Eccessiva morbilità del lavoratore: illegittimità del licenziamento per giusta causa

25 Gennaio 2017

Va disposta la reintegrazione del lavoratore, assoggettato alla disciplina del contratto a tutele crescenti, licenziato per giusta causa ex art. 2119 c.c. in relazione all'asserita interruzione del rapporto fiduciario conseguente il protratto periodo di malattia in caso di mancata costituzione di parte datoriale, comportante il mancato assolvimento dell'onere probatorio.
Massima

Va disposta la reintegrazione del lavoratore, assoggettato alla disciplina del contratto a tutele crescenti, licenziato per giusta causa ex art. 2119 c.c. in relazione all'asserita interruzione del rapporto fiduciario conseguente il protratto periodo di malattia in caso di mancata costituzione di parte datoriale, comportante il mancato assolvimento dell'onere probatorio.

Il caso

Il lavoratore ricorreva al Tribunale di Milano, impugnando il licenziamento intimatogli per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c., per l'asserita interruzione del rapporto fiduciario in essere a causa del protratto periodo di malattia (oltre 181 giorni consecutivi), idoneo a non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Il lavoratore sosteneva che, essendo stato assunto dalla Società con contratto a tempo indeterminato a far data dal 19 settembre 2015, fosse da applicare la disciplina di cui al contratto a tempo determinato a tutele crescenti ex D.Lgs. n. 23/2015.

In particolare, il ricorrente deduceva la nullità del provvedimento datoriale in quanto non era stato superato il c.d. periodo di comporto previsto dal CCNL applicabile al caso di specie, con conseguente diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro ed a vedersi riconosciuto il risarcimento del danno, nella misura di 5 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Ciò dedotto, il lavoratore, pertanto, chiedeva al Giudice di dichiararsi ed accertarsi la nullità del licenziamento intimatogli e, per l'effetto, ordinarsi la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della Società al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, in misura non inferiore alle 5 mensilità, in subordine riconoscendo una indennità risarcitoria non inferiore alle 4 mensilità e, in via ulteriormente subordinata al pagamento di 2 mensilità, nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga la soglia dimensionale dell'art. 18 Stat. Lav.

La Società resistente non si costituiva in giudizio.

La questione

La sentenza in esame si inserisce nell'ampio e dinamico dibattito giurisprudenziale sul tema delle assenze per malattia di cui all'art. 2110 c.c. e dello scarso rendimento, quale giustificato motivo di licenziamento nel suo connotato ontologico.

Infatti, la pronuncia de qua ci offre lo spunto per ripercorre l'annosa questione se lo scarso rendimento della prestazione lavorativa connesso all'eccessiva morbilità del lavoratore – pur non avendo superato il periodo di comporto – possa integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Le soluzioni giuridiche

Appare quantomeno opportuno fare alcuni brevi cenni sugli istituti giuridici che vengono in rilievo, nonché segnalare gli orientamenti giurisprudenziali intervenuti al riguardo.

La fattispecie di recesso del datore di lavoro per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. “eccessiva morbilità”), è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.

L'art. 2110 c.c., infatti, così stabilisce: “… In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali dagli usi o secondo equità. Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.

Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto) il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. sez. lav., 28 gennaio 2010, n. 1861).

La fattispecie di recesso “per scarso rendimento” trova la sua giustificazione in un “grave inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti dal lavoratore subordinato”, non potendo limitarsi a mettere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro senza alcun riguardo per il risultato del lavoro ma essendo, altresì, richiesto che la prestazione lavorativa sia eseguita con l'impegno e la professionalità media delle mansioni svolte, nonché usando la diligenza richiesta dalla natura dell'attività assegnata ed osservando le disposizioni impartite dall'imprenditore.

Da qui, si sono susseguite nel corso del tempo, pronunce giurisprudenziali volte a ricondurre tale forma di recesso nell'ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero quello soggettivo (disciplinare) a seconda che si prescinda o meno dalla responsabilità del lavoratore.

