Indebito previdenziale, liquidazione provvisoria e affidamento del pensionato

Giovanni Guarini
24 Marzo 2017

L'erogazione espressamente definita e comunicata a titolo provvisorio dovrebbe essere sufficiente per non ingenerare l'affidamento del pensionato. Tuttavia, la mancata previsione di un termine entro il quale il provvedimento definitivo deve intervenire, può vanificare gli scopi perseguiti con l'art. 52, L. 9 marzo 1989, n. 88. Di talché, in ragione dei principi affermati dalla Corte Costituzionale e per rispetto alla ratio dell'art. 52 cit., appare chiaro che all'errore debba essere equiparato il ritardo patologico nella riliquidazione e rettifica di un provvedimento originariamente definito come provvisorio, quando l'istituto medesimo sia in possesso di tutti i dati necessari e rilevanti, atteso che il ritardo “patologico” lede l'affidamento del pensionato che è oggetto della tutela della disciplina in esame.
Massima

L'erogazione espressamente definita e comunicata a titolo provvisorio dovrebbe essere sufficiente per non ingenerare l'affidamento del pensionato. Tuttavia, la mancata previsione di un termine entro il quale il provvedimento definitivo deve intervenire, può vanificare gli scopi perseguiti con l'art. 52, L. 9 marzo 1989, n. 88. Di talché, in ragione dei principi affermati dalla Corte Costituzionale e per rispetto alla ratio dell'art. 52 cit., appare chiaro che all'errore debba essere equiparato il ritardo patologico nella riliquidazione e rettifica di un provvedimento originariamente definito come provvisorio, quando l'istituto medesimo sia in possesso di tutti i dati necessari e rilevanti, atteso che il ritardo “patologico” lede l'affidamento del pensionato che è oggetto della tutela della disciplina in esame.

È irrilevante lo stato di cd. “malafede” del percipiente, ossia la conoscenza da parte sua dell'errore”. Ciò alla luce della statuizione di Corte Costituzionale 24 maggio 1996, n. 166, secondo cui l'irrilevanza dello stato di buona o mala fede si argomenta indirettamente dal principio - ora esplicitato dall'art. 13, co. 1, L. 30 dicembre 1991, n. 412 - secondo cui, nel caso di omessa o incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente, le somme indebitamente percepite sono ripetibili per questo solo fatto, indipendentemente dalla prova della mala fede dell'interessato (che sarà rilevante, ai sensi dell'art. 2033 c.c., solo ai fini del diritto agli interessi dal giorno del pagamento). Simmetricamente, la medesima regola di irrilevanza dell'elemento soggettivo deve valere nell'ipotesi inversa all'effetto della non ripetibilità.

Il caso

La sentenza in commento riguarda la questione della ripetibilità o meno delle somme erogate indebitamente per un errato calcolo del trattamento pensionistico.

L'indebito nasceva da un'errata liquidazione provvisoria della pensione; infatti, nonostante fosse in possesso di tutti i dati necessari alla liquidazione definitiva, l'Istituto calcolava erroneamente il rateo di pensione.

Dopo quattro anni e otto mesi l'Istituto emendava il proprio errore, determinando il corretto importo del trattamento di quiescenza e di conseguenza chiedeva la restituzione del sovrappiù indebitamente erogato all'assicurato in tale periodo di tempo.

La questione

Nell'indebito previdenziale, diversamente dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito (art. 2033 c.c.), trovano applicazione diversi principi di settore, propri di tale sottosistema, (la cui ratio è giustificata dalla copertura costituzionale di cui all'art. 38 Cost., che prevede la finalità di tutela della parte debole il pensionato e sottende il principio di solidarietà).

Si vedano, in particolare, l'art. 52, L. 9 marzo 1989, n. 88 e l'art. 13, co. 1, L. 30 dicembre 1991, n. 412.

Le principali questioni interpretative poste dalle disposizioni menzionate sono le seguenti:

  1. se il principio di irripetibilità dell'indebito previdenziale opera anche se le somme sono attribuite in base a un provvedimento di liquidazione “provvisorio”;
  2. se vi è un termine entro il quale l'Istituto può provvedere al recupero di quanto pagato in eccedenza;
  3. se sia rilevante o meno lo stato di buona o mala fede del percipiente.
Le soluzioni giuridiche

Le soluzioni giuridiche emerse per risolvere ognuna delle tre problematiche menzionate sono contrapposte.

