Licenziamento discriminatorio e ritorsivo: nozione oggettiva di discriminazione

27 Maggio 2016

La sentenza in commento si presenta particolarmente interessante in quanto, per la prima volta, i giudici di legittimità aderiscono con chiarezza alla nozione "oggettiva" della fattispecie discriminatoria fatta propria da un costante orientamento dei giudici comunitari, rimarcando la distinzione tra l'istituto del licenziamento discriminatorio e quello del licenziamento ritorsivo per il quale, a differenza del primo, occorre la prova della sussistenza di un motivo illecito determinante.
Massima

La discriminazione - diversamente dal motivo illecito di cui all'

art. 1345 c.c.

- opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Va perciò distinta l'ipotesi del licenziamento discriminatorio ai sensi dell'

art. 4 della L. n. 604/1966

e dell'

art. 15 della L. n. 300 del 1970

, che, come disposto dall'

art. 3 della L. n. 108 del 1990

, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta, dalla ipotesi del licenziamento ritorsivo per il quale è invece necessaria la prova del motivo illecito unico e determinante. (Nella fattispecie, relativa ad una lavoratrice licenziata dopo aver manifestato al datore di lavoro l'intenzione di sottoporsi ad inteventi di fecondazione in vitro, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretto il ragionamento dei giudici di merito che avevano qualificato come discriminatorio il recesso datoriale dando rilievo unicamente al rapporto di causalità tra il trattamento di fecondazione e il licenziamento e ritenendo irrilevanti le ragioni economiche addotte dal datore a giustificazione del recesso).

Il caso

La signora S.S., che svolgeva mansioni di segretaria presso uno studio professionale con meno di 16 dipendenti, ricorreva al Tribunale di Roma nei confronti del datore di lavoro chiedendo che venisse accertata la nullità del licenziamento comminatole assumendo che lo stesso era stato determinato esclusivamente dalla sua espressa intenzione di assentarsi dal lavoro per sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale all'estero e che dunque era dovuto ad un motivo illecito e/o discriminatorio, con conseguente condanna del datore alla reintegra nelle mansioni e al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra sulla base dell'ultima retribuzione dovuta; in via gradata, chiedeva che venisse dichiarato ancora in essere il rapporto e che il datore venisse condannato al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla valida risoluzione del rapporto; in via ulteriormente subordinata, chiedeva che venisse dichiarata la illegittimità del licenziamento con condanna del convenuto alla riammissione in servizio e, in mancanza, al risarcimento del danno.

Il Tribunale dichiarava la illegittimità del licenziamento per violazione del procedimento disciplinare di cui all'

art. 7 dello Statuto dei Lavoratori

e, conseguentemente, condannava il datore di lavoro alla riassunzione della ricorrente e, in mancanza, al risarcimento del danno quantificato in sei mensilità dell'ultima retribuzione. La lavoratrice impugnava la pronuncia innanzi alla Corte di Appello di Roma che, in parziale riforma della sentenza, dichiarava la nullità del licenziamento perché discriminatorio (o comunque dovuto ad un motivo illecito determinante) e, per l'effetto, ordinava la reintegrazione della ricorrente e condannava il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla reintegra, oltre accessori, ed al versamento dei contributi. Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione lamentando i vizi di violazione di legge e di carenza o contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza del motivo discriminatorio o illecito del licenziamento.

La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, rigetta il ricorso evidenziando che la sentenza impugnata, con motivazione logica e coerente, fondata sul tenore della comunicazione del licenziamento, aveva fatto corretta applicazione del principio di non discriminazione per ragioni di genere in quanto aveva accertato che il licenziamento de quo era stato essenzialmente determinato dal proposito manifestato dalla lavoratrice di sottoporsi alla inseminazione artificiale e tanto doveva bastare per ritenere violato il diritto comunitario e il diritto nazionale in tema di parità di trattamento, non occorrendo invece la prova di un motivo illecito del recesso, unico e determinante. La Corte evidenzia che tale assunto è ancor più vero nel caso di discriminazioni dirette per le quali l'art. 2 n. 2 primo trattino della direttiva 76/207/CEE non consente alcuna deroga, a differenza di quanto previsto per le discriminazioni indirette che, ai sensi del secondo trattino del citato art. 2 n. 2, possono essere giustificate "da una finalità legittima" sempre che "i mezzi impiegati per il loro conseguimento siano appropriati e necessari".