L'orientamento maggioritario della giurisprudenza ritiene, come noto, che lo scarso rendimento possa valere come un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Da ciò nasce, quindi, la necessità che il datore di lavoro dia prova del mancato raggiungimento del livello medio di rendimento del lavoratore, del rilevante scarto fra questo e il rendimento del dipendente (così da permettere di ritenere integrato, in conformità della norma, un inadempimento notevole degli obblighi contrattuali), della non riconducibilità dello scarso rendimento a fattori organizzativi/produttivi propriamente imputabili agli assetti aziendali determinati dal datore medesimo, nonché dell'imputabilità dello scarso rendimento a negligenza o imperizia del lavoratore.

Pertanto, l'orientamento giurisprudenziale consolidato se, da un lato, ha ammesso che il mancato raggiungimento di quanto oggettivamente esigibile possa essere considerato un inadempimento contrattuale, dall'altro ha aggiunto che, affinché il provvedimento espulsivo possa essere considerato legittimo, debba sempre essere adottato nell'ambito del giustificato motivo di licenziamento, rilevando o l'aspetto “soggettivo” (disciplinare) del notevole inadempimento contrattuale pur sempre imputabile ad un comportamento cosciente e volontario del dipendente, dovuto a negligenza e/o imperizia del lavoratore (Cass. sez. lav., 1 dicembre 2010, n. 24361) ovvero il fattore “oggettivo” delle ragioni inerenti l'organizzazione del lavoro, l'attività produttiva e il regolare funzionamento di essa (Cass. sez. lav., 18 marzo 2015, n. 14310).

Detto ciò, in materia è doveroso segnalare la recente sentenza della Suprema Corte n. 18678 del 4 settembre 2014 la quale ha ricondotto lo scarso rendimento del lavoratore determinato dal protratto periodo di malattia al concetto di giustificato motivo oggettivo nel suo connotato ontologico e teleologico.

Le conclusioni cui perviene tale sentenza traggono origine dall'assunto che, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 604/1966, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quello determinato non solo da notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (facendo riferimento, quindi, ai casi in cui lo stesso sia imputabile ad un comportamento colposo o doloso del lavoratore, così da costituire, in tal modo, un giustificato motivo soggettivo) ma anche ai casi in cui tale inadempimento sia determinato da “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.

In tal caso, rileva una situazione di oggettivo contrasto tra posizione datoriale e posizione del lavoratore, in forza della quale, per ragioni connesse con l'attività produttiva o con l'organizzazione del lavoro ed il suo regolare funzionamento, l'azienda si trova nell'impossibilità di proseguire la collaborazione con il lavoratore, perché la prosecuzione di tale collaborazione, ove anche materialmente possibile, si rivelerebbe, in ogni caso, del tutto inutile ed improficua per l'azienda (c.d. antieconomicità della prestazione lavorativa).

Ragion per cui, la Suprema Corte ha concluso che “è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.

In siffatti casi, ai fini della legittimità del licenziamento, non rileva lo stato di malattia di per sé considerato, né tanto meno il comportamento colpevole del lavoratore (nel caso di specie, l'eccessiva morbilità era risultata regolarmente provata e certificata), né che tale malattia non abbia superato il periodo di comporto, ma proprio il fatto che “le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale”.

In senso conforme si è espressa di recente anche la giurisprudenza di merito, ribadendo che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere intimato anche per fatti attinenti la sfera del lavoratore, quando i suoi periodi di malattia incidono gravemente sul contesto e sull'organizzazione aziendale (Tribunale di Milano, 19 gennaio 2015, n. 1341).

In altre parole, in base a tale filone giurisprudenziale, la c.d. eccessiva morbilità, dovuta a reiterate assenze per malattia, integra gli estremi dello scarso rendimento quando la prestazione di lavoro non è più utile al datore di lavoro.

In tal caso, il fatto del lavoratore – indipendentemente dalla sua colpevolezza – è oggettivamente idoneo a provocare la risoluzione del rapporto.

