Obbligo di repêchage per mansioni inferiori?

Roberto Spagnuolo
27 Gennaio 2017

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro deve estendersi alla verifica della possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte, con il consenso del medesimo.
Massima

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro deve estendersi alla verifica della possibilità di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle precedentemente svolte, con il consenso del medesimo.

Il caso

Il dipendente di una impresa edile, addetto alla conduzione di macchine escavatrici, licenziato per soppressione del posto di lavoro, impugnava il recesso datoriale ed il primo giudice ne rigettava la domanda, avendo accertato il venir meno, in capo al datore di lavoro, dell'esigenza di avvalersi di escavatoristi.

La Corte d'Appello di Firenze accoglieva il gravame proposto dal lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento, dopo aver accertato attraverso i libri matricola che l'impresa aveva comunque proceduto all'assunzione di altro personale, pur se con mansioni di manovale, circostanza che il lavoratore aveva segnalato sin dall'atto introduttivo del giudizio, lamentando che non gli fosse stata offerta l'opportunità di adibizione a compiti equivalenti o anche inferiori. In tal guisa, la Corte aveva accolto l'appello ritenendo che la parte datoriale non avesse dato compiuta prova dell'impossibilità del cd. repêchage.

Il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, denunciando violazione dell'art. 2103 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha sostenuto che l'obbligo di repêchage debba estendersi alla verifica della possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori a quelle precedenti.

Le questioni

Le questioni affrontate dalla Cassazione sono sostanzialmente due:

  1. se la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo implichi la verifica della impossibilità di reimpiego del lavoratore in altre mansioni;
  2. se tale verifica debba investire anche la possibilità di adibizione a mansioni inferiori e come ciò si concili con la norma inderogabile di cui all'art. 2103, comma 2, c.c., nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 81/2015.
Le soluzioni giuridiche

La S.C. ha risolto la prima questione de plano, richiamando implicitamente la consolidata giurisprudenza sulla necessità che, nel licenziamento per g.m.o. dettato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, il datore di lavoro debba dimostrare, oltre all'esistenza obbiettiva delle esigenze imprenditoriali ed al nesso causale con l'estromissione del lavoratore, anche l'impossibilità di adibire quest'ultimo a compiti equivalenti a quelli precedentemente svolti (cfr. da ultimo, Cass. sez. lav., 13 giugno 2016, n. 12101).

Più articolata è la soluzione della seconda questione, in considerazione del divieto normativo di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto, ex art. 2103, comma 1, c.c., rafforzato dalla sanzione di nullità di ogni patto contrario, ai sensi del comma 2.

Come evidenziato nella sentenza in commento, la giurisprudenza più risalente riteneva che detto divieto, in quanto avente funzione antielusiva di ogni variazione deteriore della posizione del lavoratore, potesse giungere sino al punto di imporre a questi il sacrificio di non poter conservare il posto, accettando mansioni inferiori.

In seguito, tuttavia, non solo la legge ha previsto specifiche eccezioni al divieto di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori (come avvenuto con l'art. 4, comma 11, della L. n. 223/1991 sui licenziamenti collettivi, con l'art. 4, comma 4 della L. n. 68/1999 sul diritto al lavoro dei disabili e con l'art. 7, comma 5 della L. n. 151/2001 sulla tutela della maternità); ma anche la giurisprudenza è giunta all'affermazione di principio per cui talune deroghe possano essere giustificate nelle ipotesi in cui si registri un'oggettiva prevalenza dell'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro sulla mera salvaguardia della professionalità acquisita.

A fungere da “apripista” in questo senso sono state le SS.UU. della S.C. (sent. 7 agosto 1998, n. 7755), in materia di licenziamento per g.m.o. dovuto a sopravvenuta infermità del lavoratore, con l'affermazione che il recesso è legittimo alla duplice condizione che:

  1. l'attività svolta in concreto dal prestatore sia divenuta ineseguibile;
  2. questi non possa essere adibito a mansioni equivalenti o ad altre eventualmente inferiori.

Ciò, per l'appunto, sul presupposto della prevalenza del diritto alla conservazione del posto rispetto alla salvaguardia della professionalità, specie in epoche storiche di grave crisi del mercato del lavoro.

Il principio è stato riaffermato in numerose altre pronunce della S.C., nelle quali è stato precisato il ruolo della volontà del lavoratore, affermandosi che il datore, prima di esercitare il recesso per sopravvenuta infermità permanente del prestatore, è tenuto a cercare possibili ipotesi alternative e, ove queste comportino l'assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al lavoratore la possibilità del demansionamento, divenendo libero di esercitare il recesso solo qualora tale soluzione alternativa non venga accettata (Cass. sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10018).