Le questioni

La pronuncia si presenta particolarmente interessante in quanto, per la prima volta, i giudici di legittimità aderiscono con chiarezza alla nozione "oggettiva" della fattispecie discriminatoria fatta propria da un costante orientamento dei giudici comunitari, rimarcando la distinzione tra l'istituto del licenziamento discriminatorio e quello del licenziamento ritorsivo per il quale, a differenza del primo, occorre la prova della sussistenza di un motivo illecito determinante.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema, nell'esaminare la legittimità di un licenziamento intimato ad una lavoratrice che aveva manifestato l'intenzione di assentarsi dal lavoro per sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale, è chiamata ad affrontare lo spinoso tema della nozione di "discriminazione", rilevante al fine dell'accertamento della nullità del recesso e dunque, dell'applicazione delle tutele di cui all'

art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

, richiamate dall'

art. 3 della L. n. 108 del 1990

.

Nella fattispecie, il datore di lavoro, soccombente in appello, denunciava con il primo motivo di ricorso la violazione o falsa applicazione degli

articoli 32

e

37 della Costituzione

e

degli articoli 1 e 5 della direttiva 76/207/CEE (sulla parità di trattamento fra uomi

ni e donne in tema di accesso al lavoro, formazione, promozione professionale e condizioni di lavoro; direttiva poi confluita nella

direttiva 54/2006

),

in relazione agli

articoli 1345

, 1324, 1418 e 2697 c.c.

e

dell'art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dell'art. 8 del D.Lgs. 196/2000, ritenendo

che la discriminatorietà e la natura unica e determinante del motivo illecito dovevano ritenersi escluse dal tenore della lettera di licenziamento in cui, a suo dire, emergeva che il recesso era dovuto a ragioni esclusivamente economiche, e, in particolare, alle ricadute negative sull'attività dello studio professionale del protrarsi dell'assenza della lavoratrice, la quale, peraltro, con tale condotta, sarebbe venuta meno ai suoi obblighi contrattuali ponendo in essere un utilizzo abusivo dell'istituto della assenza per malattia.

La Suprema respinge la censura, evidenziando che correttamente la Corte territoriale aveva fatto applicazione della

direttiva 76/207/CEE

sulla parità di genere configurando una ipotesi di discriminazione diretta e richiamando, in proposito, un precedente dei giudici europei relativo ad una lavoratrice licenziata nel periodo in cui era in congedo per malattia in attesa dell'impianto in utero degli ovuli fecondati in vitro (

Corte di Giustizia, sentenza 26 febbraio 2008 in causa C-506/06

). In tale precedente, la Corte di Giustizia aveva chiarito che spettava al giudice nazionale il compito di verificare se siffatto licenziamento fosse stato determinato essenzialmente dalla sottoposizione della lavoratrice al trattamento di fecondazione in vitro e che il giudice, qualora avesse accertato il nesso tra suddetto trattamento e il recesso datoriale, doveva necessariamente concludere per la natura discriminatoria del licenziamento ai sensi

dell'art. 2 n. 2 primo trattino della direttiva 76/207, trattandosi di discriminazione diretta (che, a differenza di quella indiretta, non ammette nessuna deroga).

La Corte di Giustizia aveva infatti evidenziato che "

gli interventi di cui trattasi nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento nell'utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione, riguardano direttamente soltanto le donne. Ne consegue che il licenziamento di una lavoratrice a causa essenzialmente del fatto che essa si sottoponga a questa fase importante di un trattamento di fecondazione in vitro costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso"

(punto 50 della sentenza 26 febbraio 2008 in causa C-506/06).

Alla luce di tale orientamento comunitario, i giudici di legittimità ritengono che l'accertamento relativo alla sussistenza - desumibile dalla lettera di licenziamento - tra la richiesta della lavoratrice di protrarre la sua assenza per sottoporsi al trattamento e il recesso datoriale, debba ritenersi di per sé sufficiente a configurare un licenziamento discriminatorio per motivi di genere e che, conseguentemente, debba far ritenere irrilevanti le ragioni economiche addotte dal datore di lavoro a giustificazione del recesso.

Tale assunto segna una importante evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che in questo modo fa propri gli esiti del lungo processo giurisprudenziale della Corte di giustizia europea in materia di diritto antidiscriminatorio

(

Corte Giust. 8

novembre

1990, causa C-179/88

;

Corte Giust. 13

maggio

1986, causa C-170/84

;

Corte Giust. 22

aprile

1997, causa C-180/95

), secondo cui per ritenere accertata una condotta discriminatoria non occorre la prova dell'intento discriminatorio ma è sufficiente l'effetto pregiudizievole dell'atto in quanto la discriminazione deriva direttamente dalla oggettiva ingiustificata disparità di trattamento (cd. "concezione oggettivistica" del divieto di discriminazione).

