Tutele bidirezionali nel trasferimento di ramo d'azienda

Stefano Costantini
26 Maggio 2017

Elemento costitutivo della cessione di ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., è l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi e così di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.
Massime

Elemento costitutivo della cessione di ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., è l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi e così di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.

Il trasferimento d'azienda o di un ramo d'azienda è configurabile anche in ipotesi di successione nell'appalto di un servizio, sempre che si abbia un passaggio di beni di non trascurabile entità, tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

I casi

Primo caso

A seguito della cessione del ramo aziendale cui erano addetti (un call center per l'assistenza clienti di un operatore telefonico) alcuni lavoratori impugnavano il passaggio al nuovo datore di lavoro, sostenendo l'inapplicabilità dell'art. 2112 c.c., per mancanza in capo al compendio oggetto di trasferimento dei requisiti che potessero qualificarlo quale “ramo”, ai sensi della predetta norma.

Nell'operazione, infatti, non erano stati ceduti i sistemi applicativi ed informatici indispensabili per lo svolgimento dell'attività di assistenza clienti, attività che peraltro, quanto alle modalità operative, era in sostanza eterodiretta dall'operatore telefonico, senza alcuna autonomia degli addetti al supposto “ramo” ceduto.

Nei gradi di merito i giudici avevano convalidato l'operazione, respingendo così le istanze dei lavoratori, sul presupposto che l'attività ceduta potesse considerarsi funzionalmente autonoma e debitamente strutturata.

In sede di legittimità i lavoratori sostenevano l'errata interpretazione ed applicazione al caso concreto della disposizione contenuta nell'art. 2112 c.c..

Secondo caso

Una società che gestiva una struttura alberghiera aveva affidato in appalto ad una seconda impresa i servizi operativi per il centro fitness ed il centro benessere interni all'albergo. Cessato l'appalto, i servizi erano stati internalizzati, con passaggio di tutte le strutture e del personale addetto alla gestione diretta della (ex) committente.

Una lavoratrice, licenziata dall'appaltatore, aveva ottenuto giudizialmente la reintegrazione e la condanna del medesimo al pagamento dell'indennità risarcitoria e, probabilmente inadempiente quest'ultimo, agiva esecutivamente nei confronti dell'ex committente, sostenendo l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. per essere intervenuto, con la cessazione dell'appalto un trasferimento di azienda.

I giudici di merito avevano escluso, in entrambi i gradi, che in presenza di una cessazione di appalto di servizi genuino potesse configurarsi una retrocessione di ramo aziendale.

Nel ricorso alla Suprema Corte la lavoratrice sosteneva che non fosse di per sé ostativo all'applicabilità delle garanzie di cui all'art. 2112 c.c. la circostanza che il negozio “traslativo” fosse costituito da un appalto di servizi.

Le questioni

Il tema del trasferimento di azienda e, soprattutto, del cosiddetto “ramo” è da tempo al centro di un copioso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, alimentato non solo dagli – ormai non più recenti – interventi del legislatore nazionale, ma anche dal continuo confronto con la normativa europea (Direttiva n. 2001/23/CE), imposto dalle numerose pronunce cui sono stati chiamati i Giudici di Lussemburgo (tra le altre: CGUE 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori; CGUE 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon; CGUE 12 febbraio 2009, C-466/07, Klaremberg; CGUE 13 settembre 2007, C-458/05, Jouini; CGUE 15 dicembre 2005, C-232-233/04, GouneyGorres e Demir; CGUE 2 dicembre 1999, C-234/98, Allen; CGUE 10 dicembre 1998, C-127/96, HernandezVidal).

Interventi, questi ultimi, di cui la dottrina ha cercato di cogliere quelle sfumature, rispetto ad un impianto interpretativo ormai consolidato, che possano anche consentire di conferire un significato utile al testo dell'art. 2112, quinto comma, c.c. e di rimodellare, in qualche modo, il piuttosto rigido orientamento interpretativo sempre espresso della nostra magistratura di legittimità (Fra le tante: Cass. 6 dicembre 2016, n. 6972; Cass. sez. lav., 9 aprile 2015, n. 7144; Cass. sez. lav., 30 aprile 2014, n. 9461; Cass. sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11575; Cass. sez. lav., 24 ottobre 2014, n. 22688; Cass. sez. lav., 30 luglio 2014, n. 17381; Cass. sez. lav., 26 maggio 2014, n. 11721; Cass. sez. lav., 19 maggio 2014, n. 10926; Cass. sez. lav., 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. sez. lav., 10 ottobre 2014, n. 21503; Cass. sez. lav., 27 maggio 2014, n. 11832).

