Demansionamento del dirigente pubblico: illegittimità del provvedimento amministrativo e tutela ripristinatoria

24 Febbraio 2017

Il dirigente pubblico che venga privato, in tutto o in parte, delle sue mansioni per effetto di un illegittimo provvedimento della P.A. datrice di lavoro, ha diritto al ripristino delle mansioni nella loro pienezza e a portare a termine i compiti conferitigli fino alla scadenza pattuita, con detrazione del periodo già trascorso dal conferimento all'illegittimo svuotamento delle mansioni.
Massime

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, configura demansionamento del dirigente la sottrazione delle mansioni maggiormente qualificanti l'incarico conferito dovuta ad una riorganizzazione aziendale che, pur lasciando formalmente integri i compiti affidati al dirigente, di fatto li riduca a compiti routinari, oltretutto a vantaggio di un consulente privato esterno alla P.A.

La revoca dell'incarico dirigenziale deve essere espressa e motivata, pena la violazione dell'art. 3, Legge n. 241/1990 volto a dare attuazione non solo all'art. 97 Cost., ma anche a tutelare il diritto di difesa nei confronti della amministrazione di cui agli artt. 24 e 113 Cost.

Il dirigente pubblico che venga privato, in tutto o in parte, delle sue mansioni per effetto di un illegittimo provvedimento della P.A. datrice di lavoro, ha diritto al ripristino delle mansioni nella loro pienezza e a portare a termine i compiti conferitigli fino alla scadenza pattuita, con detrazione del periodo già trascorso dal conferimento all'illegittimo svuotamento delle mansioni.

Il caso

La Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, esamina il caso di un dirigente di azienda sanitaria ospedaliera che ricorre al Giudice del lavoro di Torino lamentando di aver subíto, senza alcuna giustificazione, un progressivo svuotamento delle sue mansioni più qualificanti, peraltro a vantaggio di un consulente privato esterno all'Azienda.

Il dirigente deduce, in particolare, che da referente per tutte le questioni relative alla informatizzazione aziendale e unico Responsabile dell'Ufficio Organizzativo Amministrativo (UOA) Sistema Informativo, si era viste progressivamente assegnate solo le mansioni di carattere routinario e relative al funzionamento della rete, finendo per trovarsi non solo senza più collaboratori ma assoggettato egli stesso al controllo del consulente esterno.

Il Tribunale, ritenendo provato in via presuntiva l'impoverimento della professionalità del ricorrente, accoglie il ricorso; la Corte di Appello di Torino, nel confermare la sentenza di primo grado, condanna l'Azienda ospedaliera ad assegnare al dirigente le funzioni svolte prima del demansionamento e a risarcire allo stesso i danni conseguenti all'illegittimo provvedimento di revoca implicita dell'incarico dirigenziale.

L'Azienda ricorre in Cassazione e la Suprema, con la pronuncia in commento, rigetta il ricorso, confermando la sentenza di merito nella parte in cui ha riconosciuto al dirigente il ripristino delle mansioni dirigenziali svolte prima dell'accertato svuotamento, puntualizzando, ex art. 384, ultimo comma, c.p.c., che tale ripristino “si risolve nel riconoscimento del diritto a portare a termine i compiti conferitigli fino alla scadenza pattuita, con detrazione del periodo già trascorso dal conferimento all'illegittimo svuotamento delle mansioni”.

Le questioni

La pronuncia in commento si sofferma su due interessanti questioni:

  1. configurabilità del demansionamento del dirigente pubblico e oneri probatori;
  2. condizioni di legittimità della revoca dell'incarico dirigenziale e rimedi sanzionatori riconosciuti al giudice ordinario.
Le soluzioni giuridiche

Riguardo alla prima questione (configurabilità del demansionamento del dirigente pubblico e oneri probatori), la Suprema Corte ribadisce un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, se è vero che l'art. 52, D.Lgs n. 165/2001 ha recepito un concetto di concetto di equivalenza “formale” delle mansioni, tuttavia, “ove vi sia stato un comportamento della P.A. di sostanziale 'svuotamento' dell'attività lavorativa, la vicenda esula dall'ambito delle problematiche sulla equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego” (p. 6 della sentenza in esame; tra le successive pronunce, v. Cass. sez. lav., 17 gennaio 2017, n. 2140; tra le altre, Cass. sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8854; Cass. sez. lav., 11 marzo 2011, n. 5881).