A tal fine, il datore di lavoro dovrà dimostrare:

  1. il livello di produttività medio realizzato nell'Azienda e la sua esigibilità;
  2. lo standard produttivo concordato con il dipendente;
  3. l'esistenza di una enorme sproporzione tra detto livello medio di produttività e quanto effettivamente realizzato dal lavoratore;
  4. l'imputabilità della scarsa produttività del lavoratore alla negligenza di quest'ultimo;
  5. il protrarsi per un congruo periodo di tempo (almeno 6 mesi) della condotta negligente del lavoratore (Cass. 19 agosto 2016 n. 18317; Tribunale di Milano, 30 maggio 2016, n. 1641).
Osservazioni

Prima di esporre le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Milano con la pronuncia qui in commento, è utile ribadire che, a seguito dell'entrata in vigore del c.d. Decreto a tutele crescenti, D.Lgs. n. 23/2015, è stato introdotto un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo applicabile ai neoassunti a tempo indeterminato - ad esclusione dei dirigenti - a partire dal 7 marzo 2015, nonchè anche ai lavoratori assunti nelle imprese in cui, in conseguenza delle nuove assunzioni, venga superato il limite dei 15 dipendenti, dove in questo caso si applica anche ai rapporti già in essere.

Il D.Lgs. n. 23/2015 riprende, per alcuni aspetti, le novità introdotte dalla Legge n. 92/2012, con l'obiettivo di rendere la sanzione del risarcimento del danno la regola, rimanendo residuale quella della reintegrazione nel posto di lavoro, proponendo un regime di tutele crescenti rispetto all'anzianità di servizio del lavoratore.

Per quel che rileva in tale sede, si evidenzia, infatti, come il legislatore del 2015 ha previsto la tutela esclusivamente risarcitoria in tutti i casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (esente da contribuzione previdenziale) pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio con un minimo di 4 ed un massimo di 24 (art. 3, comma 1).

Solo per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, è prevista la reintegrazione, nonché un'indennità risarcitoria non superiore in ogni caso a 12 mensilità, oltre il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali (art. 3, comma II); rimane salva la facoltà del lavoratore di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione delle reintegrazione, un'indennità sostitutiva di 15 mensilità esente da contribuzione previdenziale (art. 2, comma 3).

Si ricorda che, in merito all'interpretazione dell'insussistenza del fatto materiale, è sorto, all'indomani delle Legge n. 92/2012, un dibattito giurisprudenziale.

Come noto, l'orientamento prevalente è quello in base al quale il fatto viene inteso non in senso materiale, considerato cioè nelle sue componenti di condotta od omissione, nesso causale ed evento, ma in senso giuridico, comprensivo di elementi ulteriori rispetto alla mera condotta materiale del lavoratore, cioè di componenti quali l'antigiuridicità e i criteri di imputazione soggettiva del fatto. In altre parole, secondo tale tesi, il fatto non sussiste non solo quando non si è mai verificato sul piano fenomenico, ma anche quando, seppur avvenuto nella sua materialità, risulta non esistente da un punto di vista soggettivo.

Tale tesi del fatto in senso giuridico sembra essere ancora dominante anche dopo l'avvento della nuova disciplina di cui al D.Lgs. n. 23/2015 (Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540 e Cass. sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20545).

Ciò premesso, il Tribunale di Milano ha ritenuto fondato il ricorso, sostenendo l'illegittimità del recesso; in particolare, ha evidenziato che, nel caso di specie, era palese che il licenziamento fosse stato intimato per giusta causa, stante sia l'espresso richiamo all'art. 2119 c.c., che l'allegazione secondo cui il protratto periodo di malattia avrebbe determinato l'interruzione del rapporto fiduciario, tale da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria del rapporto di lavoro.

Pertanto, il Giudice ha ribadito che la protrazione dello stato di malattia del lavoratore può assurgere a giustificato motivo oggettivo di licenziamento al superamento del periodo di comporto o di giusta causa, antecedentemente all'elasso del termine di comporto, soltanto qualora il datore di lavoro alleghi e dimostri che l'eccessiva morbilità del lavoratore abbia prodotto grave grave inadempimento, per scarso rendimento e correlata disfunzione organizzativa.

Orbene, sulla base di tale principio, il Tribunale ha concluso che era mancata la dimostrazione della sussistenza della giusta causa posta a fondamento del licenziamento, così concretizzandosi un caso di manifesta insussistenza del fatto materiale, da cui ha fatto discendere, ai sensi dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro ed il pagamento dell'indennità risarcitoria, nonché il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

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