Lavoro a termine e clausola di contingentamento: riproponibilità nel giudizio di rinvio della questione non esaminata in appello

Paolo Spaziani
25 Marzo 2015

In materia di contratti di lavoro a termine, la questione della violazione della clausola di contingentamento può essere riproposta davanti al giudice del rinvio anche qualora la sua deduzione in primo grado, ed il relativo omesso esame in appello per ritenuto assorbimento, siano prospettati in cassazione con controricorso contenente una carente descrizione della vicenda processuale, trattandosi di atto, con funzione meramente difensiva, che non necessita dell'esposizione sommaria dei fatti di causa.
Massima

In materia di contratti di lavoro a termine, la questione della violazione della clausola di contingentamento può essere riproposta davanti al giudice del rinvio anche qualora la sua deduzione in primo grado, ed il relativo omesso esame in appello per ritenuto assorbimento, siano prospettati in cassazione con controricorso contenente una carente descrizione della vicenda processuale, trattandosi di atto, con funzione meramente difensiva, che non necessita dell'esposizione sommaria dei fatti di causa.

Il caso

Un lavoratore aveva agito in giudizio per ottenere la declaratoria della nullità del termine apposto al contratto di lavoro. Nella resistenza della società datrice di lavoro, la domanda era stata accolta dal tribunale e confermata dalla Corte di appello, sul rilievo che, sebbene il contratto a tempo determinato fosse stato stipulato ai sensi dell'art.23 l. n.56 del 1987 e del contratto collettivo con cui era stato esercitato il potere – assegnato da detta norma alle parti sociali – di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine finale al contratto di lavoro, tuttavia la società aveva dato una giustificazione generica sull'applicazione delle causali indicate dalla contrattazione collettiva e non aveva dimostrato l'esistenza del nesso tra tali causali e l'assunzione a tempo determinato del lavoratore. In seguito al ricorso proposto dalla datrice di lavoro, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello, rilevando che, nell'esercizio della delega loro assegnata dall'art.23 l. n.56/1987, i soggetti collettivi hanno il potere di procedere direttamente alla valutazione di determinate situazioni di fatto come idonea causale del contratto a termine, senza necessità di un accertamento a posteriori in ordine all'effettività delle stesse, con la conseguenza che non è richiesta la prova che le singole assunzioni siano state adottate in concreto per far fronte alle esigenze descritte nella fattispecie astratta, ma soltanto il riscontro che esse siano comunque ricollegabili alle esigenze aziendali considerate nella norma collettiva.

La questione

L'accoglimento del ricorso per cassazione proposto dalla società datrice di lavoro (postulando il giudizio di infondatezza delle censure – dedotte dal lavoratore – esaminate e accolte dal giudice di merito) ha fatto sorgere la questione dei limiti della riproponibilità, in sede di rinvio, delle censure non esaminate in appello per ritenuto assorbimento e, in particolare, della censura relativa all'asserita violazione della clausola di contingentamento fissata dal contratto collettivo in attuazione dell'art.23, comma 1, ultimo periodo, della legge n.56 del 1987. Al riguardo si è posto, in particolare, il problema se alla riproponibilità della questione ostasse il difetto di autosufficienza del controricorso, il quale, nel caso di specie, conteneva una carente descrizione della vicenda processuale.

Le soluzioni giuridiche

La Sezione lavoro della Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha risolto negativamente questo problema, osservando principalmente come, sulla base della prevalente giurisprudenza di legittimità, al controricorso debba riconoscersi la funzione di atto puramente difensivo, volto esclusivamente a contrastare l'impugnazione altrui e a domandare il rigetto del ricorso, attraverso la deduzione delle ragioni che ne impediscono l'accoglimento. In ragione di tale funzione, non sarebbe quindi necessario che il controricorso contenga l'esposizione sommaria dei fatti di causa, richiesta per il ricorso dall'art.366, primo comma, n.3, c.p.c., essendo sufficiente il richiamo a quanto già esposto nel ricorso medesimo (Cass. civ., Sez. III, 8 gennaio 2010, n.76) oppure il riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata (in tal senso, Cass. civ., Sez. V, 28 maggio 2010, n.13140).

