Il regime del licenziamento orale nel contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti
25 Marzo 2015
Abstract
La disciplina dei rimedi avverso il licenziamento orale riservata agli assunti (operai, impiegati o quadri) a tempo indeterminato con decorrenza dal 7 marzo 2015 - delineata dal legislatore con il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 - non diverge di molto da quella congegnata con la l. 28 giugno 2012, n. 92 (da ora legge “Fornero”), attualmente applicabile ai lavoratori già titolari, per il periodo pregresso, di un rapporto di lavoro stabile. Il disvalore che connota la cessazione di un rapporto di lavoro non determinata da atto scritto giustifica, anche nel nuovo impianto normativo, la tutela reintegratoria, la cui operatività non è limitata ai licenziamenti orali intimati nell'area della cosiddetta tutela reale. Il quadro normativo
L'art. 2 del citato D.Lgs. estende il regime di tutela avverso il licenziamento discriminatorio o nullo a quello dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il regime in questione prevede, una volta accertata con pronuncia dichiarativa l'inefficacia del licenziamento irrogato in forma non scritta, un ordine del giudice, rivolto al datore di lavoro imprenditore o non imprenditore (ivi comprese le organizzazioni di tendenza, per come previsto dall'art. 9, comma 2, del D.Lgs. in questione), di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Ovviamente la locuzione “indipendentemente dal motivo formalmente addotto” contenuta nella disciplina di riferimento cui è operato il rinvio non ha alcun margine di incidenza sul regime del licenziamento orale, poiché i motivi, quand'anche espressi a voce, non avrebbero rilevanza alcuna, ponendosi il difetto di forma scritta quale fattore preclusivo del sindacato giudiziale circa la veridicità o meno dei motivi stessi, la cui comunicazione è da considerarsi, pertanto, “tamquam non esset” (qualora, poi, i motivi dovessero esser resi per iscritto, l'atto che li contiene avrebbe idoneità a porsi esso stesso quale licenziamento). È poi disposto che con la predetta pronuncia il giudice condanni il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. La disposizione normativa stabilisce, altresì, che il datore di lavoro è condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Infine è contemplata una duplice modalità di risoluzione del rapporto. La prima - a seguito dell'ordine di reintegrazione – è connessa alla mancata ripresa del servizio, ad opera del lavoratore, entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro. La seconda è correlata alla richiesta, avanzata - entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dell'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione - dal lavoratore medesimo, di un'indennità sostitutiva della reintegrazione, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Le discipline della legge Fornero e del decreto attuativo del Jobs act a confronto
Il comma 1 dell'art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300 (da ora, Statuto dei lavoratori), così come modificato dalla legge “Fornero”, dispone che il giudice emette la pronuncia di accertamento e di condanna nella forma della sentenza; in realtà l'adozione di tale ultimo termine è impropria, giacché la previsione di impiego, per far valere l'illegittimità del licenziamento orale (oggi solo per i vecchi assunti), del rito speciale destinato a chiudersi in prima fase con ordinanza, sarebbe stata maggiormente in sintonia con l'utilizzo di una espressione atecnica. Evidentemente il legislatore del Jobs act ha ritenuto di prevenire errori terminologici facendo uso del termine, generico, “pronuncia” (anche se l'esclusione del rito Fornero per la gestione dei contenziosi originati dalla nuova normativa avrebbe, in questo caso, reso corretto l'impiego del termine “sentenza”). La predetta disposizione stabilisce, inoltre, che la reintegrazione vada ordinata “quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”; nel citato art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 tale locuzione è ovviamente assente, poiché il sistema della legge svaluta oramai, in buona misura, la distinzione tra tutela reale ed obbligatoria, salvo che a contingenti fini concernenti, soprattutto, la consistenza di poste risarcitorie. Il nuovo quadro normativo non fa alcun riferimento alla figura del dirigente, sicché il licenziamento orale intimato nell'ambito del rapporto dirigenziale rimane disciplinato dall'art. 18, comma 1, dello Statuto dei lavoratori, a prescindere dalla data di assunzione del dipendente. Differenza, per così dire, di sistema è data dall'individuazione del criterio per la commisurazione della posta risarcitoria; dal parametro dell'ultima retribuzione globale di fatto della legge “Fornero”, si passa, per i nuovi assunti, a quello dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (di più agevole quantificazione); il che implica, inoltre, una cristallizzazione della posta (che, secondo un orientamento, non sarebbe nota tipica dell'ultima retribuzione globale di fatto), che non potrà lievitare, ad esempio, per effetto di aumenti retributivi intervenuti tra la data del licenziamento e quella della effettiva reintegra. Gli aspetti sovrapponibili delle due discipline sono i seguenti:
L'assetto normativo delineato dal legislatore del Jobs act non tocca l'aspetto sostanziale concernente l'identificazione del licenziamento orale e quello processuale inerente alla distribuzione dell'onere della prova al riguardo. Sicché valgono in materia i noti principi elaborati, in passato, dalla giurisprudenza. Non costituisce, così, licenziamento orale l'allontanamento del lavoratore dall'azienda una volta scaduto il termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato o genericamente autonomo; in questi casi, infatti, il rapporto - pur se sostanzialmente di natura subordinata e a tempo indeterminato – entra, allo scadere del termine, in una fase di sospensione, destinata a venir meno con la riattivazione derivante dall'iniziativa del lavoratore. Del pari non dovrebbe costituire licenziamento orale imputabile al ritenuto (dal lavoratore) vero datore di lavoro quello intimato dallo pseudo-datore di lavoro, nelle vicende interpositorie in senso lato. Costituisce, per converso, licenziamento orale quello, consueto, irrogato nell'ambito di un rapporto formalmente subordinato a tempo indeterminato e quello intimato, nell'ambito del lavoro solo formalmente autonomo (ma di cui il lavoratore assuma la subordinazione): a) prima della scadenza del termine finale; b) qualora non vi sia un termine finale. Sul versante dell'onere della prova, vige il principio secondo cui “qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un'eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art. 2697, comma 2, c.c.” (cfr., sul punto, da ultimo, Cass., sez lav., 15 gennaio 2015, n. 610). Pertanto al lavoratore non basterà dedurre l'avvenuto licenziamento orale, ma dovrà dimostrare (anche mediante prova per testi) di essere stato allontanato dal posto di lavoro senza possibilità di farvi rientro. Licenziamento orale e offerta di conciliazione
L'indirizzo tradizionale è nel senso che il licenziamento orale non debba essere impugnato a pena di decadenza, difettando l'oggetto stesso (ossia, l'atto scritto) dell'impugnazione. Al riguardo l'art. 6, comma 1, L. 15 luglio 1966, prevede, appunto, che “Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta (…)”. Di conseguenza il lavoratore può esercitare direttamente l'azione in giudizio senza neppure essere assoggettato a vincoli di prescrizione, essendo il licenziamento orale, per come visto, affetto da inefficacia. In tale prospettiva, potrebbe sostenersi la non applicabilità al licenziamento orale dell'art. 6 (concernente l'offerta di conciliazione) del menzionato D.Lgs. n. 23 del 2015, essendo ivi previsto, tra l'altro, che il datore di lavoro possa offrire, “entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento”, un determinato importo mediante assegno circolare. Potrebbe però anche replicarsi che la possibilità di impugnativa, quale requisito implicito richiesto dalla norma, non sia indispensabile per il funzionamento della procedura, bastando, in definitiva, che il lavoratore accetti l'assegno consegnato a seguito dell'offerta datoriale. Il problema della revoca del licenziamento orale
Si tratta di stabilire se possa applicarsi al licenziamento orale la disposizione dell'art. 5 del citato D.Lgs. n. 23/2015, il quale prevede che “nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto”. Potrebbe ritenersi, da un lato, che l'impugnazione del licenziamento richiamata nella norma sia quella obbligatoria per legge, ossia riferita ad un atto espulsivo comunicato in forma scritta; onde non potrebbe riguardare il licenziamento orale, avverso il quale, per come visto precedentemente, non è contemplata la predetta impugnazione. Sennonché sembra eccessivo precludere al datore la possibilità di revocare il licenziamento in questione. Per ricondurre a coerenza il sistema potrebbe innanzitutto ipotizzarsi - ma la questione andrebbe approfondita - che la norma sopra riportata sia destinata certamente ad operare allorquando il lavoratore, pur non essendovi tenuto, abbia comunque impugnato (a titolo prudenziale, per come in pratica spesso avviene) il licenziamento. Nel caso in cui il lavoratore non abbia provveduto in tal senso, sorge però la difficoltà di concepire un termine massimo - la cui sussistenza giustifica i benefici legali derivanti dalla revoca - entro il quale quest'ultima possa avvenire, sembrando arduo giungere alla conclusione estrema che il licenziamento orale sia sempre revocabile. Potrebbe immaginarsi, ad esempio, un termine congruo - entro il quale il datore possa tornare sui suoi passi - ricavato dalla somma di sessanta giorni, virtualmente decorrenti dalla data di intimazione del licenziamento, ai quali aggiungere i quindici giorni di legge. Qualora, per converso, si optasse, comunque, per la non revocabilità del licenziamento orale, al datore che volesse evitare le sanzioni connesse alla declaratoria di illegittimità non rimarrebbe che rinnovare il licenziamento in forma scritta. In tal modo, però, sarebbero comunque dovute le cinque mensilità; e si tratterebbe di valutare la bontà di una domanda del lavoratore - pur non reintegrabile, di fatto, per avvenuta cessazione sopravvenuta del rapporto - volta al conseguimento dell'indennità sostitutiva; potendo qui sostenersi che l'ordine di reintegra vada comunque emesso o sia dato per implicito, onde giustificare il pagamento delle retribuzioni sino alla data del nuovo licenziamento intimato per iscritto. In conclusione
Il legislatore della Riforma ha ritenuto di non dover intervenire, in chiave modificativa, sulla disciplina generale del licenziamento orale, riproponendo, nella sostanza, il meccanismo di “tutela forte” già introdotto dalla legge Fornero, ed in tal modo riconfermando l'abolizione dei rimedi di diritto comune per i licenziamenti orali intimati nelle piccole aziende. L'idea che il licenziamento orale (che continua ad essere ammissibile nel lavoro domestico, nel lavoro in prova e nell'ambito dei rapporti con lavoratori aventi diritto alla pensione) si risolva, quasi completamente (permanendo delle differenze sostanziali), in un “non” licenziamento, deriva, per lo più, dall'esigenza di esonerare il giudice dalla gestione di un quadro istruttorio – concernente non solo il profilo dell'avvenuto licenziamento, bensì quello, non secondario, del tempo della relativa intimazione - che sovente potrebbe presentarsi di assai ardua lettura. Permane pertanto inalterato, in tale materia, l'obiettivo del legislatore di rendere agevole, sul piano istruttorio, l'accertamento della sussistenza del licenziamento - quale atto, di portata considerevole, da comunicarsi necessariamente per iscritto -, cui sono correlati effetti, delicati, di varia natura, ordinati secondo scansioni temporali predefinite. |