Quanto alla prima questione, la normativa sopravvenuta nel 1991 ha previsto quale limite al principio della generale irripetibilità dell'indebito pensionistico la circostanza che tali somme siano erogate in base ad un formale e definitivo provvedimento di liquidazione, che sia comunicato al pensionato (nello stesso senso Pret. Milano, 05 maggio 1992; Pret. Trento, 27 febbraio 1992 ).

Senonché è evidente che il tenore letterale della disciplina sopravvenuta nel 1991 di fatto equivale all'abolizione del principio della generale irripetibilità dell'indebito pensionistico.

Infatti, la casistica evidenzia che, nella quasi totalità delle ipotesi nella quali avviene una indebita erogazione di ratei pensionistici, l'INPS provvede inizialmente con liquidazione espressamente qualificata “provvisoria”, per poi emendare i propri errori a distanza di svariati anni con il provvedimento finale di liquidazione “definitiva”.

Allora, nel progresso del tempo, è emerso un orientamento teso a mettere in discussione l'interpretazione letterale dell'art. 13, co. 1, L. 30 dicembre 1991, n. 412, considerando che per provvedimento formale debba intendersi qualsiasi comunicazione cartacea compresi, ad esempio, i prospetti INPS di liquidazione annuali o infrannuali per sopravvenuta modifiche, diversamente l'ambito di irripetibilità verrebbe sensibilmente ristretto.

Così, si è affermato che la natura definitiva del provvedimento va valutata con riguardo all'an della corresponsione della pensione, non invece con riferimento al quantum ossia l'ammontare dei ratei da corrispondere (Corte d'Appello di Brescia 20 maggio 2010, n. 291, inedita); con la conseguenza che sarebbe da considerarsi definitivo anche il primo provvedimento di liquidazione della pensione, ove non vi sia dubbio quanto alla spettanza del diritto.

Alle medesime conclusioni, seppur per il tramite di un differente apparato motivazione, perviene Trib. Reggio Emilia, sez. lav., 10 dicembre 2014, laddove si è asserito che: «non parrebbe consentito all'INPS, semplicemente apponendo una generale formula di stile quale 'liquidazione provvisoria' dilatare ad libitum la possibilità di ricalcolare la pensione rendendola definitiva, qualora per la liquidazione sia in possesso già da subito di tutti gli elementi utili per provvedere al calcolo, e dunque non vi sia ragione -se non una inefficienza dell'ufficio- per procedere a distanza ad un ricalcolo».

Nel medesimo filone si colloca la sentenza della Corte di Appello di Trento in commento, secondo la quale: «la mancata previsione di un termine entro il quale il provvedimento definitivo deve intervenire può vanificare gli scopi perseguiti con l'art. 52; di talché, in ragione dei principi affermati dalla Corte Costituzionale e per rispetto alla ratio dell'art. 52 cit., appare chiaro che all'errore debba essere equiparato il ritardo patologico nella riliquidazione e rettifica di un provvedimento originariamente definito come provvisorio, quando l'Istituto medesimo sia in possesso di tutti i dati necessari e rilevanti, atteso che il ritardo “patologico” lede l'affidamento del pensionato che è oggetto della tutela della disciplina in esame».

In altri termini, e così emerge anche il secondo profilo di discussione, non vale a rendere ripetibile l'indebito previdenziale l'utilizzo della formula di stile quale “liquidazione provvisoria”, ma occorre altresì che l'emissione del provvedimento definitivo sia contenuto entro un ritardo “fisiologicoe “non patologico”.

Per la Corte di Trento il ritardo è patologico quando è protratto successivamente alla conoscenza, da parte dell'Istituto, della situazione reddituale (cfr. Cass. sez. lav., 6 ottobre 1993, n. 9916. La sentenza in commento non afferma quale è il limite di tempo entro il quale, in caso di mancata emissione del provvedimento definitivo il ritardo dell'amministrazione, diviene “patologico”, pur ritenendo, nel caso sottoposto alla propria attenzione, irripetibile una erogazione indebita con provvedimento definitivo emesso a distanza di quattro anni e otto mesi.

In realtà, la nota sentenza della Corte Costituzionale 24 maggio 1996, n. 166, ha stabilito che il tempo tecnico, che il giudice deve considerare ai fini della valutazione circa l'irripetibilità dell'indebito, è quello di un anno, previsto dall'art. 13, L. 30 dicembre 1991, n. 412; quindi, laddove il provvedimento “definitivo” intervenisse oltre un anno dalla certa conoscenza da parte dell'INPS dei coretti dati reddituali, allora tale ritardo sarebbe da considerarsi ingiustificabile e giustificherebbe l'affidamento del privato.

