I contratti acausali di Poste: le Sezioni Unite

25 Agosto 2016

Le assunzioni a tempo determinato effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore poste, che presentino i requisiti specificati dal comma 1-bis dell'art. 2 del decreto legislativo n. 368 del 2001, non necessitano anche dell'indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi del primo comma dell'art. 1 del medesimo decreto legislativo.
Massime

Le assunzioni a tempo determinato effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore poste, che presentino i requisiti specificati dal comma 1-bis dell'

art. 2 del decreto legislativo n. 368 del 2001

, non necessitano anche dell'indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi del primo comma dell'art. 1 del medesimo decreto legislativo.

I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato stipulati in successione tra loro tra le parti del presente giudizio sono conformi alla disciplina del lavoro a tempo determinato dettata dal

D

.

L

gs

.

6 settembre 2001, n. 368

e successive integrazioni, applicabile ratione temporis. A sua volta, la disciplina italiana applicabile al rapporto, e cioè la normativa sulla successione di contratti a tempo determinato dettata dall'

art. 5 del decreto legislativo n. 368 del 2001

, integrata dall'

art. 1, commi 40 e

43, della legge n. 247 del 2007

, è conforme ai relativi principi fissati dall'Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, stipulato tra le organizzazioni sindacali CES, UNICE e CEEP il 18 marzo 1999, recepito nella

Direttiva del Con

s

i

glio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE

.

Il caso

Una lavoratrice esponeva di essere stata assunta da Poste italiane spa con la qualifica di impiegata e mansioni di addetta CPR senior nella sede di Bari, con un contratto a tempo pieno e determinato dal 23 gennaio 2007 al 31 marzo 2007 e di essere stata nuovamente assunta, con un contratto a tempo parziale orizzontale, sempre a tempo determinato, per le medesime mansioni, dal 17 aprile 2007 al 31 maggio 2007.

La ricorrente chiedeva che venisse dichiarata l'illegittimità della apposizione del termine per mancanza di motivazione in ordine alle ragioni della assunzione a tempo determinato, sostenendo che il comma 1 e il comma 1-bis dell'

art. 2

del D

.

L

gs

.

368/

2

001

(come modificato dalla

L.

23 dicembre 2005, n. 266

) avevano introdotto ulteriori oneri per le aziende del settore aereo e poi per il settore delle poste, che si erano aggiunti a quelli generali previsti dall'

art. 1 del D

.

L

gs

.

368/

2001

.

I giudici di merito rigettavano la domanda.

La Sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria del 23 settembre 2015, rimetteva la questione al Primo Presidente che, a sua volta, disponeva che la controversia (di particolare importanza) fosse decisa a Sezioni Unite.

Le questioni

Le questioni in esame sono le seguenti:

  • se il comma 1-bis dell'

    art. 2

    , del D

    .

    L

    gs

    .

    368/2001

    prevede una disciplina aggiuntiva e non autonoma rispetto a quella prevista nell'art. 1 del medesimo decreto legislativo;
  • se il rispetto della clausola di contingentamento (cioè della percentuale massima di assunzioni a tempo determinato fissata dalla legge), in quanto fatto costitutivo, deve costituire oggetto di prova da parte del datore di lavoro;
  • se fosse ravvisabile la violazione della normativa sui contratti a tempo determinato successivi (“separati da un lasso di tempo pari a soli diciassette giorni l'uno dall'altro”).
Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni Unite, nell'affrontare la prima questione, prendono le mosse dall'evoluzione, nel tempo, della disciplina sul contratto a termine.

Dalla lettura dei testi normativi, affermano le Sezioni Unite, “si evince che la preclusione generale all'assunzione di lavoratori a tempo indeterminato salvo eccezioni tassativamente elencate, venne sostituita” (dal 2001) “con la regola per cui tale assunzione è consentita solo in presenza di ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. A fronte di questa modifica, venne conservata l'eccezione prevista un tempo dalla lettera f) dell'art. 1, della

legge 230/1962

, riproponendola nell'art. 2 del d.lgs. del 2001”.

Il legislatore, nel 2005, aggiunge una seconda eccezione per i servizi postali.

L'impresa concessionaria del servizio postale “può assumere a termine un lavoratore per un periodo massimo di sei mesi o di quattro mesi a seconda che detto periodo sia compreso tra aprile e ottobre di ogni anno o nel periodo residuo dell'anno e, soprattutto, può farlo solo se con tale assunzione non superi il limite quantitativo costituito dal quindici per cento dell'organico aziendale”.

Le tecniche normative utilizzate dal legislatore, nella definizione della regola e delle eccezioni, sono diverse.

Per la regola (contratto a termine causale) si utilizza una clausola generale.

Per le eccezioni (servizi aeroportuali e postali) si utilizza una formula normativa tassativa e dettagliata.

La tesi della ricorrente è che gli “elementi restrittivi previsti dall'

art. 1

e dall'art.

2 del d.lgs

.