Le soluzioni giuridiche

Le due pronunce in commento, a fronte del medesimo contesto giuridico di riferimento, registrano due soluzioni o, meglio, due esiti opposti della vicenda giudiziaria: in un caso, infatti, viene riconosciuto il diritto dei lavoratori a non transitare presso il cessionario – azienda senza dubbio economicamente più debole della cedente – con “reintegrazione” presso quest'ultimo.

Nel secondo, viene invece garantita la continuità occupazionale del prestatore presso l'impresa cessionaria, a fronte della cessazione dell'attività appaltata ove il lavoratore era impiegato.

Opposte, nelle due fattispecie, le tesi datoriali: da una parte si sosteneva infatti l'esistenza di un trasferimento di ramo aziendale; dall'altra si sosteneva la sua insussistenza.

Il confronto, pur se certamente riferito a fattispecie del tutto diverse, stimola tuttavia la curiosità nel voler verificare se la normativa in questione venga diversamente interpretata a seconda di quale sia l'interesse del lavoratore da tutelare, ovvero la permanenza presso il cedente piuttosto che l'”abbandono” di quest'ultimo, verso una meno incerta posizione lavorativa.

Curiosità che, in qualche modo richiama le problematiche da alcuni sollevate in ordine al ruolo della volontà del lavoratore rispetto alle vicende traslative dell'azienda.

L'attenta lettura delle due pronunce esclude però, a parere di chi scrive, qualsiasi interpretazione “preferenziale” nell'applicazione dei principi di diritto e le diverse soluzioni adottate dai Giudici appaiono esclusivamente il frutto della singolarità delle fattispecie.

Ma andiamo con ordine.

La formulazione dell'art. 2112 c.c. successiva al D.Lgs. n. 18/2001, riconduceva il concetto lavoristico del trasferimento d'azienda al «mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata [...] preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, [...]», così riportando (o tentando di riportare) nell'ordinamento nazionale i concetti espressi nella citata Direttiva europea, mirante, com'è noto, alla protezione dei lavoratori nelle vicende traslative delle organizzazioni d'impresa.

Quanto al “ramo d'azienda”, veniva rappresentato come «articolazione funzionalmente autonoma» dell'azienda nella sua interezza, ossia «di un'attività economica organizzata [...] preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità».

E' chiaro come le parole chiave della predetta definizione fossero quelle della “autonomia funzionale”, della “preesistenza” e della “conservazione”.

L'art. 32, D.Lgs. n. 276/2003 ha così modificato l'art. 2112, comma 5, ultimo periodo, c.c.: «[…] Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».

Sono perciò rimasti confermati i requisiti della “preesistenza” e della “conservazione dell'identità nel trasferimento” con riguardo alla cessione dell'azienda nel suo complesso, ma non anche per la cessione del ramo, articolazione funzionalmente autonoma dell'azienda, «identificata» però come tale al momento del passaggio.

La giurisprudenza comunitaria, come più sopra accennato, ha in più occasioni avuto modo di precisare che, ai fini dell'applicazione della Direttiva n. 2001/23/CE, l'entità economica oggetto di trasferimento debba preesistere allo stesso ed anche potersi configurare come un complesso organizzato idoneo all'esercizio di un'attività economica e, in ragione di ciò, sufficientemente strutturato ed autonomo ;.

E se la dottrina italiana ha tentato di affrontare criticamente il tema della “identificazione” del ramo aziendale, la giurisprudenza dominante di legittimità ha dato poco peso specifico alla novella normativa del 2003, ribadendo sistematicamente come la preesistenza, l'autonomia funzionale e la conservazione dell'entità trasferita debbano necessariamente presentarsi ai fini della qualificazione giuridica della fattispecie quale trasferimento di ramo d'azienda (fra i tanti contributi: G. SANTORO PASSARELLI, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d'impresa e di articolazione funzionalmente autonoma, Torino, 2014, 15 ss.; A. BOSCATI, La controversa configurazione del ramo d'azienda tra preesistenza “qualificata” ed autonomia funzionale stabile e già compiuta, in Arg. Dir. Lav., 2014, n. 2, II, 458 ss.; A. STANCHI, A. PEDRONI, Trasferimento di parte dell'impresa, preesistenza del ramo e indipendenza del cessionario, in Lav. Giur., 2014, n. 4, 337 ss.; A. ZAMBELLI, Trasferimento d'azienda: le precisazioni della Corte di giustizia europea, in G. Lav., 2014, n. 13, 21 ss.; A. BIAGIOTTI, Ripensando l'”articolazione funzionalmente autonoma”: una lettura controversa della nozione, nota a Cass. 10 ottobre 2014, n. 21503, Riv. It. Dir. Lav.2015, II, 4; V. MONTEMURRO, nota a Cass. 27 maggio 2014, n. 11832, Riv. It. Dir. Lav. 2015, II, 90; A. TURSI, Cessione di ramo d'azienda: apparenti contrasti e persistenti equivoci alla luce della giurisprudenza nazionale e comunitaria, Dir. Rel Ind. 2015, 1, 233; T. TREU, Cessione di ramo d'azienda: note orientative e di metodo, Riv. It. Dir. Lav. 2016, I, 76;)

Osservazioni

Le pronunce qui commentate si inseriscono nel solco già tracciato dai citati precedenti di legittimità.

