Jobs act e diritto alle mansioni: al via la flessibilità
24 Febbraio 2015
Abstract
ll Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015 ha dato il via ufficiale all'introduzione di una nuova disciplina in tema di mansioni del lavoratore prevista dal cd. Jobs Act. La norma non ha avuto la stessa eco mediatica delle altre approvate nell'atteso CDM, nel quale sono stati concentrati molti temi tra i quali l'attesissimo contratto a tutele crescenti, eppure essa ha una portata davvero importante, essendo destinata ad intaccare e modificare un principio codicistico fondamentale, quale quello delle mansioni del lavoratore di cui all'art. 2103 cod. civ. La norma è stata introdotta dall'art. 1 comma 7 lettera “e” della Legge delega n. 183/2014, scardinando il principio secondo il quale il lavoratore non può che essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o quelle equivalenti ovvero corrispondenti alla categoria superiore. Ora, alle condizioni che saranno analizzate, subentra il principio della possibile revisione o della modificazione delle mansioni verso una completa flessibilità delle stesse. La principale obbligazione del lavoratore contenuta nel codice civile è indubbiamente rappresentata dalla prestazione di lavoro. Tradizionalmente per l'identificazione puntale della prestazione si ricorre all'utilizzo dei cd. nomina, che alludono a tre differenti inquadramenti: la categoria, la qualifica e la mansione. È possibile immaginare queste aree come tre cerchi concentrici, in cui la mansione permette di identificare i compiti espletati dal lavoratore e corrisponde alla prestazione oggetto del contratto. La mansione si colloca all'interno di un sotto-insieme rappresentato dalla qualifica la quale, in sintesi terminologica, racchiude un complesso di mansioni. Il tutto definisce la categoria, distinta nelle quattro categorie legali (operai, impiegati, quadri e dirigenti). Dall'appartenenza ad una determinata qualifica discende il diritto alla retribuzione proporzionata di cui all'art. 36 Cost. In concreto, poi, è demandato alla contrattazione collettiva l'individuazione dei specifici ruoli ove meglio descrivere le attività del lavoratore. Le due norme di riferimento: art. 2103 c.c. e art. 52 D.Lgs. 165/2001
L'impostazione del legislatore in materia di mansioni è rappresentata dall'attuale disposizione di cui all'art. 2103 cod. civ. e, per quanto specificamente concerne il pubblico impiego, dall'art. 52 del D.Lgs. 165/2001. Dall'analisi di queste norme si evince, con plateale chiarezza, che il legislatore ritiene naturale l'adibizione alle mansioni per le quali il lavoratore sia stato assunto, ma ancora più evidente, ritiene che il lavoratore durante la propria “carriera” possa acquisire un inquadramento superiore. Alla base della tematica vi è ovviamente l'interesse del datore di lavoro di poter adibire il lavoratore a tutte le esigenze e sempre mutevoli dell'impresa e dall'altro, quello del lavoratore, di svolgere solo le mansioni che siano compatibili con la categoria e qualifica di appartenenza per le quali è stato appunto assunto. Questa contrapposizione di interessi non è solo relativa alla naturale contrapposizione sinallagmatica del contratto nella quale si contrappongono la prestazione con la retribuzione, ma è diretta più in generale a tutelare l'integrità e la dignità della persona e della professionalità del lavoratore. È utile rammentare che, nell'evoluzione della disciplina, il potere direttivo, cd. jus variandi, ha incontrato molteplici limiti, diretti a salvaguardare proprio la dignità del lavoratore stesso. Limiti maggiormente specificati con la modifica avvenuta in forza dell'art. 13 della L. n. 300/70 (Statuto dei lavoratori) che, innovando l'art. 2103 cod. civ., ha sancito l'inderogabilità delle mansioni. Unica previsione restava quella della possibile adibizione a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte senza diminuzione della retribuzione. Il concetto di equivalenza, sempre complesso da applicare nel caso concreto, ha visto negli anni il susseguirsi di diverse tesi dottrinarie e giurisprudenziali. Inizialmente si riteneva che la ratio della norma fosse la specifica tutela della dignità del lavoratore, pertanto