La consumazione del diritto ad impugnare e l’impugnativa del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta

25 Febbraio 2015

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale
Massime

“La rituale proposizione del ricorso per cassazione determina la consumazione del diritto di impugnare, con la conseguenza che non è possibile presentare motivi aggiunti, oltre a quelli già formulati, così come non è consentita la proposizione di un altro ricorso, che diviene soggetto alla sanzione di inammissibilità”.

“In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia, poichè ai fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico- produttive dell'azienda, previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei - per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti”.

“In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest'ultimo a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento e fino alla riammissione in servizio, non può essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall'interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicchè le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della compensatio lucri cum damno”.

Il caso

Quattro lavoratori agivano in giudizio per veder accertata l'illegittimità del licenziamento collettivo irrogato loro. All'esito dei primi due gradi di giudizio, veniva dichiarata la legittimità del licenziamento di due di essi, appartenenti ad un reparto interamente dismesso, mentre, al contrario, per gli altri due veniva accertata la illegittimità del provvedimento espulsivo (e disposta la reintegra), sul presupposto della violazione dei criteri di scelta di cui alla l. n. 223/1991.
Contro la sentenza d'Appello veniva proposto ricorso per Cassazione, “integrato” da separato ricorso, da parte dei due lavoratori il cui licenziamento era stato dichiarato legittimo.
Il datore di lavoro resisteva con controricorso deducendo l'inammissibilità del ricorso integrativo e proponeva autonomo ricorso per Cassazione.
Gli altri due lavoratori il cui licenziamento era stato dichiarato illegittimo resistevano con un controricorso con ricorso incidentale.
Tutti i ricorsi venivano riuniti, involgendo la medesima sentenza.

Le questioni

Le questioni in esame sono le seguenti:

a) la proposizione del ricorso per Cassazione comporta la consumazione del diritto ad impugnare con conseguente inammissibilità di un eventuale ulteriore ricorso successivo anche se in termini?

b) è ammissibile e con che limiti restringere ad un determinato reparto aziendale la platea dei lavoratori interessati dal licenziamento collettivo?

c) dal risarcimento ex art. 18 l. n. 300/1970 deve essere detratto quanto eventualmente percepito dal lavoratore a titolo di pensione?

Le soluzioni giuridiche

Appare consolidato in giurisprudenza il principio che la proposizione del ricorso principale per cassazione determina la consumazione del diritto di impugnazione, con la conseguenza che il ricorrente, ricevuta la notificazione del ricorso proposto da un'altra parte non può introdurre nuovi e diversi motivi di censura con i motivi aggiunti, né ripetere le stesse censure già avanzate con il proprio originario ricorso mediante un successivo ricorso incidentale, che, se proposto, va dichiarato inammissibile, pur restando esaminabile come controricorso nei limiti in cui sia rivolto a contrastare l'impugnazione avversaria (Cass. S.U. 22 febbraio 2012 n. 2568).
Peraltro fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, può essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purché esso sia tempestivo. Al fine di valutare la sussistenza di tale requisito occorre tenere conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, che comunque non deve essere già spirato al momento della richiesta della notificazione della seconda impugnazione, ma del termine breve, che decorre dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante (Cass. 3 settembre 2014 n.18604).
Per quanto riguarda la procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale, il criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, richiamato dalla l. n. 223/1991, art. 5, comma 1, quindi, comporta che la riduzione del personale possa essere limitata a specifici rami d'azienda soltanto se questi siano caratterizzati dall'autonomia e dalla specificità delle professionalità ivi impiegate, che devono risultare infungibili rispetto alle altre (Cass. 31 ottobre 2013 n. 24575).
Qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata. Da ciò consegue inevitabilmente che, in linea di principio, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. 3 maggio 2011 n. 9711).
Sulla questione inerente il profilo sub c), appartiene ad un'opzione argomentativa ormai cristallizzatasi nel tempo il principio per cui in caso di illegittimo licenziamento, il risarcimento del danno spettante a quest'ultimo non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall'interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della "compensatio lucri cum damno". Tale "compensatio", d'altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l'ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, nè allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del diniego del diritto alla prosecuzione dell'attività lavorativa travolge "ex tunc" il diritto al pensionamento e sottopone l'interessato all'azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore (Cass. 8 maggio 2008 n. 11373).
In un caso peculiare, è stato altresì affermato che in presenza di un scioglimento del rapporto di lavoro per iniziativa del datore, fondato sull'esistenza di una clausola risolutiva nulla (per contrarietà a norme imperative, prevedendo l'automatica cessazione del rapporto lavorativo al raggiungimento della massima anzianità contributiva), la domanda di risarcimento del danno, erroneamente basata sull'art. 18, comma quinto, della legge n. 300 del 1970, può essere considerata come azione di risarcimento da illecito contrattuale di diritto comune, venendo in considerazione la qualificazione giuridica della domanda e non un mutamento dei fatti costitutivi e dovendosi ritenere che la notifica del ricorso introduttivo - comportando la richiesta di reintegra l'offerta da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative - assuma valore di messa in mora; né può considerarsi quale "aliunde perceptum" la pensione nel frattempo percepita, che il lavoratore è tenuto a restituire all'ente erogante (Cass. 16 aprile 2008 n. 9988).