La prima decisione, in particolare, attinge ampiamente al ricordato background giurisprudenziale, ricordando come, da una parte, l'autonomia funzionale del ramo ceduto debba potersi rintracciare già in capo all'impresa cedente, imponendo di fatto una preesistenza di quel complesso organizzato di beni, che possano poi conservare la propria identità in misura apprezzabile, anche se calati in un contesto organizzativo già strutturato, quale quello possibile in seno al cessionario.

La seconda sentenza, nel ribadire l'irrilevanza dello strumento negoziale adottato ai fini della qualificazione della fattispecie, ricorda quali debbano essere gli elementi da considerare per valutare l'autonomia funzionale del ramo e che, conseguentemente, debbano essere conservati nella nuova impresa.

Il riferimento è, dapprima, generico, a «beni di non trascurabile entità, tale da rendere possibile lo svolgimento di una determinata impresa», per poi entrare nel dettaglio di singole circostanze: il tipo di impresa, la cessione degli elementi materiali ed il loro valore, l'acquisizione di tutto o parte del personale, il trasferimento della clientela, l'analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione.

La ragione di tutto risiede nella finalità della norma che è, appunto, quella di dare massima protezione ai lavoratori ed evitare che operazioni di frazionamento o di esternalizzazione possano essere strumentali alla mera espulsione di frazioni dell'impresa non coordinate tra loro, al cui destino siano appunto poi legate le sorti del personale addetto.

Il filo del ragionamento della Corte non giunge però a spiegare o, forse, vi rinuncia, il motivo per cui il legislatore del 2003 abbia espunto il requisito della preesistenza della definizione del ramo d'azienda e, soprattutto, abbia espressamente consentito l'individuazione del ramo ad opera delle parti nel momento stesso del trasferimento.

Certo è che, più che il dato temporale (si è da più parti sottolineato, anche ironicamente, quale dovrebbe essere “l'età giusta” del ramo prima di poterlo ritenere tale), appare maggiormente rilevante l'elemento dell'autonomia funzionale, ossia dell'astratta idoneità del complesso organizzato di beni all'esercizio di un'attività di impresa ed anche del “grado” di autonomia necessario e sufficiente a trasformare un insieme di fattori della produzione in ramo aziendale.

E nel caso in esame è proprio l'insufficiente grado di autonomia dell'organizzazione ceduta che viene stigmatizzato: l'articolazione aziendale trasferita, per lo svolgimento della propria attività tipica necessitava di continue interazioni con l'organizzazione produttiva dell'impresa cedente, che, nell'operazione di cessione, aveva infatti conservato la proprietà esclusiva di elementi materiali ritenuti indispensabili per l'esecuzione del servizio da parte del cessionario.

Introduce, in tal modo, la Corte un'ulteriore caratteristica da valutarsi nella disamina delle fattispecie in argomento, quella cioè dell'autosufficienza del ramo oggetto di trasferimento.

Il che però, a parere di chi scrive, potrebbe spostare piuttosto in alto l'asticella dell'autonomia, se il senso fosse quello di qualificare come “ramo” solo la “mini” azienda, quella cioè che, una volta divisa dalla “madre” fosse in grado di sopravvivere senza ulteriori interventi.

Ciò escluderebbe potenzialmente dalla nozione di “ramo” anche quelle parti di azienda che, in quanto destinate ad essere incorporate in una organizzazione di impresa già esistente, siano desinate a formare un semplice ingranaggio di un meccanismo molto più complesso e che solo come tale, cioè nella sua completezza, possa ritenersi autosufficiente.

Piuttosto, il concetto di autosufficienza sarebbe da ricondurre alla astratta capacità di quei fattori produttivi oggetto di frazionamento di svolgere compiutamente una frazione di un processo più articolato.

Il che però, con un rimbalzo perverso, riporta in primo piano il tema – tutto soggettivo sul piano delle valutazioni giudiziali – del “grado” di autonomia o, in altre parole, della mera potenzialità dell'autonomia funzionale del ramo rispetto alla sua effettiva preesistenza.