la modifica della mansione ad altre equivalenti era consentita purché rispettasse il bagaglio di perizia ed esperienza del lavoratore. Questa visione ritenuta “statica” nell'applicazione del concetto di equivalenza, porta con sè una rigidità dell'amministrazione del rapporto di lavoro. In una lettura evolutiva del concetto l'attenzione si è spostata sulla potenziale capacità professionale, consentendo così uno spostamento orizzontale del lavoratore. Conforme a questa interpretazione appare recentissima giurisprudenza che sostiene: “Nell'indagine circa l'esistenza o meno di un'equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non basta il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze. “ (cfr. Cass. Lav. Sent. n. 1262 del 23 gennaio 2015). L'art. 2103 cod. civ., nella sua attuale veste, vieta qualsiasi patto che demansioni il lavoratore. Pertanto tale disposizione rende indisponibile il diritto alle mansioni. Dall'applicazione della norma discende che un'eventuale demansionamento, quand'anche fosse concordato, configura un inadempimento contrattuale. Questa formulazione che esplicitamente dispone che “ogni patto contrario è nullo” ha subito nel tempo alcune evoluzioni interpretative. Si è sostenuto, ad esempio, che essere adibiti, per un lungo periodo, a mansioni inferiori comporta una novazione del rapporto lavorativo. Giova sottolineare che comunque, sia in giurisprudenza che con specifici interventi normativi, si era già da tempo superato il rigido principio del divieto di demansionamento. Infatti si è ritenuto che la ratio dell'art. 2103 vada ricercata nella tutela del lavoratore, il quale non può subire un peggioramento delle mansioni, salvo che l'applicazione rigorosa del principio incida sul mantenimento dello stesso posto di lavoro. Con tale precisazione quindi se c'è in gioco il licenziamento, reso necessario da una crisi aziendale, allora il patto di demansionamento diventa legittimo (in tal senso Cass. Sez. Lav. nn. 2375/2005 e 4790/2004). Certamente in tal modo l'attenzione in materia di prova processuale, ossia è stato ritenuto legittimo il patto ogni qual volta si è riusciti a dimostrare che l'unica alternativa al licenziamento sia proprio quella del demansionamento. Con l'accordo del lavoratore, tale patto è stato ritenuto legittimo anche al solo fine di evitare un trasferimento, reso necessario dalla soppressione dell'ufficio. Anche il legislatore, con espliciti interventi normativi settoriali, ha ritenuto legittima l'adibizione a mansioni inferiori con conservazione della retribuzione, ad esempio al fine di tutelare la salute dei lavoratori, ossia della lavoratrice in stato di gravidanza (cfr. art. 3 L. n. 1204/71), così come espressamente previsto nei confronti del lavoratore che svolge una attività soggetta ad esposizione a agenti chimici, fisici e biologici (cfr. art. 8, comma 2, D. Lgs. 277/91) ed infine in materia di tutela del lavoratore inabile (art. 4 L. 68/99). Inoltre in questa sede giova rammentare anche la L. 223/91 che, in tema di licenziamenti collettivi, già legittimava le parti collettive ad addivenire ad accordi diretti alla tutela dell'occupazione, anche mediante, se del caso, l'assegnazione appunto a mansioni inferiori. Nel quadro normativo così sinteticamente descritto si inserisce ora l'art. 1, comma 7, lettera “e” della Legge 183/2014 (cd. Jobs Act), che espressamente prevede una delega del seguente tenore: “revisione della disciplina delle mansioni in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale; tale misura va individuata sulla base di parametri oggettivi, che devono contemperare l'interesse dell'impresa all'utile impiego del personale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, determinando i limiti di modifica dell'inquadramento anche mediante la contrattazione collettiva, anche aziendale e di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria, finalizzata a individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte per via legislativa”. La legge delega, letta unitamente alle risultanze del CDM del 20.02.2015, ridisegna la disciplina delle mansioni, destinato inevitabilmente a modificare l'art. 2103 del codice civile, regolamentando due categorie di ipotesi. La