Va tuttavia rilevato che, nell'aderire all'orientamento prevalente presso le altre sezioni civili, la Sezione lavoro, con la sentenza in commento, si è posta in consapevole contrasto con un suo precedente specifico, nel quale, proprio con riguardo alla questione concernente l'asserita inosservanza della clausola di contingentamento nell'ambito del giudizio di impugnativa del contratto di lavoro a tempo indeterminato, aveva affermato che «la parte vittoriosa in appello, che manifesti alla Cassazione la volontà di conseguire una decisione anche su una questione già ritenuta assorbita, ha l'onere non di proporre ricorso incidentale ma - per il principio di autosufficienza, operante anche nel controricorso ai sensi degli artt.366, primo comma, nn. 3 e 4, e 370, secondo comma, cod. proc. civ. - di indicare i termini esatti in cui la questione era stata sottoposta al giudice di appello, in modo tale da permettere alla Corte di Cassazione di verificare se essa possa ancora ritenersi sub iudice». (Cass. civ., sez. lav., 14 marzo 2011, n.5970).

Osservazioni

La questione affrontata dalla Sezione lavoro merita di essere approfondita, avuto riguardo, da un lato, al segnalato contrasto esistente presso la stessa sezione e, dall'altro lato, alla rilevanza sistematica della questione medesima, la quale, sebbene si sia posta con specifico riferimento alla censura afferente la violazione della clausola di contingentamento nell'ambito dell'impugnativa del contratto di lavoro a termine, coinvolge la tematica più generale dei presupposti e dei limiti della proponibilità, in sede di rinvio, delle questioni che, pur debitamente dedotte nei gradi di merito, non siano state in questi esaminate per ritenuto assorbimento nella decisione che ha formato oggetto di successiva cassazione.

La soluzione della questione presuppone l'esame di tre diverse tematiche di diritto processuale, concernenti: A) la disciplina generale della decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte nei successivi gradi di giudizio; B) la disciplina della forma del ricorso per cassazione, del controricorso e del ricorso incidentale; C) la disciplina del contenuto del giudizio di rinvio.

A) Con riguardo alla decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte nei successivi gradi di giudizio, è dettata una specifica regola esclusivamente per il giudizio di appello. In base a questa regola le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate (art.346 c.p.c.). Analoga regola non è invece dettata con riguardo al giudizio di legittimità. Ne deriva che, nell'ipotesi in cui una delle questioni prospettate dinanzi al giudice di primo grado sia stata ritenuta assorbita nella pronuncia che ha accolto la domanda o l'eccezione della parte deducente, l'onere per quest'ultima di riproporre la medesima questione sussiste unicamente con riguardo al grado di appello, non anche con riguardo al grado di legittimità. Pertanto, mentre la mancata riproposizione della questione nell'atto di costituzione in appello determina la decadenza della parte dalla possibilità di ottenere una statuizione su di essa, la mancata riproposizione della questione nel controricorso per cassazione, ove debitamente riproposta in appello, non determina alcuna decadenza, dovendo invece riconoscersi il perdurante interesse della parte deducente ad ottenere una statuizione sulla questione medesima, per l'ipotesi in cui venga cassata la pronuncia di merito in cui essa era stata ritenuta assorbita. Tale statuizione, ovviamente, non potrà che avvenire ad opera del giudice di rinvio, dinanzi al quale l'interesse della parte deducente perde la connotazione di quiescenza che aveva mantenuto sino alla pronuncia di cassazione, per rivestire i caratteri della concretezza e dell'attualità.