A conclusione dell'excursus giurisprudenziale, l'estensore della sentenza in commento rileva come il principio formulato dalle Sezioni Unite del 1998 sia stato poi esteso, dal giudice della nomofilachia, anche ad ipotesi come quella all'esame, di licenziamento per g.m.o. conseguente a soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale, identiche essendo le esigenze di tutela del posto di lavoro rispetto alla salvaguardia della professionalità del lavoratore, a patto che l'adibizione a mansioni inferiori sia coerente con il nuovo assetto organizzativo e che il lavoratore abbia espresso il proprio consenso (Cass. sez. lav., 8 marzo 2016, n. 4509).

Osservazioni

Il tema del c.d. repêchage attiene alle condizioni di legittimità del licenziamento per g.m.o. ex art. 3, L. n. 604/1966, sia esso dipendente da sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate (ipotesi diversa da quella in cui la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, nel qual caso va ravvisata una causa di risoluzione del rapporto per giusta causa, ex art. 2119 c.c.) oppure da soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale.

In riferimento a quest'ultima ipotesi, oggetto della sentenza in commento, è principio consolidato che il datore di lavoro deve provare ed il giudice accertare:

  1. l'effettività delle ragioni economico-produttive addotte a fondamento del licenziamento;
  2. l'effettività della soppressione del posto di lavoro;
  3. il nesso di causalità tra le une e l'altra.

È pacifico che, pur non potendo il giudice sindacare nel merito le scelte organizzative adottate dall'imprenditore, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. (cfr. da ultimo Cass. sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201), il controllo sull'effettiva sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore e sul nesso di causalità rispetto al licenziamento si estende anche alla dimostrazione dell'impossibilità di impiegare il dipendente in altre mansioni -come s'è visto, anche inferiori, se v'è il consenso dell'interessato -, in quanto la scelta del licenziamento deve rappresentare pur sempre una extrema ratio (cfr., tra le tante, Cass. sez. lav., 3 febbraio 2011, n. 3040).

Nella categoria del licenziamento per g.m.o. dovuto a riorganizzazione aziendale, poi, possono essere individuate due sottocategorie, con caratterizzazioni differenti sotto il profilo dell'onere probatorio e del sindacato giudiziale delle decisioni finali del datore di lavoro:

  1. quella in cui le ragioni economico-produttive dell'azienda conducano alla soppressione di un intero settore lavorativo, o di un reparto o, comunque, di singole posizioni di lavoro ben individuate, perché richiedenti specifica professionalità, nel qual caso il datore deve dare la prova di non poter utilizzare i lavoratori interessati in altri posti liberi, anche comportanti lo svolgimento di mansioni inferiori;
  2. quella in cui le predette ragioni impongano più semplicemente una riduzione di personale svolgente mansioni del tutto omogenee e fungibili, nel qual caso, mancando per definizione posti diversi nei quali eventualmente reimpiegare le unità in esubero, il datore di lavoro deve soltanto dimostrare di aver provveduto all'individuazione dei lavoratori da espellere secondo parametri di correttezza e buona fede.

È evidente che il ricorrere dell'una situazione escluda l'altra, con conseguenze rilevanti in tema di obbligo di repêchage: la prima non comporta ineludibilmente l'espulsione del lavoratore, ove se ne provi la possibilità di reimpiego in altri posti liberi, anche con svolgimento di mansioni inferiori; la seconda, invece, porta necessariamente ai licenziamenti, mancando per definizione altri posti liberi cui destinare le unità in esubero.

In tale ultimo caso la giurisprudenza ha formulato l'ulteriore regola in base alla quale “se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile - in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio della impossibilità di repêchage - il datore deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse” (cfr. Cass. sez. lav., 28 marzo 2011, n. 7046, nonchè Cass. sez. lav., 21 dicembre 2001, n. 16144).

Ed in concreto, i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme a correttezza e buona fede possono trarsi (pur nella diversità dei regimi) da quelli che l'art. 5 della L. n. 223/1991 ha dettato per i licenziamenti collettivi, per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi, così giungendo ad individuare, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità (non assumendo, invece, rilievo le esigenze tecnico-produttive e organizzative data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti; vd. Cass. sez. lav., 11 giugno 2004, n. 11124).

Va da ultimo segnalato come il legislatore, con l'approvazione del D.Lgs. n. 81/2015, abbia fatto propri i richiamati principi giurisprudenziali in tema di possibilità di repêchage del lavoratore in mansioni inferiori. Ed invero, al comma 2 del novellato art. 2103 c.c., ha espressamente previsto che “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale”, con esclusione, in questo caso, della nullità dei patti contrari al divieto di demansionamento (ultimo comma).

Si tratta tuttavia di norma applicabile ai licenziamenti per g.m.o. solo a far tempo dal 25/6/2015, data di entrata in vigore della novella.