prima è la previsione della revisione della mansioni in tutti i casi in cui l'impresa sia coinvolta in processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. In questi casi il legislatore ammette che, al fine di tutelare il posto di lavoro, la professionalità e le condizioni di vita ed economiche, il lavoratore possa essere adibito a mansioni inferiori. Il Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015 ha opportunamente precisato, sul punto, che in tali ipotesi ovvero in ulteriori situazioni previste dai contratti collettivi, l'impresa potrà modificare le mansioni del lavoratore, ma limitatamente ad un solo livello rispetto al precedente, mantenendo invariato il trattamento economico, salvo gli accessori legati alle specificità delle mansioni precedentemente esercitate. La legge delega, nella seconda categoria di ipotesi, demanda poi alla contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, di individuare ulteriori situazioni in cui si possa legittimamente attuare il demansionamento. Anche sul punto il CDM ha chiarito che si possa volontariamente addivenire tra datore e lavoratore ad una nuova qualificazione professionale, precisando che tali “volontarie” adesioni a ipotesi di demansionamento sono valide solo che stipulate in “sede protetta”. Lo schema di decreto presentato ritiene quali idonei luoghi protetti le sedi di cui all'art. 2113 cod. civ. (rinunzie e transazioni) ovvero le commissioni di certificazione di cui all'art. 76 D. Lgs. 276/2003. In questa fase, il legislatore, non include allo stato altre sedi e neppure include l'ipotesi della “negoziazione assistita” tra legali. È interessante sottolineare che per questa categoria di patti il legislatore annuncia una ampia flessibilità che investe non solo le mansioni ma anche e conseguentemente l'inquadramento, la retribuzione e la diversa professionalità. Quindi, in linea teorica, anche se sul punto saranno determinanti gli accordi stipulati in sede di contrattazione, le mansioni del lavoratore potrebbero, con il suo consenso protetto, essere rivisitate completamente e senza alcun limite né di livello né reddituale. Del resto poi è evidente che il presente è solo l'ultimo dei gradini percorso negli ultimi anni laddove si è passati, a livello contrattuale, da un rigido sistema mansionistico ad un inquadramento sempre più livellato, tramite il raggruppamento di molteplici figure professionali. Dall'analisi di queste ultime ipotesi, prende anche significato l'espresso riferimento contenuto proprio nel titolo della legge denominata Jobs Act, vale a dire l'espressione del miglioramento delle condizioni di vita che, ovviamente, deve essere inteso come quella scelta del lavoratore di potersi dedicare con maggiore intensità ad interessi diversi da quelli lavorativi. Un sacrificio della dignità e professionalità in ambito lavorativo per un beneficio per se stessi ovvero per la tutela dell'occupazione o, ancora, per l'acquisizione di diversa professionalità. Il Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015 ha approvato lo schema del decreto legislativo di attuazione della legge delega. Per l'argomento trattato in questa sede assume rilievo l'art. 55 che si riporta integralmente: “ (Mutamenti delle mansioni) 1. L'art. 2103 del codice civile è sostituito dal seguente: In conclusione
Il legislatore compie una scelta, del resto proclamata, di contemperamento tra molteplici interessi in gioco. Nelle diverse ipotesi di revisione delle mansioni analizzate, infatti, sono previsti momenti tra loro divergenti, ma tutti diretti al contemperamento di interessi per la tutela del posto di lavoro. È così infatti che il legislatore prende in considerazione l'interesse dell'impresa a continuare ad avvalersi dei medesimi lavoratori in tutti i casi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, rivedendone le loro mansioni. Giova ricordare che in siffatte ipotesi già con le precedenti normative (e a maggior ragione oggi) verrebbe comunque legittimata la risoluzione datoriale del rapporto. Il lavoratore, quindi, può fare affidamento ora su una disciplina maggiormente flessibile che, sebbene a mansioni inferiori, permetta per legge di mantenere in vita il rapporto di lavoro. |