B) Tale ricostruzione è confermata dall'esame della disciplina della forma degli atti processuali di parte che connotano il giudizio di cassazione, vale a dire il ricorso principale, il controricorso e il ricorso incidentale. Al riguardo va ricordato che la disciplina della forma degli atti processuali (intesa nel senso di forma-contenuto, dovendo in questi termini essere assunta la nozione di forma ai fini processuali: cfr., ad es., l'art.132 c.p.c. sul “contenuto” della sentenza o l'art.163 c.p.c., sul “contenuto” della citazione), trova fondamento nell'esigenza di consentire all'atto di raggiungere lo scopo obiettivo ad esso assegnato nella dinamica del processo.
In altre parole, il principio ispiratore della disciplina della forma-contenuto di tutti gli atti processuali è il principio della strumentalità delle forme (o della congruità della forma allo scopo) che viene enunciato, sia pure in modo indiretto, dall'art.121 c.p.c., e che impone di attribuire all'atto il contenuto più idoneo al raggiungimento dello scopo.
Si comprende, pertanto, la diversità della disciplina dettata con riguardo al contenuto del controricorso rispetto al ricorso, sia esso principale che incidentale. Invero, mentre il ricorso principale e quello incidentale – concretando atti processuali reciprocamente autonomi con cui vengono formulate specifiche censure alla decisione impugnata con l'indicazione dei motivi per i quali se ne chiede la cassazione, nonché delle norme di diritto sui quali essi si fondano – devono necessariamente contenere l'esposizione sommaria dei fatti della causa (artt. 366, primo comma, n.3 e 371, terzo comma, c.p.c.), la quale può ritenersi sussistente solo quando dal contesto dell'atto di impugnazione si rinvengono gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell'origine e dell'oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. civ., sez. un., 13 febbraio 1998, n.1513; Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2010, n.76, cit.), il controricorso – concretando un atto meramente difensivo, privo di autonomia ed avente la sola funzione di resistere all'impugnazione altrui – non deve necessariamente contenere l'autonoma esposizione dei fatti di causa a pena di inammissibilità (arg. ex art. 370, secondo comma, c.p.c., che estende al controricorso l'applicazione del precedente art.366 solo «in quanto possibile»), ben potendo limitarsi a richiamare i fatti esposti nella sentenza impugnata o nel ricordo principale (Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2010, n.76 e Cass. civ., sez. V, 28 maggio 2010, n.13140, citt.). La carente descrizione della vicenda processuale non determina, pertanto, l'inammissibilità dell'atto per difetto di autosufficienza né può, dunque, impedire la proponibilità, al giudice del rinvio, delle questioni ancora aperte e non implicitamente rinunciate al cui esame il controricorrente abbia ancora interesse.

C) A questa conclusione induce, infine, anche l'esame della disciplina del contenuto del giudizio di rinvio. Secondo il tradizionale insegnamento della Corte di Cassazione, alla stregua delle disposizioni contenute nell'art. 394, ult. comma, e 389 c.p.c., il giudizio di rinvio si qualifica come giudizio “chiuso”, nel quale è inibito alle parti prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio di merito o che non siano conseguenti alla cassazione. Il giudizio di rinvio, precisamente, deve svolgersi entro i limiti segnati dalla sentenza di annullamento e non si può estendere a questioni che, pur non esaminate specificamente, costituiscono tuttavia il presupposto logico-giuridico della sentenza stessa, formando oggetto di giudicato implicito ed interno, poiché il loro riesame verrebbe a vanificare gli effetti della sentenza di cassazione (Cass. civ., sez. V, sent. 12 dicembre 2014, n.26200; Cass. civ., sez. V, sent. 4 aprile 2011, n. 7656; Cass. civ., sez. II, sent. 12 gennaio 2010, n.327). Questa preclusione, se investe tutte le questioni (dedotte, deducibili o rilevabili d'ufficio) che possono incidere sugli effetti intangibili della sentenza di cassazione e sull'operatività del principio di diritto in essa affermato, non investe, invece, le questioni non esaminate in ragione del ritenuto assorbimento nella decisione di merito impugnata, il cui esame in sede di rinvio si giustifica proprio in ragione della cassazione di quest'ultima, la quale determina la reviviscenza dell'interesse della parte deducente, già vittoriosa nel giudizio di merito, alla concreta statuizione su di esse, e senza che tale interesse possa ritenersi compromesso dalla carente descrizione della vicenda processuale nell'ambito del controricorso.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.