Il mobbing ed il danno da demansionamento: oneri probatori nell’una e nell’altra fattispecie

24 Settembre 2014

Con due recenti pronunzie della Sezione Lavoro (nn. 19782 e 19778 del 19 settembre 2014), la Corte di Cassazione ha ricordato gli oneri di allegazione e prova nelle ipotesi di domande risarcitorie promosse dai lavoratori. Il mobbing sussiste in presenza degli elementi di condotta persecutoria del datore di lavoro; di danno alla persona del lavoratore; di nesso eziologico tra condotta e danno; di intento persecutorio. Il danno da demansionamento non è in re ipsa, ma deve essere specificamente allegato e provato dal lavoratore, anche mediante presunzioni, come conseguenza di una comprovata assegnazione a mansioni inferiori rispetto alle precedenti.

Le fattispecie

Con la prima pronunzia (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 19 settembre 2014, n. 19782) la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di un lavoratore contro la sentenza della Corte di Appello di l'Aquila che aveva negato la sussistenza del danno da mobbing invocato dal lavoratore, sul presupposto della mancata allegazione e prova dei relativi elementi costitutivi.

In particolare, ai fini della sussistenza del mobbing, il lavoratore aveva dedotto l'assegnazione alle mansioni di addetto “scarico forno” le quali, a suo dire, avrebbero comportato un isolamento della vita aziendale nonché il passaggio ad un ambiente di lavoro con elevata escursione termica rispetto al reparto di provenienza.

La Corte di Cassazione ha rigettato tale tesi, non avendo il lavoratore provato l'elemento indefettibile ai fini della sussistenza del mobbing, vale a dire l'intento persecutorio.

Con la seconda pronunzia (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 19 settembre 2014, n. 19778), la Suprema Corte ha rigettato il ricorso di una società contro la sentenza della Corte di Appello di Venezia che aveva ritenuto sussistente il danno da dequalificazione professionale invocato dal lavoratore.

Nella fattispecie, si trattava di un medico che, nominato responsabile di tale progetto di informatizzazione di un Pronto Soccorso, aveva dimostrato in giudizio come tale incarico, impedendogli di svolgere la professione medica, comportava un impoverimento della sua capacità professionale e gli precludeva di acquisirne una maggiore.

In particolare, era risultato provato, mediante presunzioni semplici, che il nuovo incarico presso il Pronto Soccorso procurava al lavoratore un danno all'immagine, desumibile dal raffronto tra l'elevata qualifica posseduta, da un lato, e il concreto confinamento in compiti completamente diversi, concretizzatosi nella totale esclusione dall'effettivo svolgimento dell'attività clinica, dall'altro lato.

Le pronunce in esame offrono lo spunto per un excursus sui principi, di elaborazione giurisprudenziale, relativi agli oneri di allegazione e prova nelle ipotesi di domande risarcitorie promosse dai lavoratori per asserito danno da mobbing oppure per asserito danno da demansionamento.

A tal proposito, come vedremo, il danno da demansionamento è uno degli elementi che, se allegati e provati dal lavoratore, può concorrere, unitamente ad altri requisiti (in primis l'intento persecutorio del datore di lavoro), ad integrare la complessa fattispecie del mobbing.

I principi di diritto

Ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., come noto, l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il cd. mobbing è una fattispecie che dottrina e giurisprudenza hanno ricondotto alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro, appunto, dall'articolo 2087 cod. civ.

Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, per mobbing deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente nell'ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell'equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo (Corte di Cassazione, Sez. Lav., 17 gennaio 2014, n. 898; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 28 agosto 2013, n. 19814; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 31 maggio 2011, n. 12048; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 26 marzo 2010, n. 7382).