A tale concezione "oggettivistica" ha aderito la più recente giurisprudenza di merito italiana (

Trib. Roma 22 aprile 2015

, v. nella sezione Casi e sentenze di merito - Licenziamento illegittimo e indennità sostitutiva della reintegra;

Trib. Roma 14 ottobre 2014

in GiustiziaCivile.com 11 maggio 2015; tra le pronunce più risalenti, si v. Trib. Prato 21 novembre 2007 in DL Riv. critica dir. Lav. 2008, 2, 574; contra, nel senso della identificazione tra licenziamento discriminatorio e per motivo illecito, si v. ordinanze

Trib. Milano 13 febbraio 2013

in www.bollettinoadapt.it;

Trib. Novara 13 settembre 201

3

) e parte della dottrina (si v., per tutti,

A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, in

Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia

diretto da F. Galgano, Padova, 2010, 49 ss;

M.V. Ballestrero, Discriminazione, ritorsione, motivo illecito. Distinguendo in www.osservatoriodiscriminazioni.org).

Al contrario, la giurisprudenza di legittimità sinora aveva ritenuto necessario che il lavoratore dimostrasse, anche in via presuntiva, l'intento discriminatorio unico e determinante del recesso, così assimilando le due fattispecie di licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo, quest'ultimo da intendersi

dovuto ad una ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore e dunque viziato da un motivo illecito

(in tal senso si sono espresse

Cass. 16 luglio 2015, n. 14928

;

Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986

;

Cass. 8 gennaio 2015, n. 63

;

Cass. 6 giugno 2013, n. 14319

;

Cass. 8 agosto 2011, n. 17087

;

Cass. 18 marzo 2011, n. 6282

;

Cass. 9 luglio 2009, n. 16155

).

La Cassazione nella sentenza de qua opera invece una netta distinzione

tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo

: mentre per la sussistenza del licenziamento discriminatorio è sufficiente accertare il nesso tra la condizione di svantaggio del lavoratore e il recesso datoriale - nesso che può evincersi da elementi di fatto, anche di carattere statistico che comprovino in via presuntiva l'esistenza di atti o comportamenti discriminatori - per la sussistenza del licenziamento ritorsivo occorre invece provare la sussistenza di una volontà illecita del datore di lavoro, esclusiva e determinante del licenziamento.

Osservazioni

La sentenza in commento si presenta particolarmente significativa in quanto traccia una chiara "direttiva" ermeneutica sull'istituto del licenziamento discriminatorio, allineando, con la nozione di discriminazione “oggettiva”, la giurisprudenza di legittimità italiana agli orientamenti comunitari.

Con un importante riflesso sul piano processuale: alla luce di tale orientamento viene resa meno gravosa per il lavoratore la prova della discriminazione, incombendo sullo stesso l'onere di provare, anche in via presuntiva, la sola sussistenza

del fattore di discriminazione e del suo nesso con il recesso datoriale

, non invece la sussistenza di un motivo illecito unico e determinante. Ciò in un regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi in cui

la fattispecie discriminatoria è destinata ad acquisire sempre maggiore rilevanza, considerato che garantisce al lavoratore una tutela altrimenti negata (così, tra gli altri, M.T. Carinci, In the spirit of flexibility. An overview of Renzi's Reforms (the so-called Jobs Act) to 'improve' the Italian Labour Market, in W.P. CSDLE Massimo D'Antona, n. 285/2015, 6 ss; S.B. Caruso, Il Contratto a tutele crescenti tra politica e diritto: variazioni sul tema, in W.P. CSDLE Massimo D'Antona, n. 265/2015, 20 ss).

Si ricorda, infatti, che l'ambito della tutela reintegratoria

, per quanto ridotto ad extrema ratio

a partire dalle modifiche apportate all'

art. 18 della L. n. 300 del 1970

dalla

L. n. 92 del 2012

,

opera in tutti i casi di licenziamento discriminatorio.

In particolare, come è noto, ai sensi degli

artt. 2

e

3 del

D

.

L

gs

.

n. 23 del 2015

- applicabili limitatamente agli assunti con contratto a tutele crescenti - viene riconosciuta la reintegra nelle (sole) ipotesi di

licenziamento discriminatorio, nullo, orale, per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore e per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale.

In questa cornice normativa, la pronuncia de qua offre lo spunto per provare a tracciare la fattispecie del licenziamento discriminatorio. A tal proposito, occorre confrontare

l'

art.

2

del

D

.

L

gs

.

n. 23 del 2015

(che, come detto, si applica solo ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti) con l

'

art. 18 della L. n. 300 del 1970

(che continua ad applicarsi in tutti gli altri casi).