Così, la Corte da un lato evidenzia la specialità del regime dello ius variandi nel pubblico impiego rispetto al lavoro privato, regolato dall'art. 2103 c.c. (nella versione anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 81/2015), dall'altro ribadisce che anche nell'ambito del pubblico impiego resta vietato il demansionamento, ossia quell'impoverimento della professionalità del dipendente che si traduce in lesione idonea a generare danni a contenuto patrimoniale e non patrimoniale, alterando “la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell'uomo con se stesso” (Cass. sez. lav., 12 giugno 2015, n. 12253).

La pronuncia offre lo spunto per ricordare che, in base al concetto di “equivalenza formale”, il datore di lavoro pubblico può disporre la variazione del profilo professionale del suo dipendente indipendentemente dalla professionalità che questi abbia in concreto acquisita, purché il profilo rientri nella classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi (Cass. sez. lav., 26 marzo 2014, n. 7106; Cass. sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18283; Cass. sez. lav., 11 maggio 2010, n. 11405).

Tale concetto viene desunto dalla giurisprudenza dal secondo periodo del primo comma dell'art. 52, D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui: “L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore”, ed emerge con tutta evidenza per i dirigenti, per i quali l'art. 19, D.Lgs. n. 165/2001, al primo comma espressamente prevede che “al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'art. 2103 c.c.”.

In forza di tale disposizione, il dirigente può essere trasferito da un incarico più elevato ad uno inferiore senza incorrere nel divieto di demansionamento previsto dal codice civile.

Conseguentemente, “Mentre nel settore privato è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle, nel settore pubblico, ex art. 52, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 (…) condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico" (così Cass. sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18283).

Nel pubblico impiego, dunque, restano insindacabili dal giudice sia l'operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l'operazione di verifica dell'equivalenza “sostanziale” tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.

In altri termini, nel pubblico impiego non rileva la percezione soggettiva del demansionamento dovuta al mutamento della professionalità concretamente acquisita ma la sola corrispondenza oggettiva tra le mansioni svolte dal dipendente e quelle previste per quel livello dalla contrattazione collettiva.

Ciò rende, evidentemente, molto gravosa la prova del demansionamento.

La giurisprudenza ha comunque individuato alcuni indici inconfutabili di demansionamento, quali la privazione delle mansioni qualificanti e maggiormente caratterizzanti l'attività attribuita al lavoratore, la inattività del dipendente (assegnato, ad esempio, ad uffici fittizi), l'isolamento da parte dei colleghi e dei superiori, e, con particolare riguardo all'incarico dirigenziale, l'emarginazione dalla possibilità del dirigente di partecipare alle scelte tecniche del settore di competenza e il trasferimento in un ufficio di minor rilievo rispetto alle proprie competenze specialistiche (così Cass. sez. lav., 8 gennaio 2015, n. 56).

In presenza di tali circostanze, desumibili anche in via presuntiva, è stato riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno - a prescindere dalla prova di qualsivoglia intento discriminatorio o persecutorio idoneo a qualificare la condotta datoriale come mobbing - tenendo conto di alcuni parametri, quali la persistenza del comportamento lesivo del datore, la durata e la reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente (si v. Cass. S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28274).

La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, facendo propri suddetti criteri giurisprudenziali, ritiene logica ed adeguata la motivazione della Corte di merito che ha ritenuto accertato il demansionamento rinvenendolo nella sottrazione al dirigente delle competenze maggiormente qualificanti l'incarico conferitogli e liquidando il danno in via equitativa, in base alla complessiva valutazione degli elementi dedotti in giudizio (caratteristiche, durata, gravità della condotta dell'Amministrazione e frustrazione professionale subita dal dirigente).

Nella fattispecie, peraltro, lo svuotamento delle attività del dirigente era stato accompagnato dalla correlativa assegnazione delle sue attività ad un consulente privato, esterno alla azienda sanitaria ospedaliera, così configurando una revoca “implicita” dell'incarico dirigenziale a seguito della nomina del consulente esterno.