368/2001

si sommerebbero e, quindi, per i contratti a tempo determinato nei settori del trasporto aereo e delle poste bisognerebbe indicare le ragioni tecnico organizzative-produttive o sostitutive giustificative dell'apposizione del termine come per ogni altro contratto a tempo determinato ed in più, rispetto agli altri settori, bisognerebbe rispettare i limiti specificati nei due commi dell'art. 2”.

La Corte non ha condiviso tale impostazione.

Le Sezioni Unite, infatti, ritengono, per ragioni testuali, teleologiche e sistematiche, che le assunzioni a tempo determinato effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore poste, che presentino i requisiti specificati dal comma 1-bis dell'

art. 2 del decreto legislativo n. 368 del 2001

, non necessitano anche dell'indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi del primo comma dell'art. 1 del medesimo decreto legislativo.

Affermazione che si pone in linea con quanto affermato, in precedenza, dalla Corte di Cassazione (

Cass.

Civ., sez. IV, 23 settembre 2014, n. 19998

), dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (

CGUE

sentenza 11 novembre 2010

, Vino c. Poste italiane spa, C-20/10
) e dalla Corte Costituzionale (

Corte

C

ost. 8 luglio 2009 n. 214

).

La soluzione del secondo quesito è di carattere puramente processuale. Il motivo, per le ragioni addotte in motivazione, viene, infatti, ritenuto inammissibile.

Le questioni poste nel terzo motivo del ricorso si articolano in tre parti:

  1. se i contratti a termine in successione stipulati tra le parti del giudizio siano o meno conformi alla disciplina sul contratto a tempo determinato applicabile ratione temporis;
  2. se, pur essendo rispettosi di tale disciplina, essi non siano tuttavia illeciti ai sensi dell'

    art. 1344 c.c.

    (contratto in frode alla legge);
  3. se la disciplina italiana sulla successione di contratti a termine, applicabile ratione temporis, sia conforme alla Direttiva europea sul contratto a tempo determinato o se, invece, vi siano elementi di contrasto che impongano un rinvio pregiudiziale.

Le Sezioni Unite, dopo aver affermato che i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato stipulati in successione tra loro tra le parti del presente giudizio sono conformi alla disciplina del lavoro a tempo determinato dettata dal

D.L

gs

.

6 settembre 2001, n. 368

e successive integrazioni, applicabile ratione temporis, escludono la configurabilità di una frode alla legge (“numero, durata di ciascun contratto e durata complessiva del rapporto indicano che si è lontani dall'ipotizzabilità di una frode alla legge”).

Alla terza sub questione (il rapporto tra la disciplina italiana e la direttiva europea) viene dedicato un percorso argomentativo più articolato.

L'incompatibilità con la clausola n. 5 dell'Accordo quadro della normativa italiana viene esclusa posto che il legislatore italiano (che deve utilizzare “almeno una” delle misure previste dalla clausola n. 5) ha utilizzato la misura prevista dalla lettera b) della clausola n. 5 (durata massima totale dei contratti a tempo determinato successivi).

Viene respinta, altresì, la questione pregiudiziale sul possibile contrasto tra la clausola n. 2 dell'Accordo quadro e la normativa nazionale che “stabilisce che soltanto i contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato non separati gli uni dagli altri da un lasso di tempo temporale superiore a 10 o a 20 giorni lavorativi (rispettivamente per i contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato di durata inferiore o superiore ai sei mesi) devono essere considerati successivi ai sensi della clausola”.

L'esclusione della rilevanza della questione pregiudiziale, secondo le Sezioni Unite, passa dalla diversità tra la normativa greca (dell'epoca) analizzata dalla CGUE nella sentenza Adeneler (Grande sezione, 4 luglio 2006, in proc. C-212/04) e quella italiana. Diversità che si coglie sotto molteplici profili: la legislazione italiana prevede la misura preventiva di cui alla lettera b) della clausola dell'accordo quadro (limite massimo dei 36 mesi) e, ai fini dell'applicazione di quella misura, considera successivo qualsiasi contratto stipulato in sequenza “indipendentemente dai peridi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro”.

Inoltre, nel caso di superamento dei 36 mesi è prevista la misura della trasformazione in rapporto a tempo indeterminato “che manca nella normativa greca applicabile al caso Adeneler”.

Quanto poi alla sentenza Fiamingo (anch'essa richiamata nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite) il giudizio della Corte di giustizia (in quel caso) è stato che la direttiva europea “non” osta alla normativa del codice della navigazione italiano sul contratto a tempo determinato dei marittimi. Tale giudizio, affermano le Sezioni Unite, vale “a fortiori per la normativa del

d.lgs

.

368/2001

applicabile al caso in esame”.

Altre questioni, infine, vengono ritenute irrilevanti.

Osservazioni

La sentenza delle Sezioni Unite si segnala, al di là delle questioni decise, per una problematica (di natura processuale) di fondo: la portata dell'obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte delle giurisdizioni di ultima istanza.

Le coordinate, sul tema, derivano, com'è noto, dalla famosa sentenza CILFIT.

L'

art. 267 TFUE

stabilisce un obbligo di rinvio solo in capo agli organi giurisdizionali “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno”, mentre gli altri organi hanno una facoltà di rinvio.