Osservazioni

Appare consolidato in giurisprudenza il principio che la proposizione del ricorso principale per cassazione determina la consumazione del diritto di impugnazione, con la conseguenza che il ricorrente, ricevuta la notificazione del ricorso proposto da un'altra parte non può introdurre nuovi e diversi motivi di censura con i motivi aggiunti, né ripetere le stesse censure già avanzate con il proprio originario ricorso mediante un successivo ricorso incidentale, che, se proposto, va dichiarato inammissibile, pur restando esaminabile come controricorso nei limiti in cui sia rivolto a contrastare l'impugnazione avversaria (Cass. S.U. 22 febbraio 2012 n. 2568).
Peraltro fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, può essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purché esso sia tempestivo. Al fine di valutare la sussistenza di tale requisito occorre tenere conto, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non del termine annuale, che comunque non deve essere già spirato al momento della richiesta della notificazione della seconda impugnazione, ma del termine breve, che decorre dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante (Cass. 3 settembre 2014 n. 18604).
Per quanto riguarda la procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale, il criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, richiamato dalla l. n. 223/1991, art. 5, comma 1, quindi, comporta che la riduzione del personale possa essere limitata a specifici rami d'azienda soltanto se questi siano caratterizzati dall'autonomia e dalla specificità delle professionalità ivi impiegate, che devono risultare infungibili rispetto alle altre (Cass. 31 ottobre 2013 n. 24575).
Qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata. Da ciò consegue inevitabilmente che, in linea di principio, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. 3 maggio 2011 n. 9711).
Sulla questione inerente il profilo sub c), appartiene ad un'opzione argomentativa ormai cristallizzatasi nel tempo il principio per cui in caso di illegittimo licenziamento, il risarcimento del danno spettante a quest'ultimo non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall'interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività della regola della "compensatio lucri cum damno". Tale "compensatio", d'altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l'ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, nè allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del diniego del diritto alla prosecuzione dell'attività lavorativa travolge "ex tunc" il diritto al pensionamento e sottopone l'interessato all'azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore (Cass. 8 maggio 2008 n. 11373).
In un caso peculiare, è stato altresì affermato che in presenza di un scioglimento del rapporto di lavoro per iniziativa del datore, fondato sull'esistenza di una clausola risolutiva nulla (per contrarietà a norme imperative, prevedendo l'automatica cessazione del rapporto lavorativo al raggiungimento della massima anzianità contributiva), la domanda di risarcimento del danno, erroneamente basata sull'art. 18, comma quinto, della legge n. 300 del 1970, può essere considerata come azione di risarcimento da illecito contrattuale di diritto comune, venendo in considerazione la qualificazione giuridica della domanda e non un mutamento dei fatti costitutivi e dovendosi ritenere che la notifica del ricorso introduttivo - comportando la richiesta di reintegra l'offerta da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative - assuma valore di messa in mora; né può considerarsi quale "aliunde perceptum" la pensione nel frattempo percepita, che il lavoratore è tenuto a restituire all'ente erogante (Cass. 16 aprile 2008 n. 9988).