E qui si profila il secondo interessante passaggio della sentenza de qua, in cui la Suprema rileva ulteriori profili di illegittimità della condotta dell'Amministrazione, affermando che “Secondo il costante indirizzo della Corte Costituzionale, l'interruzione ingiustificata del rapporto di ufficio dei dirigenti prima dello spirare del termine stabilito si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost., violando il principio di continuità dell'azione amministrativa che è strettamente correlato a quello del buon andamento dell'azione stessa. Infatti, il rispetto del canone dell'efficacia e dell'efficienza dell'azione amministrativa implica una valutazione fondata sui risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli impegni assunti.”

Conseguentemente, la Corte evidenzia che le funzioni legittimamente conferite ai dirigenti possono essere tolte prima della scadenza pattuita solo per effetto di una revoca esplicita, motivata da specifiche ragioni connesse ad una accertata responsabilità dirigenziale dell'interessato e conseguente ad un procedimento di garanzia disciplinato dalla legge e dal C.C.N.L. (nella fattispecie, l'art. 29 del CCNL dell'Area della dirigenza sanitaria professionale tecnica ed amministrativa del Servizio Sanitario Nazionale dell' 8 giugno 2000), nel rispetto, peraltro, dell'art. 3, Legge n. 241/1990 che, in attuazione degli artt. 24 e 113 Cost. posti a presidio del diritto del cittadino alla difesa nei confronti della amministrazione, impone la motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi.

Una revoca “implicita”, sottolinea la Corte, si pone altresì in contrasto con i principi di coordinamento della finanza pubblica, giacché determina un aumento della spesa complessiva per il personale regionale e locale senza darne alcuna giustificazione (più in generale, a proposito di danno erariale conseguente ad illegittima privazione di mansioni del dipendente, si v. Corte dei Conti, reg. Valle d'Aosta, sez. giurisd., 24 luglio 2014, n. 14, che, in una fattispecie di dirigente pubblico assegnato ad una struttura di fatto inesistente, ha qualificato come danno diretto la minore utilità che l'amministrazione ha percepito da parte del dipendente demansionato e la ha quantificata nella differenza tra le prestazioni che avrebbe dovuto ricevere e quelle perse a causa del demansionamento; v. anche Corte dei Conti, reg. Lazio, sez. giurisd., 24 settembre 2015, n. 390, che ha configurato un danno erariale nella ipotesi di affidamento di incarichi a personale esterno cui venivano assegnati i compiti svolti da un dipendente illegittimamente demansionato; così pure, in termini analoghi a quest'ultima pronuncia, v. Corte dei Conti, reg. Campania, sez. giurisd., 13 ottobre 2011, n. 1807 in Riv. Corte Conti, 2011, 5-6, 266).

Sulla base di tali premesse, la Corte conferma la pronuncia di appello che aveva stabilito la restitutio in integrum della posizione lavorativa lesa dalla privazione delle precedenti mansioni e dunque il ripristino delle mansioni svolte prima dell'accertato svuotamento; inoltre, la Suprema puntualizza che tale ripristino “si risolve nel riconoscimento del diritto a portare a termine i compiti conferitigli fino alla scadenza pattuita, con detrazione del periodo già trascorso” dal conferimento dell'incarico all'accertato demansionamento.

Osservazioni

I principi espressi in tema di demansionamento dalla pronuncia in commento si ritiene che ben possano attagliarsi anche all'attuale testo dell'art. 2103 c.c., modificato dall'art. 3, D.Lgs. n. 81/2015, che, con l'abbandono del criterio della equivalenza delle mansioni e l'attribuzione di ampi poteri derogatori alla contrattazione collettiva anche aziendale, finisce per avvicinare di molto il regime dello ius variandi nel settore privato a quello già previsto nel pubblico impiego.

Come è stato osservato: “In sostanza, il legislatore del 2015 ha esteso al settore del lavoro alle dipendenze di privati un regime analogo a quello previsto dall'art. 52, D.Lgs. n. 165/2001 per il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni: così come quest'ultima norma, disponendo genericamente che 'Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento (..)', assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (...), alla stessa maniera il nuovo art. 2103 impone di arrestare la verifica dell'equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle precedentemente svolte all'accertamento del formale livello di inquadramento del lavoratore interessato e alla riconducibilità delle nuove mansioni a quel livello” (così Trib. Roma, 30 settembre 2015).