Si tratta di impostazione seguita anche dalla giurisprudenza di merito, Trib. Milano, sez. lav., 16 maggio 2016 (Giudice dott.ssa Di Lorenzo), ove si è affermato che: «in materia di previdenza, l'INPS verifica ogni anno le situazioni reddituali dei pensionati che possano incidere sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche, provvedendo, entro un anno dal momento in cui l'Istituto è venuto in possesso dei dati necessari per l'accertamento del diritto del soggetto a percepire le prestazioni, al recupero delle somme eventualmente pagate in eccedenza e, se detto termine non viene rispettato, le somme medesime diventano irripetibili».

Si aggiunga che, specularmente, nell'ordinamento dei dipendenti pubblici, l'art. 162, DPR 29 dicembre 1973 n. 1092, contempla il principio della generale ripetibilità dell'indebito ove derivante da liquidazione provvisoria.

Tuttavia, tale regola è stata mitigata, infine, dalla sentenza n. 2/2012 della Corte dei Conti a Sezioni Riunite, che ha sancito che: «Lo spirare di termini regolamentari di settore per l'adozione del provvedimento pensionistico definitivo non priva, ex se, l'amministrazione del diritto - dovere di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio; sussiste, peraltro, un principio di affidamento del percettore in buona fede dell'indebito che matura e si consolida nel tempo, opponibile dall'interessato in sede amministrativa e giudiziaria. Tale principio va individuato attraverso una serie di elementi quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l'ordinaria diligenza, dell'errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell'amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo».

In altri termini, se nell'ordinamento dei dipendenti privati l'art. 13, comma 2, Legge n. 412/1991, come interpretato da Corte Costituzionale 24 maggio 1996, n. 166, ancora al termine di un anno dalla prima liquidazione (in presenza di tutte le informazioni adeguate da parte dell'Istituto) lo spartiacque fra ritardo “fisiologico” e “patologico”, nel pubblico impiego tale limite si estende a tre anni.

Infine, in tale arresto la Corte di Appello di Trento fornisce chiarezza anche in merito al terzo aspetto meritevole di attenzione, ossia la rilevanza o meno dello stato di buona o mala fede del percipiente.

Testualmente la Corte Trentina ritiene l'irrilevanza dell'elemento soggettivo del percipiente e richiama quanto affermato dal Giudice delle Leggi nella sentenza 24 maggio 1996, n. 166: «non varrebbe obiettare che in questi casi il percipiente potrebbe tuttavia versare in mala fede. L'irrilevanza dello stato di buona o mala fede si argomenta indirettamente dal principio - ora esplicitato dall'art. 13, comma 1, Legge n. 412/1991 - secondo cui nel caso di omessa o incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente, le somme indebitamente percepite sono ripetibili per questo solo fatto, indipendentemente dalla prova della mala fede dell'interessato (che sarà rilevante, ai sensi dell'art. 2033 c.c., solo ai fini del diritto agli interessi dal giorno del pagamento). Simmetricamente, la medesima regola di irrilevanza dell'elemento soggettivo deve valere nell'ipotesi inversa all'effetto della non ripetibilità».

Senonchè, rispetto a tale evoluzione giurisprudenziale, una sentenza della Cassazione del 29 aprile 2016, n. 8564 pare andare in direzione opposta.

Tale sentenza pare individuare un doppio regime nella disciplina dell'indebito previdenziale, a seconda che l'indebito scaturisca da provvedimento di liquidazione della pensione provvisorio o definitivo.

Nel primo caso parrebbe non applicarsi lo statuto dagli artt. 52, L. 9 marzo 1989, n. 88 e 13, L. 30 dicembre 1991, n. 412, e quindi anche l'irripetibilità dell'indebito a prescindere dall'elemento soggettivo del percipiente, che presuppongono la sussistenza di un provvedimento di liquidazione “definitivo”.