La ratio della previsione dell'obbligo di rinvio in capo alle giurisdizioni di ultima istanza risiede, evidentemente, nel fatto che esse costituiscono l'ultima sede in cui è possibile operare il rinvio. A tale ragione, però, si aggiunge la considerazione che tale obbligo “mira ad evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie”.

Per giudice di ultima istanza (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale) si intende il giudice le cui sentenze non sono soggette ad impugnazione.

L'obbligo per il giudice di ultima istanza di operare il rinvio non impedisce, però, che lo stesso possa compiere una valutazione in ordine alla fondatezza del dubbio interpretativo.

La questione fu affrontata dalla Corte di giustizia nella fondamentale sentenza CILFIT del 1982 (Corte di giustizia dell'Unione europea, 6 ottobre 1982, causa C-283/81).

La sentenza chiarì che il giudice nazionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia quando abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione del diritto dell'Unione di cui si tratta abbia già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell'UE si impone “con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio” (c.d. teoria dell'atto chiaro).

Il principio viene enunciato in termini restrittivi (non deve esistere “alcun ragionevole dubbio”) e circondato da ulteriori cautele, attraverso l'affermazione che il giudice nazionale deve “maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli Stati membri e alla Corte di giustizia” e rammentando che l'interpretazione delle norme Ue comporta un raffronto tra le varie versioni linguistiche, la considerazione del suo contesto e del suo stato di evoluzione (punti nn. 16-20 della sentenza CILFIT).

In sintesi, per il giudice di ultima istanza, l'obbligo “di adire la Corte costituisce dunque il principio e la rinuncia ad adire la Corte, l'eccezione”.

Ne consegue, come precisa la Corte nella sentenza Ferreira da Silva (C-160/14, punto 44), che in circostanze “quali quelle del procedimento principale, contraddistinte al contempo da correnti giurisprudenziali contraddittorie a livello nazionale in merito alla nozione di trasferimento di uno stabilimento, ai sensi della

direttiva 2001/23

e da ricorrenti difficoltà d'interpretazione di tale nozione nei vari Stati membri, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non sono esperibili ricorsi giurisdizionali di diritto interno è tenuto ad adempiere al suo obbligo di rinvio alla Corte e ciò al fine di eliminare il rischio di un'errata interpretazione del diritto dell'Unione”.

La sentenza delle Sezioni Unite non sembra discostarsi.

In primo luogo, perché, nella specie, “la richiesta di rimessione viene formulata non a causa di un contrasto di orientamenti, ma solo per avere un intervento a Sezioni Unite in presenza di un contenzioso già cospicuo e destinato verosimilmente ad ulteriore incremento, in presenza del quale appare necessario scongiurare l'eventuale formarsi di contrasti interpretativi nella giurisprudenza di legittimità” (punto 66 della sentenza in commento).

In secondo luogo, perché la soluzione del problema viene tratta da una sentenza della CGUE che aveva esaminato una questione analoga (Adeneler).

Le Sezioni Unite, attraverso le coordinate fornite dalla sentenza della Grande sezione, operano una comparazione tra la legislazione greca (del 2003) e quella italiana in tema di successione di contratti a termine evidenziandone le analogie ma, soprattutto, le differenze (“la legislazione italiana prevede la misura preventiva di cui alla lett b) della clausola n. 5 dell'accordo quadro – limite massimo dei 36 mesi – e, ai fini dell'applicazione di quella misura, considera successivo qualsiasi contratto stipulato in sequenza, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro”).

In presenza di questo complesso di misure, concludono le Sezioni Unite, “deve escludersi che la legislazione italiana sia omologabile alla normativa greca considerata dalla Grande sezione e deve escludersi che in relazione ad essa possa porsi un problema di conformità all'accordo quadro e specificamente di contrasto con la clausola n. 5” (punto 76 della motivazione).

Guida all'approfondimento

Sulla disciplina del contratto a tempo determinato nel

D

.

L

gs

.

n. 81/2015

, si veda, tra gli altri, L. Menghini, Lavoro a tempo determinato (artt. 1, 19-29, 51 e 55), in F. Carinci (a cura di), Commento al

D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81

: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book serie, n. 48 e V. De Michele, Il

D.Lgs. n. 81/2015

e la (in)compatibilità con il diritto dell'Unione europea, in E. Ghera – D. Garofalo (a cura di), Contratti di lavoro, mansioni e misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act 2, Bari, 2015.

Sull'evoluzione, meno recente, del contratto a termine, si veda G. Franza, Il lavoro a termine nell'evoluzione dell'ordinamento, Milano, 2010.

Sull'evoluzione normativa dalla

L

. n. 92/2012

al

D

.

L

. n. 34 del 2014

(convertito nella

L

. n. 78/2014

) si veda M. Magnani, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato: novità e implicazioni sistematiche, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT-212/2014, 5.

Sull'ordinanza n. 18782 del 23 settembre 2015, si veda F. Maria Putaturo Donati, L'acausalità del termine al vaglio delle Sezioni Unite, in Mass Giur. Lav., 2016, n. 1, pag. 17-24.

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