Si ricorda, infatti, che in base al nuovo art. 2103 c.c., la contrattazione collettiva è libera di disciplinare liberamente il mutamento delle mansioni in orizzontale (comma 1), in verticale (comma 7) e persino verso il basso (comma 4).

In particolare, l'attuale articolo 2103 c.c., al primo comma, statuisce: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, a differenza di quanto previsto nel primo comma del vecchio testo, che consentiva una variazione delle mansioni solo se corrispondenti ad una categoria superiore successivamente acquisita o purché “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, imponendo al datore di lavoro una “ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito, e di una effettiva garanzia dell'accrescimento delle capacità professionali del dipendente” (così Cass. sez. lav., 22 febbraio 2016, n. 3422; v. anche Cass. sez. lav., 3 luglio 2015, n. 13714; Cass. sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13499; Cass. sez. lav., 10 settembre 2013, n. 20718).

Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio la portata della nuova disciplina, tuttavia ci si può chiedere se il concetto di “equivalenza formale” delle mansioni adottato nel pubblico impiego, ora “esportato” anche nel nuovo testo dell'art. 2103 c.c., non poggi su specifiche ragioni, proprie del settore pubblico, difficilmente rinvenibili in quello privato.

Tra queste basti ricordarne un paio.

Lo speciale regime di ius variandi nel pubblico impiego è stato, innanzitutto, giustificato in base alla peculiarità del sistema delle fonti nel pubblico impiego, che assegna al contratto collettivo il rango di fonte principe della disciplina del rapporto di lavoro pubblico, come emerge dal D.Lgs. n. 165/2001 che, dettando regole peculiari solo per i dirigenti ed i vicedirigenti, attribuisce per il restante personale piena delega alla contrattazione collettiva, libera di intervenire “senza incontrare il limite della inderogabilità delle norme concernenti il lavoro subordinato privato” (Cass. sez. lav., 25 gennaio 2016, n. 1241; Cass. sez. lav., 5 luglio 2005, n. 14193).

Orbene, tale contrattualizzazione opera “al di fuori del quadro di garanzie costituzionali della libertà di iniziativa economica privata di cui all'art. 41 Cost., collocandosi invece nel segno del principio di legalità della funzione pubblica che deve esercitarsi rigorosamente entro i criteri di cui all'art. 97 Cost., individuati dalla legge per quanto riguarda specificamente i rapporti di lavoro, nell'efficienza, trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa” () e “non è realmente paragonabile – per formazione, efficacia e controlli – alla contrattazione collettiva nel settore privato, finanche di prossimità” (così).

Lo speciale regime di ius variandi nel pubblico impiego è stato inoltre giustificato dalla sussistenza dei “vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale” (così, tra le più recenti Cass. sez. lav., 17 gennaio 2017, n. 2140), vincoli che non si rinvengono nel settore pubblico (decisamente entusiasta delle novità legislative è Pisani C., secondo cui “La riforma, con questa devoluzione della materia alle parti sociali, si inscrive, infatti, nel modello del c.d. garantismo flessibile, quale strada intermedia tra la rigidità delle tipizzazioni legali e l'incertezza propria delle norme a precetto generico, idonea ad attenuare i caratteri negativi dell'una e dell'altra, secondo una tendenza progettuale e riformistica risalente agli ottanta del secolo scorso).

Guida all'approfondimento
  • Amendola F., La disciplina delle mansioni nel D.Lgs. n. 81/2015, in WP CSDLE n. 291/2016
  • Avondola A., La Riforma dell'art. 2103 c.c. dopo il Jobs Act, in Riv. It. Dir. Lav., III, 2016, 369 ss
  • Brollo M., La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, ADL, 2015, 1162 ss
  • D'Aponte M., Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela e abusi della P.A., in Lavoro nelle P.A., 2005, 833 ss
  • Pisani C., I nostalgici dell'equivalenza delle mansioni, in WP CSDLE n. 310/2016

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