Invece, sarebbe tutelabile solo l'affidamento radicato nella buona fede in senso soggettivo dell'accipiens; ciò si argomenta in base al principio dell'affidamento incolpevole, come individuato dalla giurisprudenza contabile, «espressione dei principi più generali di correttezza e buona fede che presidiano i rapporti tra privati (v. Cass. sez. lav., n. 9924/2009), immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico quale limite all'attività legislativa ed amministrativa dello Stato (Cass. sez. trib., 17 aprile 2013, n. 9308), e, infine, principio cardine del diritto comunitario (sentenza Topfer del 3 Maggio 1978 causa C-12/77). La riconoscibilità dell'errore e, quindi, l'assenza di buona fede, impedisce di ravvisare uno degli elementi costitutivi del principio di affidamento».

Osservazioni

Orbene, la sentenza in commento appare essere conforme al noto arresto della Corte Costituzionale 24 maggio 1996, n. 166, che ha fornito un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 13, co. 2, L. 30 dicembre 1991, n. 412. Diversamente, l'opposto orientamento sposato da Cass. sez. lav., 29 aprile 2016, n. 8564 presenta, a parere di chi scrive, alcuni limiti.

In primo luogo, ove introduce un doppio regime a seconda che il provvedimento di liquidazione sia provvisorio (in tal caso è irripetibile l'indebito ove l'errore sia riconoscibile dal pensionato) o definitivo (è sufficiente che non vi sia dolo), la Suprema Corte sembra porsi in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale 24 maggio 1996, n. 166, che non differenziando tra provvedimento provvisorio e definitivo ha ritenuto che laddove il provvedimento “definitivo” intervenisse oltre un anno dalla certa conoscenza da parte dell'INPS dei coretti dati reddituali, allora tale ritardo sarebbe da considerarsi ingiustificabile e giustificherebbe l'affidamento del privato.

Ancora, la decisione della Suprema Corte troverebbe limite anche nel tenore letterale del secondo comma dell'art. 52, L. 9 marzo 1989, n. 88, ove prevede che: «nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita percezione sia dovuta a dolo dell'interessato». Cosicché l'unico limite alla irripetibilità dell'indebito previdenziale risiederebbe nell'aver il percipiente indotto in errore l'Istituto, fornendo ed approfittando di dati di calcolo inesatti, non invece l'assenza di mala fede desumibile dalla riconoscibilità dell'errore nella liquidazione.

Inoltre, in tal modo vi sarebbe una interpretazione abrogatrice ed irragionevole anche dell'ultima parte dell'art. 52 cit., ove si stabilisce che «il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave». Infatti, accogliendo la tesi della Cassazione, tale norma rimarrebbe del tutto inoperante, posto che si giungerebbe al paradosso che, dinanzi ad un errore di calcolo della liquidazione della pensione macroscopico e riconoscibile, sarebbe sempre esclusa la irripetibilità e quindi l'addebito a carico del funzionario responsabile, mentre, ove tale errore non fosse riconoscibile e, quindi, meno grave, l'indebito sarebbe irripetibile con conseguente possibilità di addebito al funzionario responsabile in dolo o colpa grave.

Si introduce di fatto e per via giurisprudenziale una sorta di esonero da responsabilità del pubblico funzionario per i casi di errore macroscopico, in controtendenza rispetto all'evoluzione legislativa degli ultimi anni (cfr. art. 2, co. 9, L. n. 241/1990, post D.L. 9 febbraio 2012, n. 5), permanendo paradossalmente ed irragionevolmente tale responsabilità nelle ipotesi di errore non riconoscibile.

Infine, la tesi avanzata in sede di legittimità accoglie un concetto di buona fede estraneo a quello affermato rispetto all'Istituto dell'indebito oggettivo, ove al contrario si è ritenuto che Cass. sez. lav., 25 maggio 2007, n. 12211: «rileva una nozione di buona fede in senso soggettivo, coincidente con l'ignoranza dell'effettiva situazione giuridica in conseguenza di un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non essendo applicabile la disposizione dettata dall'art. 1147, secondo comma, in riferimento alla buona fede nel possesso. Pertanto, anche il dubbio particolarmente qualificato circa l'effettiva fondatezza delle proprie pretese è compatibile con la buona fede ai fini in esame».

Per tali ragioni l'orientamento espresso dalla sentenza della Corte di Appello di Trento in commento appare quello maggiormente rispettoso dell'art. 38 Cost., che tutela il soddisfacimento di essenziali esigenze di vita del pensionato che non possono essere contraddette dalla indiscriminata ripetibilità di prestazioni "naturaliter" già consumate in correlazione - e nei limiti - della loro destinazione alimentare.