L'

art. 18 della L. n. 300 del 1970

riconosce la tutela reintegratoria piena nelle ipotesi di licenziamento "discriminatorio ai sensi dell'

articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108

, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al

decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198

, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al

decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151

, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'

ar

ticolo 1345 del codice civile

".

L'

art. 2 comma 1

D

.

L

gs. n. 23 del 2015

riconosce la tutela reintegratoria piena nelle ipotesi di licenziamento nullo perché “discriminatorio a norma dell'

articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300

, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge".

Dal confronto tra le due norme emerge che il legislatore delegato del 2015, nel fare riferimento al licenziamento discriminatorio, ha escluso il richiamo all'

art. 3 della L. n. 108 del 1990

(che a sua volta richiama l'

art. 15 dello Statuto dei Lavoratori

) e si è limitato a rinviare direttamente all'

art. 15 dello Statuto dei Lavoratori

e alle ragioni discriminatorie ivi contenute.

Ci si chiede innanzitutto se il richiamo alle ragioni discriminatorie contenute nell'art. 15 suddetto debba intendersi come esemplificativo oppure tassativo.

Si ritiene che il richiamo sia meramente esemplificativo.

A tale conclusione porta

l'inserimento, ad opera del

D

.

L

gs. n. 216

del

2003

, nel testo dell'

art. 15 dello Statuto dei Lavoratori

(prima riferito alle sole ipotesi di discriminazione per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali, di lingua, di sesso), delle ulteriori ragioni di handicap, di età, basate sull'orientamento sessuale e sulle convinzioni personali del lavoratore, che hanno sostanzialmente “dilatato il novero degli interessi vietati fino a ricomprendervi qualunque finalità, oggettivamente perseguita, diversa da quelle positivamente ammesse dall'ordinamento” (così M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, relazione al XVII Congresso nazionale organizzato dalla A.I.D.LA.S.S. dal 7 al 9 giugno 2012, 23 ss; contra, in favore della natura tassativa delle ragioni discriminatorie di cui all'

art. 15 St. Lav

., v. tra gli altri, R. Bortone, voce Discriminazione (divieto di), in Digesto Discipline Pubblicistiche Comm., 1990, 25; G. Santoro Passarelli, Diritto dei lavori, Torino, 2013, 75).

Del resto, come evidenziato da autorevole dottrina (

V. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, W.P. CSDLE n. 259/2015, 2

2 ss), ritenere il contrario farebbe emergere dubbi di costituzionalità dell'art. 2 citato per irragionevolezza

ex

art. 3 Cost.

in quanto

"

non è possibile, alla luce anche dell'ordinamento europeo, effettuare una "graduatoria" nel disvalore delle varie forme di discriminazione e quindi limitare la disciplina della reintegrazione solo ad alcune di esse" (così

V. Speziale,

cit.)

.

Se questo sembra ritenersi l'ampio ambito oggettivo del licenziamento discriminatorio - basato sui fattori di discriminazione elencati nell'

art.

15 dello Statuto dei Lavoratori

, estensibili a qualunque altra ipotesi di discriminazione obiettivamente perseguita - occorre ora chiedersi quale possa essere quello del licenziamento per motivo illecito determinante e se le due fattispecie debbano essere distinte.

Orbene, nell'

art. 2

del

D

.

L

gs. n. 23 del 2015

, il legislatore delegato omette ogni espresso riferimento al licenziamento nullo per motivo illecito determinante di cui all'

art. 1345 c.c.

Tuttavia, l'art. 2 suddetto fa riferimento agli "altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge" ed è in questi che si ritiene di dover far rientrare il licenziamento viziato da motivo illecito, da ricondurre, in particolare, al caso previsto dal comma 2 dell'

art. 1418 c.c.

che sancisce la nullità del contratto (e degli atti unilaterali quali il licenziamento, in virtù dell'

art. 1324 c.c.

) anche nelle ipotesi di cui all'

art. 1345 c.c.

(v. nella sezione Focus il commento di M. Russo, Licenziamento discriminatorio e nullo nel Jobs Act).

Se ne deduce che, tenendo distinto l'istituto del licenziamento discriminatorio “a norma dell'

articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300

, e successive modificazioni”, da quello viziato da motivo illecito unico e determinante ai sensi dell'

art. 1345 c.c.

, riconducibile “agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, il legislatore sembra aderire proprio alla nozione "oggettiva" della fattispecie discriminatoria (in tal senso si v. S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, W.P. CSDLE Massimo D'Antona, n. 246/2015, 6 ss), con conseguenti riflessi sul piano probatorio in quanto, come detto, solo per il licenziamento viziato da motivo illecito incomberà sul lavoratore la prova della sussistenza del motivo unico e determinante.

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