Il primo passo obbligato nella soluzione di queste vicende è l'analisi ragionata, sistematica e rispettosa del contratto collettivo».

Se questo è il comune quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento dal quale prendono le mosse ambedue le sentenze oggetto di commento, radicalmente opposte sono le conclusioni che, rispettivamente, il Tribunale di Roma ed il Tribunale di Ravenna raggiungono quanto alla richiamata tematica della corretta individuazione del dies a quo degli effetti dell'art. 2103 c.c. nella sua nuova formulazione.

Il Tribunale di Roma assume che il nuovo art. 2103 c.c. possa applicarsi anche in relazione a situazioni di asserito demansionamento manifestatesi anteriormente al 25 giugno 2015 (merita ribadirlo, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015) e continuate in data successiva.

In questo contesto, il “vecchioart. 2103 c.c. costituisce il referente normativo per la valutazione delle situazioni di asserito demansionamento sino al 25 giugno 2015, mentre il “nuovoart. 2103 c.c., invece, esplica i suoi effetti per il periodo successivo.

Applicando questo principio, il Tribunale di Roma considera valido l'operato del datore di lavoro in relazione al periodo temporale successivo al 25 giugno 2015, posto che le nuove mansioni del lavoratore erano risultate comunque riconducibili nel medesimo livello e categoria legale delle mansioni assegnate in precedenza. Quanto al periodo antecedente al 25 giugno 2015 le doglianze del lavoratore vengono ugualmente respinte, per non aver egli fornito adeguata prova dei presupposti del lamentato demansionamento, alla stregua del “vecchio” testo dell'art. 2103 c.c.

Anche il Tribunale di Ravenna respinge le domande del lavoratore ricorrente, ma esclusivamente sulla scorta del “vecchio” testo dell'art. 2103 c.c. Il Magistrato ritiene, infatti, che la nuova normativa non si possa applicare alla fattispecie sottoposta al suo vaglio, in quanto il fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (l'asserito demansionamento) si è prodotto nella fattispecie nel vigore della legge precedente, in un contesto nel quale il fatto storico che segna il discrimen tra una normativa e l'altra è, appunto, il prodursi del demansionamento, restando irrilevante la circostanza che la situazione asseritamente illecita continui a dispiegare i propri effetti oltre al 25 giugno 2015.

Non è impresa agevole, allo stato, schierarsi a favore dell'una o dell'altra tesi.

A favore della prima, milita il rilievo per cui il demansionamento deve considerarsi un illecito – non già ad effetto istantaneo, bensì – continuato, dimodoché la valutazione della sua compatibilità con il quadro di riferimento deve essere riferito non solo alla data di inizio, ma giorno dopo giorno, conseguendone la possibile validità, almeno in astratto, che una situazione ricadente nell'ambito della dequalificazione secondo la previgente formulazione non possa essere più considerata tale a partire dalla data in cui è entrata in vigore la nuova versione.

A favore della seconda tesi, invece, soccorre l'inconfutabile circostanza per cui il D.Lgs. n. 81/2015, nell'introdurre la nuova norma, non ha altresì munito il relativo testo di legge con una disciplina transitoria idonea a governare le situazioni di asserito demansionamento “a cavallo” del 25 giugno 2015, dimodoché il generale principio per cui la legge dispone solo per l'avvenire potrebbe essere invocato in subiecta materia per impedire ai giudici di utilizzare il nuovo (e più flessibile) art. 2103 c.c. per regolare vicende insorte anteriormente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, benché continuate in data successiva.

Saranno inevitabilmente le nuove pronunce della giurisprudenza che ci consentiranno di disporre di un quadro maggiormente nitido ed individuare, ex post, il consolidarsi di un orientamento piuttosto che dell'altro.

Osservazioni

La tematica affrontata dalle due decisioni in commento è stato il primo banco di prova del nuovo art. 2103 c.c. ed ha aperto il fronte di una questione, quella dell'efficacia temporale delle nuove norme in tema di ius variandi, verosimilmente destinata a divenire terreno di proliferazione di decisioni variegate, come hanno già dimostrato i Magistrati di Roma e di Ravenna i quali, lo stesso giorno, si sono espresse in maniera diametralmente opposta, su una fattispecie pressoché coincidente.

Sotto altro versante, merita segnare che il novellato art. 2103 c.c. potrà condurre ad un acceso dibattito, ad esempio, in relazione al relativo impatto sulla diversa materia dei presupposti di validità di un licenziamento individuale per ragioni oggettive, la cui configurabilità, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, presuppone la comprovata impossibilità di reimpiego del lavoratore, con il consenso del medesimo, in altre mansioni vacanti in azienda (cd. repechage).

In questo senso, con specifico ed esclusivo riferimento all'aumento del perimetro delle ipotesi di valido esercizio dello ius variandi in direzione orizzontale, è ragionevole attendersi che la giurisprudenza ricolleghi in futuro la verifica circa il corretto adempimento dell'obbligo di repechage non solo all'esistenza di posizioni lavorative sostanzialmente equivalenti a quelle di origine e per le quali esista consenso, ma anche a quelle in ogni caso riconducibili allo stesso livello e categoria legale, alla stregua del nuovo art. 2103 c.c., senza alcuna previa necessità di ricercare il consenso del dipendente.

Tant'è vero che, in considerazione dell'introduzione nel novellato art. 2103 c.c. di - radicalmente innovative - ipotesi di variazione unilaterale in senso verticale, è già stato osservato in dottrina che la verifica della corretta esecuzione dell'adempimento dell'obbligo di repechage potrebbe spingersi addirittura sino a sondare l'eventuale esistenza in azienda di posti vacanti a livello inferiore.

A tale ultimo riguardo, va rilevato che la verifica di posti vacanti anche eventualmente inferiori è già stata caldeggiata da un filone giurisprudenziale anteriore alla novella dell'art. 2103 c.c., il quale, oggi, nei commi della nuova formulazione della norma, potrà verosimilmente trovare uno specifico e più ampio referente normativo.

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