Come ha efficacemente affermato, di recente, il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 febbraio 2014,

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il mobbing può dunque sinteticamente essere definito come una pluralità di condotte attive e/o omissive, illecite e non, ma comunque di maltrattamento (maltrattare significa trattare qualcuno in malo modo umiliandolo, facendolo soffrire o ledendone gli interessi), poste in essere nell'arco di un apprezzabile lasso di tempo (la necessità della cui durata sarà indirettamente proporzionale alla gravità e alla frequenza delle offese), da una o più persone nel contesto lavorativo (colleghi di lavoro, superiori gerarchici, datore di lavoro stesso), unificate da un medesimo disegno o scopo, consistente nell'ostacolare o addirittura nell'elidere le potenzialità di realizzazione della vittima nell'ambiente lavorativo

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In tale contesto, sancisce la sentenza in commento (Corte di Cassazione, Sez. Lav., 19 settembre 2014, n. 19782), il cd. intento vessatorio del datore di lavoro (vale a dire la specifica intenzione del datore di lavoro di nuocere alla vittima allo scopo di estrometterla dalla vita aziendale ovvero indurla alle dimissioni), è requisito peculiare ed imprescindibile ai fini della sussistenza del mobbing e, come tale, deve essere specificamente allegato e provato dal lavoratore.

Nella pratica, tra le condotte maggiormente significative che, unitamente all'intento vessatorio, possono concorrere alla integrazione di una fattispecie di mobbing, si annoverano, tra l'altro, la reiterazione di molteplici procedimenti disciplinari per addebiti poi rivelatisi di risibile rilievo (e, dunque, meramente strumentali ed asserviti al disegno persecutorio ordito dal datore di lavoro) e/o una situazione di prolungato di demansionamento.



In ordine a quest'ultima ipotesi, la seconda sentenza oggetto di commento (Corte di Cassazione, Sez. Lav., 19 settembre 2014, n. 19778), offre interessanti spunti di riflessione per quanto concerne, fra l'altro, la prova del demansionamento e del relativo danno che ne consegua.

Sul punto, assume rilievo la norma legislativa secondo cui limite invalicabile del cd. ius variandi in capo al datore di lavoro è costituito dall'equivalenza delle nuove mansioni assegnate al lavoratore con quelle da questi da ultimo svolte (art. 2103 cod. civ.).

Al riguardo, è stato giudicato che l'equivalenza deve essere verificata in concreto sia sotto il profilo oggettivo, cioè in relazione all'inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, cioè in relazione all'affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono quanto meno armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall'interessato durante il rapporto di lavoro, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 14 giugno 2013, n. 15010).

La violazione dell'art. 2013 cod. civ. può essere foriera di danni patrimoniali e non patrimoniali, i quali devono essere allegati specificamente dal lavoratore, come conseguenza della condotta illecita (insomma, come affermato dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 24 marzo 2006, n. 6572, il danno non è in re ipsa).

È di tipo patrimoniale il danno alla professionalità, che può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno.

Hanno invece natura non patrimoniale le seguenti lesioni alla persona umana:

  1. il cd. danno biologico, che consiste in una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile;
  2. il cd. danno morale, che consiste nel patema d'animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore;
  3. il cd. danno esistenziale che consiste nel pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Infine, è consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la prova dei predetti danni può essere data con ogni mezzo, anche mediante presunzioni (Corte di Cassazione, Sez. Lav., 3 aprile 2014, n. 7818; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 11 luglio 2013, n. 17174; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 29 maggio 2013, n. 13414; Corte di Cassazione, Sez. Lav., 27 marzo 2013, n. 7667).

Le conclusioni

Alla luce dei richiamati orientamenti giurisprudenziali, le pronunce in commento formulano i seguenti principi:

  • ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un preposto a anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente, c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 19 settembre 2014, n. 19782);


  • il danno da demansionamento, il cui onere probatorio grava sul lavoratore, può essere provato anche in via presuntiva, in base ad elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale del medesimo e alle circostanze del caso concreto (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 19 settembre 2014, n. 19778).

Fonti giurisprudenziali

Precedenti giurisprudenziali relativi ai requisiti necessari per la sussistenza del mobbing:

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 17 gennaio 2014, n. 898;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 28 agosto 2013, n. 19814;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 31 maggio 2011, n. 12048;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 26 marzo 2010, n. 7382;

Tribunale di Parma, Sez. Lav., 20 marzo 2014;

Corte Costituzionale, 19 dicembre 2003, n. 359.

Precedenti giurisprudenziali relativi all'onere probatorio per l'accertamento del danno da demansionamento:

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 3 aprile 2014, n. 7818;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 11 luglio 2013, n. 17174;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 14 giugno 2013, n. 15010;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 29 maggio 2013, n. 13414;

Corte di Cassazione, Sez. Lav., 27 marzo 2013, n. 7667;

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 24 marzo 2006, n. 6572